Dopo una lunga malattia è morto Rush Limbaugh, “l’uomo più pericoloso d’America”. Il noto presentatore radio conservatore, vero maître à penser della destra repubblicana, si è spento a settant’anni per un cancro ai polmoni che si era ostinato, pervicacemente e fino alla fine, a negare fosse legato alla sua passione per il fumo.
Limbaugh era la voce dei conservatori d’America e in particolare della base del Gop. In questo ruolo ha contato non poco nelle vicende del Partito repubblicano. Non solo il suo show ha dato voce alle idee di quella base, poco considerata dall’establishment del partito, ma ne ha anche rafforzato l’ala conservatrice, dando a quelle idee una solida base per affermarsi all’interno del partito stesso.
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Una posizione unica che gli consentiva di “bastonare” tanto i democratici quanto i repubblicani che si allontanavano troppo dal conservatorismo che, secondo Limbaugh, avrebbe dovuto caratterizzare la destra americana. Durante le quotidiane tre ore di trasmissione – da mezzogiorno alle tre –, dal vivo e con un seguito di quasi sedici milioni di persone per settimana, Limbaugh non aveva freni di alcun genere. Dalla diffusione di teorie cospirazioniste a truci insulti verso donne, African-American, Lgbtq e altre minoranze, il presentatore conservatore si compiaceva del ruolo di “kingmaker” all’interno del Partito repubblicano.

Un ruolo esageratemente celebrato dallo stesso, del quale tuttavia non si può nascondere l’evidente influenza. Ad esempio nel 2007, quando George W. Bush cercava di far approvare una riforma sull’immigrazione che avrebbe garantito la cittadinanza a milioni di immigrati irregolari, Limbaugh e il suo show furono i principali oppositori e riuscirono a organizzare un fronte di “resistenza” al progetto di legge. Ed è proprio l’immigrazione, più che i temi tradizionali dei conservatori repubblicani – vedi aborto o matrimoni omosessuali -, il filo rosso che collega Limbaugh al fenomeno Trump.
L’eredità del presentatore radio è però più profonda, slegata dalle vicende immediatamente riconducibili a questa o a quell’elezione primaria repubblicana o proposta di legge. Se oggi il Partito repubblicano è più a destra e più affezionato ai temi dell’“identità bianca” lo si deve anche all’azione decennale di Limbaugh. Indipendentemente da Trump, il quale appare sempre più come la conseguenza estrema e reale di un movimento più ampio e sotterraneo che prosegue da tempo nella destra americana. E che ha assunto varie forme, da ultimo quella del Tea Party e appunto del trumpismo. Un problema enorme per i moderati del GOP, soprattutto perché The Rush Limbaugh Show era considerato il terzo media più affidabile dall’elettorato repubblicano (dopo Fox News e il Sean Hannity Show). Non c’è politico repubblicano che in qualche modo non ci sia passato.

Limbaugh deve la sua popolarità però a un altro presidente repubblicano: Ronald Reagan. Fu infatti su impulso di quest’ultimo che fu abrogata la cosiddetta “Fairness Doctrine”, che dal 1949 consentiva alla commissione federale delle comunicazioni degli Stati Uniti (FCC) di richiedere ai titolari di licenze di trasmissione di presentare questioni controverse di importanza pubblica e di farlo “in modo onesto, equo ed equilibrato”. Fu l’abrogazione di queste regole di base a permettere l’ascesa di tutti quei talk show radiofonici divisivi, ambigui e portatori di un discorso politico violento. Un fattore decisivo per l’aumento della polarizzazione politica e ideologica del paese.

Il fervore anti-élite di Limbaugh si mescolava agli attacchi al “politically correct”, una critica che celava l’insofferenza per potersi esprimere con un linguaggio razzista, senza pagarne le conseguenze. Come quando definì Barack Obama, allora candidato democratico alle primarie, come il “magic negro”, il personaggio African-American dotato di poteri magici che nei film degli anni Trenta arrivava per salvare i bianchi: non solo il richiamo a una tradizione filmica e artistica influenzata da pregiudizi, ma l’utilizzo della “n-word”, una delle parole impronunciabile negli Stati Uniti, per la carica violenta e offensiva che essa si trascina.
Limbaugh amava prendersela con gli African-American, spesso senza insulti diretti ma attraverso il cosiddetto “dog whistle”, inserendo nel discorso delle parole chiave che nascondevano un messaggio più sottile e più pericoloso, rivolto a quella parte di popolazione che era in grado di decodificarlo. Così quando si parlava dello scarso amore di Obama per il paese, si sottendeva che Obama non fosse americano.

Anche i commenti di Limbaugh su donne e Lbtgtq non si contano. Nell’ultimo decennio però si era soprattutto dedicato alle questioni ambientali. Il presentatore radio negava infatti l’esistenza del cambiamento climatico, frutto di scienziati “politicamente orientati”, arrivando a dire che esistessero nel continente americano più aree verdi forestali di quante ce ne fossero all’epoca della “scoperta“ dell’America da parte di Cristoforo Colombo. L’influenza di Limbaugh sullo scetticismo climatico dei repubblicani è considerato ancora oggi uno dei risultati più importanti delle sue trasmissioni radio.
Con Trump presidente – che pure Limbaugh inizialmente non aveva sostenuto, preferendogli il senatore texano Ted Cruz – l’intesa durante i quattro anni di presidenza fu ottima. Privato di Twitter, l’ex presidente repubblicano ne ha salutato la scomparsa con un comunicato stampa, definendolo “una leggenda”. Una figura quella di Limbaugh che Trump aveva già pubblicamente elevato a un onore riservato nel passato a Martin Luther King, papa Giovanni Paolo II, Rosa Parks, madre Teresa di Calcutta: la Presidential Medal of Freedom, la più alta onorificenza civile del paese, conferita a
individui che hanno dato un contributo particolarmente meritorio alla sicurezza o agli interessi nazionali degli Stati Uniti, alla pace nel mondo, o ad altri importanti impegni culturali o pubblici o privati.
Per questo fu una sorpresa l’annuncio di Trump, dato in diretta durante il discorso sullo stato dell’Unione del febbraio 2020, mentre ci si avviava verso la pandemia di Covid-19. Fu Melania Trump, seduta accanto a Limbaugh, a cingerne il collo con la medaglia, lì sul posto, in riconoscimento dei “decenni di instancabile devozione al nostro paese” e dei “milioni di persone al giorno con cui parli e che ispiri”.
Poco importa se l’uomo in questione ha definito gli atleti neri dei “thugs” o si è preso gioco di celebrità affette dal morbo di Parkinson (Michael J. Fox, l’attore di “Ritorno al futuro”). L’importante era premiare una delle personalità che per decenni ha (de)formato l’opinione pubblica repubblicana.

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