Le tante facce del voto catalano

Si voterà il 14 febbraio per il rinnovo del governo dell’Autonomia. Forse. Solo lunedì 8 avremo la conferma definitiva della data. Un’incertezza che rappresenta bene la crisi politica della Catalogna.
ETTORE SINISCALCHI
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La Catalogna voterà il 14 febbraio per il rinnovo del governo dell’Autonomia. Forse. Solo lunedì 8 avremo la conferma definitiva della data. Un’incertezza che rappresenta bene la crisi politica catalana. Guardare a come sia stato possibile può forse aiutare a capire qualcosa sul caos istituzionale e politico catalano.

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Alla fine di settembre il Tribunale supremo inabilitò il presidente della Generalitat, Quim Torra, di Junts per Catalunya (JxC) di Carles Puigdemont, l’ex presidente della “sfida indipendentista” autoesiliatosi a Waterloo e ora deputato europeo. Un’inabilitazione discussa, a seguito di una condanna per non aver ottemperato all’ordine di un tribunale di levare dalla facciata della Generalitat insegne indipendentiste durante il periodo elettorale del 2017, ma con valore legale. I poteri sarebbero dovuti andare al vice presidente Pere Aragonès – di Esquerra republicana da Catalunya (Erc) – e l’Assemblea avrebbe dovuto scegliere un nuovo presidente. Ma l’indipendentismo vive di simboli e quindi Aragonès non accettò titolo né funzione di presidente e un nuovo presidente non venne proclamato, giungendo a mettere in scena la mancata presa di possesso dell’ufficio e della scrivania del presidente da parte del vicepresidente, in un rito di ostensione fisica dell’assenza di Torra – e di Puigdemont. A questo punto scattò per legge il meccanismo che, stante il vuoto alla guida della regione e in caso di mancata convocazione delle elezioni, avrebbe portato la Catalogna al voto il 14 febbraio.

La data, col tempo, suscita riflessioni. Si dovrebbe andare al voto nella prevedibile terza ondata dell’epidemia, con persone non in grado di esercitare pienamente o per nulla il diritto di voto, per confinamento, malattia o prevenzione sanitaria. Vero che si è già votato nei mesi precedenti in Galizia e Paese basco ma quelle elezioni erano state convocate precedentemente all’emergenza epidemica e per quella rimandate – e anche lì, il vulnus al diritto di voto fu molto discusso. Sulla base di queste considerazioni l’ufficio di Presidenza catalano, composto dai partiti della maggioranza, decise di rimandare il voto ma il decreto del Govern, firmato da Aragonès, non se ne curò e usò il termine “sospensione”. Uno sproposito enorme. Un vice presidente, che non accetta di essere presidente facente funzioni, emette un decreto come un presidente pretendendo che sia il potere esecutivo a decidere se e quando tenere elezioni che, si badi bene, non aveva neanche convocato. Il decreto fa la data del 30 maggio, ma indicativa e sempre soggetta al volere dell’esecutivo. Inoltre fa anche altri pasticci, nel tentativo di affrontare questioni materiali, come il compimento della maggiore età dei nuovi votanti che comporta anche la possibilità di presentarsi come candidati, sancisce una sorta di liberi tutti anche per la presentazione di liste appena formate. In complesso il testo del decreto infrange numerose norme, ribalta gli equilibri dei poteri dello stato e “sospende” il diritto di voto dei cittadini subordinandolo alla volontà dell’esecutivo. Arrivano quindi i ricorsi al Tribunal Superior de Justicia de Cataluña che ne ammette uno, deliberando che il voto si terrà nella data “legale” del 14 febbraio. 

E siamo così a una campagna elettorale perfettamente a tono col presente, se l’era-Covid è l’era dell’incertezza. Prima di guardare al confronto politico, vale la pena soffermarsi sulla regolamentazione delle operazioni di voto nell’era-Covid. Le operazioni di voto in Spagna sono molto più caotiche che da noi. I seggi sono affollati, la riservatezza del voto non è obbligatoria. Il voto si esprime scegliendo delle schede prestampate – papeletas – e mettendole nelle buste – sobres – che poi si infilano nelle urne di plastica trasparenti; laddove si possono selezionare da liste bloccate dei nomi basta qualsiasi penna ci si porti da casa. 

Per ridurre al minimo la permanenza nei seggi si stanno spedendo a casa le buste con le papeletas che potranno essere consegnate già compilate, si regola la circolazione nei seggi – entrate, uscite, dove e come fare le code –, si introducono cabine come le nostre al posto di quelle con le tendine. Inoltre si suggerisce una regolazione del flusso dei votanti per fasce orarie. Dalle 9,00 alle 12,00 per le persone a rischio, dalle 12,00 alle 19,00 tutti gli altri elettori, tranne i positivi al Covid e quelli in quarantena che avranno come fascia consigliata quella dalle 19,00 alle 20,00. In Spagna è possibile votare per posta e le autorità invitano a approfittare della modalità, potenziando gli uffici che attuano il meccanismo. Se il ricorso al voto per posta sta vedendo un aumento esponenziale, criticità emergono dai seggi, con molti componenti che rifiutano di rispondere alla convocazione. La partecipazione è stata molto alta nelle ultime due tornate elettorali, il 77,46 per cento nel 2015 e l’81,94 per cento nel 2017. La tenuta del meccanismo elettorale davanti al Covid sarà una prova importante per la Catalogna e per la Spagna e fornirà indicazioni utili agli altri paesi.

Salvador Illa

Il voto ha diverse facce. Ha una carcassa da spolpare, il consenso raccolto da Ciudadanos nel 2017, primo partito con oltre un milione e centomila voti, che sembra andare a destra a Vox e a sinistra al Psc-Psoe. Mette alla prova il sorpasso di Erc su JxC che sembra ora meno certo di prima. Misura la capacità di recupero dei socialisti catalani (Psc-Psoe) che già si è manifestata nelle ultime tornate elettorali. I socialisti hanno sganciato la “bomba-Illa”, la candidatura dell’ormai ex ministro della Salute, che ha scompaginato le carte, imprimendo, perlomeno nei sondaggi, una forte spinta al Psc-Psoe (il Psoe è un partito federale). Infine, nella destra nazionalista centralista, le urne tastano il polso dei rapporti di forza tra Pp e Vox. 

Nella lotta per l’egemonia nell’indipendentismo catalano si modella lo sviluppo futuro della crisi catalana. Erc ha aperto al dialogo con Madrid, col governo di coalizione Psoe-Podemos: la posta in gioco è riportare alla politica il conflitto territoriale tra l’Autonomia e lo Stato, irresponsabilmente ceduto ai tribunali. Ma lo ha fatto senza il coraggio di mettere in discussione la narrazione indipendentista della quale è stata artefice e promotrice. JxC scommette sulla perpetuazione del progetto indipendentista, quello sempre evocato e mai realizzato, portando indietro il calendario all’ottobre 2017. L’indipendentismo ha altri due protagonisti “minori”. La sinistra radicale della Candidatura d’unitat popular (Cup) e il Partit Demòcrata de Catalunya (PDeCat), che si rifà alla tradizione di Convergència Democràtica de Catalunya, partito dell’internazionale democristiana che fu seconda gamba dell’era del catalanismo moderato di Jordi Pujol. 

In una società divisa, piegata dall’epidemia e dalle sue conseguenze economiche, il discorso pubblico continua a essere astratto, simbolico, dominato dalla menzogna, nella perpetuazione di una narrazione fantastica proposta dalla politica e accettata dai media che, anziché metterla alla prova, se ne son fatti portavoce schierandosi con l’uno o l’altro fronte, emettendo e amplificando le contrapposte propagande. Guardiamo, per capire, al dibattito politico di questi giorni.

La campagna elettorale di Laura Borràs

Laura Borràs, candidata di JxC, propone la perpetuazione dello stato di scontro. Il suo programma, non fatto per essere esposto nelle manifestazioni della campagna elettorale, lo conosciamo grazie alla giornalista Isabel García Pagán de La Vanguardia che ne ha scritto lunedì scorso. Per Borràs il voto dovrà decidere dell’indipendenza. Se i partiti che la appoggiano superano il 50 per cento dei voti proporrà a Erc e Cup un governo di unità “disposto a prendere le decisioni unilaterali necessarie”. Ovverosia una serie di risoluzioni – cioè strumenti di nessun valore legale – che dovrebbero inverare la Dichiarazione unilaterale d’indipendenza (Dui, perché nella penisola si amano molto gli acronimi) del 10 ottobre del 2017, votata dal Parlamento il 27. Nel periodo precedente abbiamo la concreta manifestazione del grado di propaganda e menzogna che domina il dibattito catalano. Il 10 ottobre 2017 nel Parlament non ci fu nessuna Dui ma un documento scritto al di fuori delle aule parlamentari che non aveva nessun carattere legale o vincolante; e il 27 ottobre non venne votata nessuna dichiarazione d’indipendenza, solo un ordine del giorno, una risoluzione, anche qui senza valore legale, del quale l’unico riferimento alla Dui faceva parte del capitolo introduttivo non sottoposto a nessuna votazione. Quella produzione smisurata di propaganda e di post verità, a cura dell’indipendentismo catalano e del governo di Madrid, con l’entusiasta collaborazione dei media spagnoli, è diventata la realtà delle cose, una gabbia che imprigiona da tre anni il dibattito pubblico catalano e spagnolo.

Ma nel non-programma di JxC c’è di più. Il Parlamento catalano dovrebbe accettare l’autorità politica del Consiglio della Repubblica (catalana ovviamente), cioè un’istituzione con sede a Waterloo – in Belgio, dove risiede Carles Puigdemont – non eletta e senza nessuna caratteristica democratica – una sorta di governo alternativo di Mar-a-Lago che fu tra i supposti propositi di Trump. Un’istituzione che non riconosce almeno la metà della società catalana, quella che non si riconosce nell’indipendentismo. Un programma del genere non sarebbe probabilmente presentabile in un luogo d’Europa che non sia la Catalogna dove, invece, il progetto viene sì malamente accolto dagli altri indipendentisti ma senza metterne in discussione il realismo fantastico del quale tutti sono stati partecipi autori.

Un comizio di Pere Aragonès

“Non è questione di dichiarazioni o di retorica, è questione di farla [l’indipendenza], e si fa sommando maggioranze come quelle di ottobre” (2017), ha risposto il candidato di Erc, Pere Aragonès, fedelissimo dell’ex vicepresidente Oriol Junqueras, in carcere dopo la condanna al processo per i fatti di ottobre 2017 ma che parteciperà alla campagna grazie a dei permessi carcerari. Per Aragonès si avanza verso l’indipendenza “parlando chiaramente al mondo e vincendo elezioni ancora e ancora con più del 50 per cento”. Nello scontro interno ai partiti del Govern Erc vuole rappresentare un indipendentismo “intermedio”, che punta sull’autodeterminazione per vie democratiche e persegue l’indulto per i prigionieri politici catalani. Aragonès ha gestito per conto di Junqueras il voto favorevole di Erc al bilancio del governo Psoe-Podemos e, prima, quello sulla costituzione del Tavolo di dialogo sulla Catalogna. 

Àngels Chacón in piazza a Madrid per far sentire la voce catalana

Àngels Chacón è la candidata con la quale il PDeCat affronta in solitario la prova del voto. Nel partito è rimasto Artur Mas, padre del “processo verso l’indipendenza”, la svolta indipendentista del catalanismo moderato. Molto critica con la gestione catalana dell’epidemia, Chacón presenta un programma liberista legato all’ondata di privatizzazioni di Mas più che alla tradizione dell’antica Udc e vuole rappresentare un “nazionalismo assennato”, non ancora in grado di dichiararsi non indipendentista ma che si rifà al catalanismo precedente. “Aspiriamo all’indipendenza – ha detto rispondendo al programma di JxC – ovverosia a una finanza propria ma finché non arriva cercheremo ogni formula che ci doti di maggiori risorse”, riproponendo quindi il vero obiettivo del “processismo” di Mas: un nuovo accordo fiscale con lo stato che lasci in Catalogna la maggior parte della raccolta fiscale.

Jéssica Albiach

Jéssica Albiach è la candidata di Catalunya en Comú. I “comunes”, la formazione della sindaca di Barcellona Ada Colau, hanno spesso subito l’agenda indipendentista, differenziandosi ma senza riuscire a opporre ragionamenti che ribaltassero le parole d’ordine nazionaliste. Il dialogo a sinistra non funziona, i rapporti coi socialisti sono difficili anche per la competizione su un bacino elettorale in parte coincidente, ma uno degli sbocchi del voto potrebbe essere un governo delle sinistre che riproponga l’alleanza di governo nazionale. La caduta di fiducia degli elettori conseguente alle faide interne a Podemos si fa sentire meno in Catalogna, dove Podemos conta meno, ma l’erosione in atto del progetto a sinistra del Psoe verrà misurata dalle urne.

Meglio vanno le cose nel campo socialista. Salvador Illa, il candidato socialista, parte con forza. Arrivato al governo in un ministero che, considerata la decentralizzazione di competenze della sanità, è ritenuto non di prima fila, si è trovato ad affrontare l’emergenza pandemica. Ha lavorato abbastanza bene, senza eccessi di protagonismo e senza alzare mai la voce, condividendo coi colleghi europei incertezze, ritardi e scelte coraggiose. Lo ha fatto senza aprire aspri conflitti con le autonomie, con le quali ha collaborato al meglio riuscendo, incredibilmente, a schivare o attenuare le tensioni tra autonomie di destra e governo centrale. È segretario di organizzazione del Psc, e lo è rimasto da Madrid. Pedro Sànchez ha visto che per i socialisti catalani si apriva un’opportunità impensabile sino a poco tempo fa ed è riuscito a accordarsi col segretario Miquel Iceta, candidato “naturale” alla presidenza, per il lancio della “operazione-Illa”. Il socialismo potrebbe tornare centrale per il governo della Catalogna e sogna, anche, di tornare primo partito.

A completare il quadro ci sono Dolors Sabater, per la Cup, impegnata da un po’ a rivedere la propaganda indipendentista ma tutta dentro alla ricerca della Repubblica catalana – l’incapacità della sinistra catalana di una lettura autonoma spiega molto del successo processista – e Carlos Carrizosa, candidato di Ciudadanos (C’s), che è nella posizione più difficile. I 36 seggi, il 25,37 per cento dei voti assoluti, ottenuti nel 2017 da Inés Arrimadas, sono in libera uscita. Il partito che ebbe la Catalogna e un pezzo di Spagna in mano si è bruciato tutto nella corsa a destra col Pp e Vox, uscendone travolto. 

Dolors Sabater

Alejandro Fernández, del Partito polare catalano, ha il difficile compito di provare a risollevare le sorti del partito. È in competizione con Ignacio Garriga, di Vox. Mulatto, sua madre è originaria della Guinea equatoriale, proviene dal Pp che abbandonò contrario alle aperture sul matrimonio omosessuale e alla “timidezza” su aborto e unità nazionale, prova oggi a riuscire in uno storico sorpasso a destra.

Il voto si preannuncia quanto mai incerto e così le possibili soluzioni. Si va da un nuovo governo indipendentista, a un’alleanza di sinistra, forse anche con Erc. Vincere le elezioni potrebbe non essere garanzia per governare, e questo vale sia per Erc che per il Psc, e il rischio concreto è quello di un governo debole o anche della ripetizione elettorale. In un progressivo indebolimento della politica, della sua capacità di esprimere soluzioni e governo, senza un Mattarella e un Draghi in grado di supplire a questa carenza.

Le tante facce del voto catalano ultima modifica: 2021-02-06T19:48:00+01:00 da ETTORE SINISCALCHI
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