Troppo faticoso e cervellotico spiegare le ragioni della scelta della Disney, ovvero la decisione della multinazionale dell’intrattenimento di inserire un avvertimento per alcuni dei suoi vecchi film, segnalando la presenza di “rappresentazioni negative e/o insulti verso persone o culture”. Piuttosto meglio bollarne la scelta, parola di Michele Serra, come “censura”, “rimozione”, “intolleranza”. E questa sì, secondo il giornalista di Repubblica, dovrebbe essere l’oggetto di boicottaggio dei “veri tolleranti”, quelli che sanno distinguere tra il contesto e le intenzioni non razziste e il vero e proprio razzismo (l’eugenetica). Il discorso infatti dovrebbe chiudersi qua per Serra, visto che non esisteva un’intenzione razzista o discriminatoria di chi ha scritto e disegnato quei cartoni. Tra l’altro, visto che il novanta per cento della produzione culturale mondiale è basato sui luoghi comuni, il giornalista ritiene che su questa scia si dovrebbe eliminare gran parte del discorso umano.
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Purtroppo nelle poche righe dell’Amaca Serra dimostra di conoscere molto poco la storia degli Stati Uniti. E soprattutto di non afferrare il problema.
I concetti di razza e razzismo sono stati e sono alcuni dei principi organizzativi fondamentali della società americana. Non è mistero che la negazione della cittadinanza agli afroamericani fosse considerata essenziale per la formazione dell’unione (e costituzionalizzata). Razzismo e razza hanno praticamente interessato tutti gli aspetti della vita americana durante il Diciannovesimo e il Ventesimo secolo. Come scrive Ibram Kendi:
I beneficiari della schiavitù, della segregazione e dell’incarcerazione di massa hanno prodotto idee razziste secondo le quali i neri sono più adatti o meritevoli per la schiavitù, la segregazione o la cella. I consumatori di queste idee razziste sono stati portati a credere che ci sia qualcosa di sbagliato nei neri, e non nelle politiche che hanno ridotto in schiavitù, oppresso e rinchiuso così tante persone di colore.
L’industria dell’intrattenimento non ne è stata esente: le forme popolari dei media in particolare sono state particolarmente efficaci nella diffusione di convinzioni e comportamenti razzisti che naturalizzavano la supremazia bianca a scapito di afroamericani, nativi americani, latini e asiatico-americani. Era talmente naturale la rappresentazione razzista che la presenza di storie discriminatorie o di rappresentazioni di stereotipi negativi era appunto invisibile. Ma il fatto che fosse invisibile non significa che non fosse razzista.
Mentre i media infatti attingevano in larga misura a immagini e idee razziste – perché quelle idee e immagini erano così radicate nella società da essere non solo impercettibili alla maggioranza ma aiutavano a vendere i prodotti – le minoranze però protestavano. Lo facevano agli albori dell’industria dei media americana, lo fecero successivamente e continuano a farlo. È grazie alle proteste, ad esempio, se il lupo travestito da “ebreo” dei Tre Porcellini fu poi sostituito. È grazie alle proteste se molti altri cartoni dell’epoca furono rieditati per la presenza di stereotipi negativi riguardanti gli afroamericani. Qualche volta con successo, qualche volta meno. Non significa però che quelle produzioni non abbiano sollevato problemi. Certo non per i bianchi. Ma per le minoranze interessate.
Prendiamo il caso di uno dei tre cartoni per i quali Disney ha deciso di porre il disclaimer (che non impedisce di guardare il film): Dumbo. Nel film tutti i lavoratori del circo sono afroamericani e cantano “quando otteniamo la nostra paga, buttiamo via tutti i nostri soldi”, la nota “Song of the Roustabouts”: è l’unica volta in cui dei neri si vedono in tutto il film. Il leader del gruppo di corvi che prende in giro e aiuta Dumbo – doppiato dall’attore bianco Cliff Edwards con un’imitazione del dialetto “nero” del Sud – si chiama “Jim Crow”, nome che evoca non solo un personaggio a carattere razzista della tradizione teatrale popolare dei bianchi, ma che è diventato poi un termine peggiorativo per definire gli afroamericani e, infine, il nome delle leggi sulla segregazione razziale.
Non sono stati criticati ex post. Erano oggetto di critiche già da parte delle minoranze dell’epoca. E lo sono stati anche successivamente. La differenza? Le minoranze non erano in una posizione per far sentire la loro voce. Che pure c’era. E giudicava come razzista quella rappresentazione.
Questo era il contesto, pertanto, di cui parla Serra. Sono mutati però gli spazi di cui oggi godono le minoranze per far sentire la loro voce. Perché, anche se l’America è cambiata, rimane molto lontana dall’essere un società nella quale l’esclusione razziale e la discriminazione nelle sue varie forme sono escluse. Il razzismo sistemico, di cui hanno parlato sia Joe Biden sia Kamala Harris, è proprio quello che consente, nonostante i cambiamenti, che una straordinaria percentuale di Afroamericani, Nativi-americani, Latinx e Asiatico-americani sia oggi esclusa dal voto e siano soggetti di discriminazione legalizzata in materia di occupazione, alloggio, istruzione, benefici pubblici e altro.
Ed è per questo che quegli stereotipi e quelle rappresentazioni negative sono criticate: perché i problemi non sono stati risolti, perché parliamo di persone che ancora, in forma diversa, subiscono discriminazioni e razzismo.
Però Serra pone un altro problema. Nella sua ottica è solo il razzismo visibile e consapevole a poter essere definito tale. Sembra quasi che i razzisti siano chiaramente soltanto i “cattivi” e gli “immorali”. Sono pertanto, si spera, una minoranza. Ma anche non fossero una minoranza sono tuttavia relegati al ruolo della marginalità morale. Ma è così? Dimentica che esiste anche una socializzazione razziale, non solo negli Stati Uniti, che inconsapevolmente, per esempio, ci spinge a giudicare come non ricevibili le critiche sui cartoni Disney.
Qui infatti nasce il “turbamento” di Serra. Piuttosto che respingere però al mittente la questione sul razzismo, perché non chiedersi quale sia la ragione profonda che genera questo suo turbamento? È davvero la difesa della tolleranza di fronte alla dittatura del “politicamente corretto” (che Serra non cita ma è evidentemente tra le righe)? È possibile porsi la questione che forse, in quanto bianchi, ci sono alcune dinamiche razziali che non riusciamo a vedere, semplicemente perché non ne siamo stati oggetto? È possibile che la nostra socializzazione razziale – di chi è sempre stato maggioranza e non ha mai patito la discriminazione razziale – ci impedisca di riconoscere quello che per gli altri, per le minoranze, è un problema?
James Baldwin ha speso la sua esistenza cercando di spiegare che non esiste un “Negro problem” ma esiste un “White problem” (che come dimostra l’intervento di Serra non è prerogativa della destra). Riconoscerlo sarebbe già un passo avanti.


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