Aung San Suu Kyi

Ha dimostrato che un ideale, pur lontano e difficile che sia, può essere raggiunto. Ha dimostrato che anche un Paese retto da una frangia di uomini violenti, la via della democrazia può essere riaperta. Ma al tempo stesso tutti noi sappiamo che i cinque anni del governo da lei guidato sono stati, ad essere magnanimi, deludenti in fatto di promesse mantenute.
PIERGIORGIO PESCALI
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Il golpe birmano ha portato di nuovo alla ribalta la figura di una Aung San Suu Kyi votata alla difesa dei diritti umani.
I militari, che hanno flagellato il paese per 48 anni (dal 1962 al 2010) hanno ripreso il potere e, anche se le loro leve e gli ufficiali che li comandano sono ben diversi da chi li ha preceduti, la preoccupazione di un ritorno a un regime semidittatoriale è ben presente.

Molti paesi, in particolare quelli più legati alle democrazie europee e statunitensi, hanno espresso la loro disapprovazione e l’inquietudine per la sorte di Aung San Suu Kyi, la consigliera di Stato, ministra degli esteri, ministra dell’ufficio del presidente, presidente de facto, presidente della Lega nazionale della democrazia, presidente del Comitato per la pace nel Rakhine e presidente del Comitato per il dialogo con le nazioni etniche del Myanmar che il 31 gennaio è stata posta agli arresti domiciliari.

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Aung San Suu Kyi ha già conosciuto le restrizioni di movimento e di parola durante tutti gli anni Novanta del XX secolo fino al primo decennio del XXI. Vent’anni di vita durante i quali si è sempre battuta perché il paese ritornasse a essere chiamato Birmania, perché si liberassero i prigionieri politici, perché il popolo potesse esprimere le proprie opinioni, perché fosse data libertà di stampa, perché alle etnie fossero riconosciuti i propri diritti, anche quelli di autonomia, e perché tutte le religioni fossero trattate alla pari in una nazione dove il buddismo è la fede più praticata.

La sua lotta le ha dato fama e premi, a partire da quel Premio Sakharov conferitole nel 1990 quasi in sordina, perché allora pochissime persone sapevano chi fosse quella bella signora quarantacinquenne dal fisico asciutto. Da allora organizzazioni e associazioni fecero a gara per iscrivere il suo nome, proferito spesso in modo storpiato e con voce balbettante, tra i loro registri: premio Nobel per la Pace, cittadinanze onorarie, lauree ad honorem, ambasciatrice di organizzazioni per i diritti umani…

Quando fu finalmente liberata, nel novembre 2010 su ordine di un ex militare e suo ex nemico, Thein Sein, il mondo esultò assieme ai birmani. Non ai cittadini del Myanmar. Proprio ai birmani intesi come etnia. Perché per gli altri cittadini del Myanmar, ma di etnia non birmana, i kachin, i rohingya, i rakhine, i mon, i karen e molte altre nazioni, Aung San Suu Kyi non era altro che… una bamar, una birmana, appunto. Non una di loro, ma una birmana appartenente a quella etnia che li comandava da decenni, a cui appartenevano tutti i generali e a cui erano appartenuti tutti i leader di governo che avevano disatteso le promesse a loro fatte.

Tutti noi abbiamo enormi debiti verso Aung San Suu Kyi: ha dimostrato che un ideale, pur lontano e difficile che sia, può essere raggiunto. Ha dimostrato che anche in un paese retto da una frangia di uomini violenti la via della democrazia può essere riaperta. 

Ma al tempo stesso tutti noi sappiamo che i cinque anni di governo guidato da Aung San Suu Kyi sono stati, a essere magnanimi, deludenti in fatto di promesse mantenute. A partire da quella lotta per il nome, Birmania vs. Myanmar, su cui tanto Aung San Suu Kyi quanto le organizzazioni che la sostenevano avevano speso tsunami di parole, durante gli anni dell’opposizione, ma a cui appena raggiunto il potere si sono fin troppo facilmente adeguati.

I diritti umani, tanto invocati dalla Lady, sono stati sacrificati, a quanto dicono i sostenitori, per mantenere la fragile democrazia instauratasi dopo il 2010. Poco importa se a vederla diversamente sono i rappresentanti dell’Acnur, l’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati che ha più volte puntato il dito verso la stessa Aung San Suu Kyi. Poco importa se 17 premi Nobel per la pace hanno scritto una lettera in cui accusavano la loro co-laureata di pesanti responsabilità nella vicenda dei rohingya. Poco importa se decine di organizzazioni, tra cui Amnesty International, hanno ritirato le onorificenze a lei consegnate in passato. Poco importa se la stessa Università di Oxford ha fatto togliere la targa commemorativa che ricordava che proprio in quelle aule Aung San Suu Kyi aveva insegnato. Poco importa se, in un’intervista alla BBC, compagnia televisiva in prima linea nel sostenerla fino a quando si è trovata al governo, la Lady abbia sbottato in modo poco signorile di fronte alla sua intervistatrice presentatasi con il velo musulmano.

Tutto questo è liquidato dai suoi fan come “incomprensione”, “non conoscenza della storia e della situazione birmana”. Aung San Suu Kyi sarebbe stata, in poche parole, vittima più o meno inconsapevole, ma sicuramente innocente, di un gioco di equilibri tra lei e i militari. O se vogliamo, tra lei e Min Aung Hlaing, il principale attore del colpo di Stato. Entrambe ambiziose, permalose, queste due figure si sono sempre scontrate sul piano soggettivo oltre che politico.

Tra chi appoggia ancora incondizionatamente, “senza se e senza ma”, l’operato di quella che ormai per molti è l’ex eroina birmana, è Piero Fassino. In una dichiarazione all’indomani del colpo di Stato, il presidente della commissione esteri della camera e già inviato speciale per la Birmania tra il 2007 e il 2011 ha espresso la sua solidarietà alla Lady.

Il testo contiene una serie di inesattezze storiche, a partire da quella frase in cui si afferma che

il ruolo dei militari è stato sempre centrale, fin dalla lotta contro l’occupazione giapponese e, poi, per l’indipendenza dalla dominazione britannica guidata dal generale Aung San. 

Aung San non ha lottato contro i giapponesi. Anzi, ne è stata fedele alleato tanto da essere lui, in qualità di Ministro della guerra, a dichiarare guerra alla Gran Bretagna e agli Alleati. Con i giapponesi Aung San si è addestrato per combattere il colonialismo britannico, è stato a Tokyo, ha firmato la dichiarazione d’indipendenza del suo paese. Sempre con l’appoggio giapponese, Aung San ha fondato l’esercito birmano. E solo a marzo del 1945, quando ormai era chiaro che il Giappone non poteva più contrastare l’avanzata britannica aiutata dalle nazioni etniche, ha proposto di cambiare campo e saltare sul carro del vincitore. Montgomery gli disse chiaramente che i britannici se ne facevano un baffo del suo aiuto e che avrebbe potuto restarsene lì, dove era sempre stato, cioè a fianco dei giapponesi ad aspettare il suo turno per essere processato al termine del conflitto. Lui ha insistito perché non accettava l’onta della sconfitta e una sua caduta in disgrazia, accettando in cambio della sua impunità un prolungamento del dominio britannico sul paese.

Un po’ diversa da come l’ha descritta il presidente della Commissione Esteri della Camera, così come diversa è la situazione del paese guidato da Aung San Suu Kyi.

Fassino scrive che sotto il suo governo, la Signora avrebbe “liberato tutti i prigionieri politici, abolito ogni forma di censura, adottato una legislazione democratica, aperto il paese agli investimenti stranieri, concluso accordi di pacificazione e autonomia con le frazioni armate delle minoranze etniche.”

Secondo invece l’AAPP (Assistance Association for Political Prisoners, la stessa associazione a cui i movimenti per i diritti umani e la stessa Lega nazionale per la democrazia facevano riferimento per condannare il regime militare negli anni di prigionia di Aung San Suu Kyi), al dicembre 2020 in Myanmar c’erano (testuale) “601 prigionieri politici (196 in prigione in attesa di processo, 42 incriminati e 363 in attesa di processo fuori prigione)”. E, sempre nelle parole dell’AAPP, nel corso del 2020, “la situazione della libertà di parola in Birmania non ha registrato miglioramenti e anzi è in serio peggioramento.”

L’apertura agli investimenti stranieri ha aumentato gli squilibri ecologici ed economici e per favorire gli investimenti cinesi, tailandesi e indiani Aung San Suu Kyi non ha esitato (lei in persona, non i militari) a decretare la cacciata dei contadini kachin, shan e mon dalle terre espropriate.

Anche i citati “accordi di pacificazione e autonomia con le fazioni armate delle minoranze etniche” sono stati conclusi non da Aung San Suu Kyi (che anzi è stata aspramente criticata da numerose organizzazioni e dallo stesso inviato giapponese del programma per la riconciliazione nazionale, Yohei Sasakawa), ma dal Tatmadaw.

Infine, la parte più spinosa (anche se altre tragedie sono in atto nel paese): quella dei rohingya. Secondo Fassino gli unici responsabili sarebbero i militari, che hanno utilizzato “freddamente” la “repressione della minoranza musulmana dei Rohingya (…) per mettere in difficoltà Suu Kyi di fronte al suo popolo e alla comunità internazionale.”

Più volte la comunità internazionale, che secondo Fassino sarebbe stata ingenuamente raggirata dai militari (che ricordo negli anni della giunta erano dipinti come sempliciotti e grulli) ha chiesto ad Aung San Suu Kyi una ferma condanna alle violenze perpetrate nei confronti dei musulmani (ma anche nei confronti dei kachin e dei non cristiani) senza ottenere risposta. Anzi, la stessa Aung San Suu Kyi ha volutamente accentuato la tensione cercando alleanza tra la sangha buddista e le sue frange più estremiste per ribadire l’unicità della cultura buddista dell’intera nazione del Myanmar.

E i già citati ritiri dei vari premi internazionali a suo nome (quello Nobel per la pace, per statuto, una volta assegnato non può essere revocato) sono bellamente e opportunamente ignorati.

È condivisibile la conclusione della dichiarazione di Fassino in cui si afferma che “è responsabilità morale e politica della comunità internazionale e di ogni coscienza democratica non lasciare solo quel martoriato paese nella sua lotta per la democrazia e la libertà”.

Esattamente come è responsabilità morale e politica della comunità internazionale e, aggiungerei, della politica italiana criticare chi si macchia di violazione di diritti umani.

Chiunque esso sia e verso chiunque questi diritti vengano negati.

Aung San Suu Kyi ultima modifica: 2021-02-04T14:45:04+01:00 da PIERGIORGIO PESCALI
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