Idee per il Recovery Plan. Parla Pier Paolo Baretta

“Per mia cultura e formazione sono un fautore di consultazione, concertazione, dialogo e confronto tra tutti gli stakeholder e credo che la ‘fatica’ di questa pratica della democrazia sia una risorsa da non trascurare e anzi da praticare diffusamente”.
GIOVANNI LEONE
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Torniamo a parlare di Next Generation EU, il cosiddetto Recovery plan, nel quadro del quale è stata assegnata all’Italia una quota rilevante delle risorse messe a disposizione dall’Europa, non perché abbia un grande potere politico ma perché il protrarsi della crisi dell’Italia è un rischio per l’Europa intera quindi il superamento della crisi è prioritario per tutti. L’Europa investe sull’Italia ma non a fondo perduto, chiede garanzie di effettiva fattività. La crisi sta regalando un’occasione unica per un deciso passo avanti dell’Unione Europea e all’Italia per dimostrare la propria capacità progettuale e produttiva.

Sul piano esecutivo il percorso in atto appare lacunoso per quanto riguarda il metodo di definizione dei progetti. Mancano indicazioni operative, una sorta di check-list dei requisiti e delle verifiche che devono accompagnare le proposte in modo da consentire la valutazione e validazione dei progetti. Non ci sono le istruzioni per l’uso né criteri condivisi che consentano la comparazione dei diversi progetti per stabilire quali hanno carattere prioritario in un quadro nazionale e coerente con il quadro europeo. Il rischio della concreta fattibilità è di limitare il quadro a progetti già avviati; una quota può essere destinata a progetti in essere ma questi vanno integrati con nuovi progetti finalizzati a investimenti per lo sviluppo.

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Ne parliamo con Pier Paolo Baretta, sottosegretario all’Economia in vari degli ultimi governi, quindi persona informata, affrontando anche questioni che ne condizionano gli esiti e l’efficacia a partire dalla competenza. Quella specialistica dei tecnici, ma anche di compito e responsabilità nell’esercizio di un dato ufficio, cioè di chi è la competenza a fare. Nella fase critica e di transizione che stiamo attraversando, sembra accentuarsi la distinzione tra tecnici, politici e la società. Sembra esserci carenza di ponti a collegare questi ambiti che restano distinti e tra i quali sono invece indispensabili non improprie invasioni di campo ma ragionevoli travasi per superare la segregazione degli ambiti del potere e del sapere in funzione della definizione di politiche concrete, strategie, progetti per affrontare i grandi problemi che abbiamo davanti. S’invoca la competenza come requisito indispensabile e discriminante ma non basta, può anzi rivelarsi pericolosa e dannosa se non è impura: essere un puro tecnico o un puro politico è requisito ambiguo e insufficiente, non è garanzia di affidabilità né di efficacia nel risultato di un’azione in un sistema complesso. Epidemiologi/microbiologi/virologi sono certamente competenti nei rispettivi campi ma il loro dilagare sta provocando confusione sul piano politico e sociale. È la pluralità delle posizioni (anche all’interno del medesimo campo) ad arricchire il sapere, che ha necessariamente confini sfumati all’interno e necessita all’intorno di travasi con altre discipline, di ibridazione con punti di vista diversi dal proprio che consolidano la verifica e la fondatezza delle risposte proposte. In questo senso un contributo da pontieri potrebbe venire dalla società civile, dove stanno importanti giacimenti di competenze trasversali che potrebbero essere utilmente valorizzati riconoscendo l’utilità del controllo sociale come lavoro socialmente utile, non in termini inquisitori ma di sana vigilanza informata. Il presidente Draghi (come prima di lui Ciampi) è radicato nell’ambito economico dove ha necessariamente affinato abilità politica, analogamente il politico deve avere competenza ed esperienza non solo politica.
La distinzione tra il tecnico competente e il politico è sbagliata, guai ad avere politici incompetenti, certo ce ne sono per carità, come ci sono anche tra i tecnici persone che non hanno sviluppato appieno la loro competenza. Credo che la politica sia lavoro duro …e studio, tanto tanto studio e sforzo di conoscenza insieme a un denso rapporto con le persone, due aspetti inscindibili. Negli ultimi anni forse qualche abbassamento del livello generale c’è stato, va riconosciuto che la produzione legislativa è meno efficace, un tema che da riprendere questo, non essendoci più i partiti nel senso classico del termine sono venute a mancare le scuole di cultura politica. La nuova classe dirigente, partendo dagli amministratori locali, dovrebbe fare un percorso di approfondimento. Personalmente renderei obbligatorio un percorso di formazione perché se assumi una carica di responsabilità in una grande azienda multinazionale innanzitutto ti fanno fare un master, in politica no. Appena eletti, sindaco o parlamentare o amministratori si dovrebbero fare un corso di formazione (gestito per esempio dall’associazione dei comuni) e poi aggiornamenti costanti per ottenere coincidenza tra politica e competenza.

A proposito di politica e competenza non si riesce a capire la procedura che si sta seguendo per dar forma al cosiddetto Recovery Plan, delicato banco di prova per la credibilità del paese a tutte le scale, da quella nazionale a quelle regionale, provinciale/metropolitana e comunale. La sensazione che si ricava è che ci sia nel complesso carenza di coordinamento tra i diversi enti di governo e che il progetto sarà il risultato generato da contrattazioni e pressioni politiche. Come si è sviluppato il processo di raccolta delle proposte provenienti dalle realtà locali?
Come si è visto, a proposito di Recovery Plan la questione controversa è stata la governance, con l’iniziale idea di una cabina di regia ampia con tecnici ed esperti (anche qua ricadendo un po’ nell’equivoco di cui parlavamo prima) mentre è del tutto evidente la difficoltà di delegare scelte di questa portata fuori dall’ambito della politica. Una soluzione potrebbe essere una sorta di CIPE “rafforzato”. Del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica fanno parte ministri con competenze di carattere economico ma non vi si svolge un’attività di tipo meramente politico, è un organismo dove la politica esercita scelte tecniche. Il vero limite in questa vicenda è stato quello di non aver messo l’accento sul fatto che il Recovery Fund non si riferisce a una progettualità astratta ma deve prendere in considerazione progetti, anche non finiti, ma sicuramente cantierabili. La concretezza dev’essere l’imprinting, anche nelle riforme di giustizia, pubblica amministrazione e del lavoro che lo devono accompagnare in parallelo. Prendiamo le due voci di maggior rilievo come la transizione digitale e quella ambientale. Transizione digitale vuol dire portare l’Italia a un livello pari a quello europeo nell’interconnessione tra tutti con le sue reti. Cosa significa e cosa comporta questo per la pubblica amministrazione, per l’industria, per la scuola? L’altro aspetto che non è stato chiarito a sufficienza (com’è evidente nel caso veneziano) è che non si tratta di un elenco di opere ma di assi. Le transizioni di cui dicevamo sono filoni in cui inquadrare le singole azioni, che non possono ridursi alla costruzione di un ponte, di un tratto ferroviario o autostradale.

Sembra si faccia confusione tra finanziamento e investimento, quali sono i criteri assunti per l’inserimento di un’opera all’interno di una strategia di scala più vasta da quella locale? Come si fa a distinguere i progetti strategici di rilevanza nazionale da quelli alla sola scala locale? Prendiamo il caso del porto di Venezia, è una infrastruttura rilevante per il territorio e per le attività economiche insediate a Porto Marghera ma al tempo stesso di notevole impatto ambientale sulla laguna. Ma non basta, la questione non può essere confinata alla già complessa scala locale del problema perché va messa in relazione alla portualità dell’alto Adriatico, alle rotte del Mediterraneo e ai corridoi trans-europei, a una realtà sovranazionale. In quale sede e come si valutano le proposte locali in relazione alla strategia di vasta scala?
Occorre valutare la vocazione del territorio e la collocazione del territorio negli assi di sviluppo nazionali ed europei. Venezia, oltre alla cultura, ha attività economiche legate alla portualità e al transito, alle attività commerciali legate alla presenza turistica (che resterà comunque presente anche nell’ottica del superamento della monocultura). Se non mi pongo il problema della coerenza con gli assi e non ho chiara la vocazione del mio territorio è chiaro che finisco per fare un elenco di opere prive di relazioni. L’esempio della portualità è pertinente e appropriato in questo senso, si potrebbe/dovrebbe aprire una dialettica più ampia dato che il piano nazionale identifica due hub in Genova e Trieste ma dà comunque spazio a Venezia, tant’è che si prevede l’elettrificazione delle banchine, l’ultimo miglio, ecc. Questa era l’occasione per pensare a un’unica portualità dell’alto Adriatico, vera risposta per un confronto con Trieste e il governo nazionale nell’ottica di una riorganizzazione complessiva del territorio in una prospettiva strategica. Inoltre, attraverso i 900 milioni per la cultura c’è nel piano nazionale un riferimento preciso al ruolo della Biennale come polo di sviluppo che non trova riscontro nel piano comunale, si sarebbe dovuto far diventare la Biennale il centro di raccordo del progetto di rilancio culturale della città in un’ottica internazionale. Questo è il punto, che è stato fatto un collage di tanti pezzi senza una visione strategica.

Ci sono i criteri di valutazione e validazione dei progetti? come può il cittadino a esercitare il legittimo controllo sociale in loro assenza? Quali sono gli indicatori per misurare l’efficacia dei provvedimenti proposti?
Questo dovrebbe emergere dai progetti. L’Europa i finanziamenti li concede a rate sulla base dell’effettivo avanzamento dei lavori. È ogni progetto a dover contenere la valutazione d’impatto.

Quindi era un requisito richiesto per i progetti da presentare? I progetti ne sono dotati?
Per quello che si riesce a leggere no. Nel caso Veneto ad esempio, il piano predisposto dalla Regione è stato votato ma non è stata ancora avviata una discussione, quello del comune non è stato presentato da nessuna parte, solo anticipato ai quotidiani, quindi non si conosce in dettaglio, abbiamo l’indicazione dei titoli e degli importi corrispondenti richiesti per ogni titolo ma non i progetti.

Non si capisce la procedura che viene seguita, sembra che non ce ne sia una stabilita. Nel caso del Comune l’elenco di opere non risulta essere stato preparato negli uffici comunali né nelle commissioni consiliari, non c’è stato confronto politico interno alla maggioranza e tantomeno con l’opposizione. Il Sindaco ne ha parlato en passant durante la seduta del consiglio della città metropolitana del 20 dicembre scorso il cui Ordine del Giorno era il bilancio preventivo del 2021, con tono tra lo scherzoso, l’ironico e di scherno (ho fatto i compiti per casa, costretto a lavorare al libro dei sogni) ha comunicato che l’ANCI gli ha chiesto in settembre di presentare un elenco di opere e lui lo ha fatto. È bene ricordare che parliamo di un piano di oltre 3.792 milioni di euro! Questo episodio richiama un’altra importante questione trascurata e irrisolta che non concerne il Recovery Fund ma un’ennesima riforma incompiuta: la Città Metropolitana. La coincidenza di sindaco comunale e metropolitano ha fatto si che la lista degli interventi appare incentrata sulla città insulare e Mestre, trascurando il resto del territorio metropolitano. Il secondo aspetto è che la città metropolitana così com’è non sembra un organo di governo a una scala intermedia tra quelle comunale e regionale ma una conferenza di servizi di Sindaci, con rappresentanza dei consigli comunali che presentano gli interessi dei rispettivi territori. La città metropolitana dovrebbe invece avere una concreta funzione amministrativa mentre luogo di confronto, cooperazione e coordinamento inter-istituzionale dovrebbe essere piuttosto un’area metropolitana di cui nel Veneto orientale potrebbero far parte le provincie e i comuni di Padova, Treviso e Venezia (la cosiddetta PaTreVe). C’è una lacuna in questo livello di governo intermedio o mi sbaglio?
Purtroppo è già stato così anche nei cinque anni precedenti, evidentemente il Sindaco di Venezia non ha tra le sue corde il ruolo di città metropolitana, forse l’idea è che Venezia abbia una sorta di autoreferenzialità che porta a considerarla autosufficiente trattando il resto della provincia come periferia …campagna. È un grave errore per più ragioni. La prima è che ormai anche nelle ipotesi di sviluppo europeo la città metropolitana rappresenta un luogo privilegiato di interventi sull’asse di sviluppo non solo del Recovery. Peraltro, proprio Venezia ha bisogno invece di essere inserita in un ambito di territorio più vasto quindi è un errore prospettico ignorare o sottovalutare la città metropolitana, errore molto grave per la ragione strategica che ho detto ed è anche un errore pratico per l’interconnessione presente a livello territoriale (assi di trasporto intermodali, autostrade, ferrovie, ecc.).

Si parla giustamente molto del Mo.S.E. ma pensiamo a che ruolo straordinariamente importante hanno i consorzi di bonifica presenti in tutto il territorio e soprattutto nella parte orientale, se non ci fossero i consorzi di bonifica da San Donà a Mestre a Quarto d’Altino sarebbe tutto sott’acqua. Dunque, a maggior ragione adesso con il problema dei cambiamenti climatici, dobbiamo avere un’idea di tutela e sviluppo complessiva del territorio. Si conferma invece l’orientamento della scorsa legislatura, il Recovery poteva essere l’occasione per il rilancio di un’idea metropolitana ma non è così. Sulla stessa laguna incidono nove comuni di cui 1 anche esterno alla città metropolitana, invece è tema che viene affrontato esclusivamente dal punto di vista veneziano. Peraltro, gli attuali confini della città metropolitana andrebbero rivisti, la verità è che bisognerebbe pensare alla grande a Venezia dove la città insulare sta al centro di un ambito molto più ampio. Come facciamo a pensare al ruolo di Mestre che ha potenzialità di sviluppo, se non come la capitale della città metropolitana? Venezia insulare ha una proiezione che va invece anche in altre direzioni. Quindi assumerei la città metropolitana come terreno di sviluppo, è evidente l’errore di avere il novanta per cento delle proposte veneziocentriche. La PaTreVe era un’idea interessante, poi per ragioni politiche quando sono cambiate le amministrazioni di Padova prima e poi Treviso, il progetto è caduto. Oggi dovrebbe essere proprio il sindaco di Venezia a farsi promotore di un’iniziativa metropolitana.

Pier Paolo Baretta

Nel corso di un’iniziativa a Marghera, al tempo del referendum sulla divisione di Venezia e Mestre, la prof.ssa Adriana Vigneri aveva parlato della distinzione tra Città Metropolitana e Area Metropolitana. Personalmente resto convinto che la Città Metropolitana di secondo livello, senza aggiornamento dei confini amministrativi e con gli attuali organi di governo non elettivi sia una riforma incompiuta che spiana la strada ad equivoci, squilibri e inefficienze come quelli di cui abbiamo parlato. 
Condivido, anche se porsi oggi il problema del cambiamento delle città metropolitane è difficile, ci vogliono provvedimenti legislativi che al momento non sono in calendario, le priorità (anche sul piano delle riforme) sono altre, quelle di cui stiamo parlando. La città metropolitana in senso legislativo è la ex-provincia di Venezia ma l’area metropolitana intesa in termini di asse di sviluppo economico e sociale è sicuramente più ampia. L’errore che stiamo facendo a livello veneziano è di non considerare la ex-provincia come città metropolitana sulla quale insistere con intorno un’area metropolitana più ampia, occorrerebbe esercitare un’azione economica di sviluppo che tenga conto di questo territorio più vasto, intermedio rispetto a quello regionale.

Dunque la riforma per passare alla città metropolitana di primo livello in questo momento non è ipotizzabile, non ci sono le condizioni politiche a livello locale (ipotizzando l’articolazione del comune in più comuni) o nazionale (con un dispositivo di legge) eppure potrebbe essere il modo per accentuare il decentramento amministrativo e quindi anche l’autonomia.
Il tema c’è, ma non è all’ordine del giorno. Se le tre città avessero una visione comune e lo ponessero si potrebbero creare le condizioni per lavorarci. D’altra parte, basta guardare a Bologna, a Firenze o anche a Torino (Roma capitale è un caso diverso) dove la città metropolitana è diventata il luogo più importante dell’asse di sviluppo del territorio, anche nell’ipotesi del Recovery lì ci si è mossi in quest’ottica.

Si è citato il Mo.S.E. Sono tra quanti hanno salutato con soddisfazione il successo delle prove seppure molte e di rilievo sono ancora le perplessità. Oltre ai persistenti problemi tecnici, all’incognita dei costi di completamento e gestione c’è l’emergenza climatica con l’accelerazione e l’imprevedibilità dei suoi sviluppi. Le previsioni sull’innalzamento del livello del mare aumentano di continuo e accorciano i tempi rischiando di rendere inefficaci le dighe mobili ben prima dei cento anni di esercizio previsti per ammortizzare l’investimento, inoltre la frequenza del fenomeno dell’acqua alta impone sollevamenti sempre più frequenti con un incremento certo dei costi e probabile nella sofferenza ambientale. Secondo te facciamo a tempo a completarlo e ad averne benefici tali da ammortizzare l’investimento?
Anch’io ho avuto la stessa reazione positiva quando siamo finalmente riusciti ad alzare le barriere, il Mo.S.E. è finalmente in opera, praticamente pronto, e sta già dando i primi frutti. Ci sono due problemi da tenere presente. 

Il primo è che il dibattito rischia di essere fuorviante se ci aspettiamo che l’effetto del Mo.S.E. sia la totale assenza di acqua alta in città. Non è detto che questo si ottenga, il punto delicato è la quota degli 80 cm sul medio mare, quota oltre la quale piazza San Marco e la basilica vanno sott’acqua. L’alta marea è fenomeno naturale, non le acque alte eccessive ma l’incremento del livello di marea è un fenomeno globale che come tale va affrontato. Non lo dico soltanto in funzione del porto e della necessità di garantire l’accesso ma anche in funzione della normale vita di una città che conviver con flusso e deflusso che garantisce l’ossigenazione naturale.

Il secondo problema è capire quanto tempo abbiamo davanti, e qui non c’entra più il Mo.S.E. perché è un tema che riguarda tutte le grandi città costiere. I prossimi 50 anni sono determinanti, per questo l’idea che ho perseguito e che abbiamo avviato di portare a Venezia un grande centro di studi sui cambiamenti climatici con riferimento agli effetti sul mare, è molto importante e andrebbe completata, anche perché Venezia è considerata emblematica da questo punto di vista. Questo tema va affrontato in quest’ottica di largo respiro, non posso sapere oggi se tra 50 anni sarà ancora utile o no, ho letto di studi che sostengono che fare chiusure fisse e trasformare la laguna in lago. Tutto ciò oggi è prematuro. Godiamoci i vantaggi che offre il Mo.S.E., gestiamolo al meglio ma non accontentiamoci perché abbiamo di fronte un fenomeno che va oltre la questione delle maree, il tema del cambiamento climatico e delle conseguenze sull’innalzamento medio del livello del mare è un tema straordinario a cui serve una risposta a livello globale, non solo locale. 

Pier Paolo Baretta con il ministro Roberto Gualtieri in un’iniziativa della campagna elettorale per le elezioni comunali di Venezia

Torniamo al Recovery plan e alla questione dei criteri, Lei diceva che i requisiti, gli indicatori per misurare i risultati devono essere parte del progetto stesso, se però ogni progetto individua dei propri indicatori come facciamo a comparare i progetti tra loro per valutarli, giudicarli, e stabilire quali sono quelli prioritari in un quadro nazionale?
Questo è proprio il compito di quella governance di cui dicevamo, che l’aspetto ancora insoluto e che immagino nel governo Draghi sarà tra le prime cose che verranno affrontate, una governance che metta a punto le priorità 

Ho visto che nelle linee guida prodotte dall’unione europea il 22 gennaio l’articolo 15 si dice del processo di consultazione background degli stakeholder, chiarendo come gli Stati devono documentare come hanno sviluppato questo percorso. Come ha concretizzato quest’azione l’Italia?
Anche per mia cultura e formazione sono un fautore di consultazione, concertazione, dialogo e confronto tra tutti gli stakeholder e credo che la “fatica” di questa pratica della democrazia sia una risorsa da non trascurare e anzi da praticare diffusamente. Su questo c’è stata un po’ di lentezza da parte del governo, che negli ultimi tempi era stata finalmente superata. Nel suo primo discorso anche Draghi ha parlato di consultazione costante con le parti sociali in senso lato, con gli stakeholder. Questo è molto importante perché c’è oggi una evidente crisi di rappresentanza, complessiva, sia dei partiti che delle forze sociali, c’è in atto una transizione sociale che provoca cambiamenti nelle forme delle aggregazioni. Di fronte a questo fenomeno mentre si costruiscono nuove aggregazioni non bisogna abbandonare quelle che ci sono, comunque rappresentative di segmenti importanti della società. In questo senso mettere l’accento sulla consultazione è importante. Peraltro, sono convinto che questo sia un elemento importante di una visione di democrazia economica: la democrazia politica senza la democrazia economica rischia di non giocare appieno il ruolo che le compete, quando si parla di poteri forti è la democrazia economica a dover fare da contraltare.

A proposito di Venezia, di laguna e di partecipazione, il governo ha dato un segnale di apertura recependo le osservazioni (diventate emendamenti) sull’autorità della laguna. Lo aveva fatto sia per quanto riguarda il coinvolgimento del ministero dell’ambiente, che ultimamente sulla possibilità che nella governance si riconoscesse un ruolo a una sorta di comitato di esperti locali competenti e indipendenti. Torniamo alla competenza che non è soltanto quella formale-istituzionale delle associazioni di categoria, perché in una fase di transizione come quella che descrivevi andrebbe valorizzato il patrimonio di sapere e competenza delle risorse indipendenti.
Questo è stato un contributo importante e va sottolineato perché consente di evidenziare due metodologici opposti. Alla prima stesura dell’autorità per la laguna il sindaco ha reagito prendendo la via della contrapposizione frontale, senza lasciar spazio al dialogo e negando ogni possibilità di miglioria, un atteggiamento improduttivo. C’è stato invece un approccio critico, ma dialettico, di un gruppo di veneziani competenti, che hanno accompagnato le critiche con proposte. Da qui sono emersi spunti interessanti che hanno portato alle correzioni a cui facevi riferimento sia in termini di governance che di consultazione dal basso come compito dell’autorità. In una fase così complicata come quella che stiamo vivendo è molto più utile affiancare alle legittime critiche la proposta di soluzioni alternative o integrative, altrimenti si introduce sterilità nel dibattito che finisce per restare senza esito e di limitarsi a radicalizzare le posizioni. Quindi sì, sono state introdotte modifiche e il merito va a quel gruppo di cittadini competenti che ha dato un contributo costruttivo.

A proposito di Recovery plan e di investimenti, qual è il ruolo che deve assumere l’attore pubblico all’interno del sistema economico? può essere elemento di stabilizzazione (come sostengono alcuni), o un ruolo più incisivo anche attraverso Cassa Depositi e Prestiti rischia di avere conseguenze destabilizzanti, per cui bisogna continuare a puntare sul privato (come sostengono altri)?
Dopo un lungo dibattito ideologico su Stato e mercato, tra chi era fautore del pubblico a prescindere e chi era fautore del privato a prescindere, l’esperienza pratica nella storia contemporanea legata ai grandi cambiamenti in atto, dimostra che solo una forte integrazione dà risultati. Il pubblico senza il mercato produce carrozzoni che non portano ad efficienza e il mercato da solo non ce la fa, la grande tragedia della pandemia lo ha dimostrato. La soluzione sta nella consapevolezza che ci si gioca una partita insieme, lo Stato deve avere più un ruolo regolatore che un ruolo esecutore ma non c’è dubbio che il privato deve accettare e condividere il ruolo regolatore, e quindi affidarsi anche a una collaborazione dopodiché ci sono dei punti d’intreccio dove i due ruoli rischiano anche di confondersi ma non ci vedo un problema. Ad esempio, nel caso d’imprese di carattere strategico è evidente che c’è una condivisione anche di responsabilità e di ruoli, qui non vedo separazione ma integrazione nella chiarezza dei ruoli, Cassa Depositi e Prestiti lo dimostra. Ci vuole una forma integrata di sinergia.

Nominalmente i fondi del Recovery fund sono formati da un sessanta per cento di prestiti e un quaranta per cento di sussidi. Il rischio insito nel termine stesso di sussidio è che vengano interpretati come finanziamenti e non utilizzati invece come investimenti moltiplicatori capaci cioè di aggregare ulteriori risorse su quei progetti, andando a incrementare il debito senza contropartite. Come possiamo fare di queste risorse un concreto investimento produttivo? Inoltre, ho visto tra i documenti del Recovery plan che 65,7 miliardi di euro si riferiscono a interventi già in essere, sono dei processi che sono stati avviati ora o che erano avviati già prima e che ora si vuole sostenere?
Dobbiamo toglierci dalla testa che il Recovery siano sussidi. Ai sussidi si è fatto ricorso in questo anno di pandemia, giusto o sbagliato che sia (personalmente penso inevitabilmente giusto all’inizio ma oggi bisognerebbe essere più selettivi). Hanno fatto parte degli interventi straordinari in termini generali ma ordinari rispetto alla congiuntura. Quelli del Recovery no, quelli sono investimenti e dobbiamo tenere presente che sono investimenti a debito per la stragrande maggioranza, quindi il fatto che siano a debito comporta a maggior ragione la necessità di fare scelte di prospettiva, proprio perché sono debito devono essere investimento e non sussidio devono dare un ritorno. Anche per questo si è deciso di inserire anche una parte di progetti già pronti e cantierabili, argomento che è stato oggetto di discussione durante la crisi. Una delle tesi di Renzi era che il Recovery dovesse essere al cento per cento di progetti nuovi mentre Gualtieri sosteneva l’utilità di recuperare in parte anche progetti già pronti, proprio perché essendo debito potevi scaricarli dal costo alleggerendo il peso del debito e liberando energie, da reimpiegare oppure da destinare alla riduzione del debito. Questa è la ragione per la quale è stata fatta questa scelta che a me pare ragionevole proprio perché non è preponderante ma limitata al recupero di progetti che rischiavano di andare persi. Prendiamo ad esempio l’alta velocità Milano-Venezia era già nei cantieri non è che adesso siccome c’è il Recovery la metti da parte col rischio che venisse messa in secondo piano e magari accantonata.

Da architetto, inesperto d’economia ma competente in progettazione, avrei puntato a Venezia su un progetto per il rilancio dell’Arsenale (con incremento dell’insediamento di attività, di ricerca ma anche artigianali), sulla conversione di Porto Marghera (in termini green), sulla portualità fuori dalla laguna inquadrata in una prospettiva internazionale di sinergia nazionale ed europea, su Mestre come polo di logistica e baricentro del sistema di piccole e medie imprese del NordEst. Nel piano regionale mi aspettavo un deciso accento sul potenziamento della rete ferroviaria regionale: si continua a parlare di alta velocità, abbiamo cancellato gli Intercity ma c’è un buco nel sistema, costituito dalla rete dei trasporti locale. Dalla Germania e dall’Austria o dalla Svizzera dovresti poter arrivare in treno con la bicicletta, scendere al Garda o a Verona, come anche ci si dovrebbe poter spostare agevolmente in regione, invece SFMR resta un miraggio mentre la RER francese, per esempio, è una realtà consolidata da decenni.
In Veneto e a Venezia serve un salto di qualità nella visione politica in un’ottica europea, Venezia è una grande città europea e il Veneto una delle più importanti regioni europee, è in questa prospettiva che bisogna ragionare, l’Europa ha tanti esempi in questo senso. Se invece hai in mente l’autonomia come separazione (che ho visto clamorosamente rilanciata anche da Brugnaro) hai una visione che va nella direzione opposta all’integrazione. C’è un problema che non voglio chiamare ideologico ma di approccio culturale, sul quale c’è necessità di sviluppare un confronto profondo che è anche una battaglia politica per affermare il ruolo del Nord Est in una prospettiva europea.

Idee per il Recovery Plan. Parla Pier Paolo Baretta ultima modifica: 2021-02-21T15:01:01+01:00 da GIOVANNI LEONE
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