Il “Patriot Party” di Trump

Alcuni sondaggi indicano che molti elettori repubblicani sosterrebbero un eventuale partito dell’ex presidente repubblicano. Una leva politica in più per The Donald che cerca di stringere sempre più la presa attorno al partito che fu di Lincoln.
MARCO MICHIELI
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Donald Trump è pronto a ritornare nell’agone politico, a qualche settimana dalla sua uscita di scena. Il prossimo 28 febbraio l’ex presidente repubblicano, privo ormai di Twitter, interverrà alla Conservative Political Action Conference, un evento molto importante del mondo conservatore. E sarà la prima uscita davanti a un pubblico, dopo il passaggio di consegne. Ci si aspetta quindi un discorso molto duro sull’attuale amministrazione democratica.

Analisti e commentatori politici cercheranno però soprattutto di capire che cosa intenda fare l’ex presidente in vista delle elezioni di medio termine del prossimo anno. Il comitato politico di Trump infatti – Save America – dispone di settantacinque milioni di dollari da spendere a sostegno di candidati vicini all’ex presidente. E soprattutto dispone di un database di decine di milioni di contatti.

Ma sarà un osservato speciale anche per capire che cosa potrebbe fare in vista delle elezioni presidenziali del 2024. Trump esercita infatti ancora un’influenza notevole all’interno del Partito repubblicano. Alla Camera dei rappresentanti soltanto dieci repubblicani su duecento e undici hanno votato a favore dell’impeachment per il ruolo esercitato nell’assalto al Campidoglio. Al Senato sette su cinquanta.

Che Trump sia intenzionato a svolgere un ruolo nei prossimi anni, anche se questo non dovesse portare a una candidatura presidenziale, sembra confermarlo anche il clamore di queste settimane attorno a un possibile “Partito dei patrioti”, una presunta futura scissione dell’ala trumpiana dei repubblicani. Secondo il Wall Street Journal l’ex presidente ne avrebbe parlato con il suo staff, con l’intenzione di sottrarsi alle lotte interne al Partito repubblicano. 

Per il quotidiano conservatore però si tratta forse di un ballon d’essai, più utilizzato per far leva politica all’interno del partito. Per esercitare una minaccia sull’élite repubblicana che, nonostante l’abbia salvato dall’impeachment, non ha avuto parole lievi sul comportamento del presidente nei giorni dell’assalto a Capitol Hill. Un modo anche per dimostrare che l’ampia base di sostenitori dell’ex presidente, che non era coinvolta nel Partito repubblicano prima che Trump diventasse il candidato presidenziale del partito nel 2016, conta.

Per quanto al momento siano molto poche le possibilità che un terzo partito si presenti alle elezioni del 2024, c’è un sentimento diffuso nel pubblico americano di sfiducia nel sistema dei partiti. E sulla necessità di nuovi partiti.

Secondo una recente indagine Gallup il 63 per cento degli americani afferma che i due principali partiti politici sono così scadenti da necessitare l’esistenza di un terzo partito. Era il 60 per cento nel 2013 e nel 2015 e il 61 per cento nel 2017. In ascesa. In particolare tra i repubblicani.

Se gli elettori indipendenti sono generalmente più propensi dei repubblicani o dei democratici a favorire un terzo partito, nel sondaggio recente i repubblicani hanno la stessa probabilità degli indipendenti di sostenere questa opinione. Un cambiamento drammatico e nuovo per i repubblicani dallo scorso settembre, quando era soltanto il 40 per cento ad essere favorevole a un terzo partito.

Un’insofferenza in campo repubblicano che sembra essere confermata anche da un sondaggio della Suffolk University per Usa Today. Secondo infatti l’indagine non solo il sostegno di Trump è rimasto stabile nonostante il secondo processo di impeachment, ma  quasi la metà sembrerebbe essere disposta a seguire l’ex presidente in un possibile terzo partito.

Per ora però l’opzione del “Patriot Party” di Trump è solo ventilata. Ma la presa di Trump sui repubblicani e la svolta nativista che il partito ha preso potrebbero spingere altri a formare un terzo partito. Più moderato. A Washington la settimana scorsa infatti oltre centoventi ex funzionari repubblicani si sono incontrati via Zoom per discutere la creazione di un “partito di centro-destra” anti-Trump. Il piano sarebbe quello di candidarsi in alcune competizioni, appoggiando candidati moderati repubblicani, indipendenti o democratici.

Lo spazio, pensano, ci sarebbe. Come dimostrano le recenti fuoriuscite di elettori repubblicani. Più di sessantotto mila repubblicani hanno infatti lasciato il partito nelle ultime settimane in Florida, Pennsylvania e North Carolina, stati cruciali per le speranze dei democratici di mantenere il controllo del Congresso nelle elezioni di medio termine del 2022. Rispetto ai repubblicani rimasti, quelli che hanno lasciato sono più concentrati in contee democratiche, attorno alle grandi città: secondo gli analisti politici sarebbero quindi repubblicani moderati. Un esodo che andrebbe tuttavia a vantaggio della presa di Trump sul partito.

I candidati di un terzo partito a volte vincono le elezioni a livello statale e locale. Ad esempio, la senatrice repubblicana Lisa Murkowski ha vinto la rielezione nel 2010 non come candidata repubblicana, e il senatore Joe Lieberman si è candidato e ha vinto come candidato di un terzo partito nel 2006, dopo aver lasciato il Partito democratico. Attualmente, ci sono anche due senatori, Angus King e Bernie Sanders, che non sono né democratici né repubblicani (anche se partecipano al gruppo dei democratici). A livello statale e locale, poi, altri partiti sono riusciti ad eleggere dei funzionari: il Green Party, il Libertarian Party e altri. 

Però quando si tratta di elezioni presidenziali, la situazione si complica. Innanzitutto per il sistema elettorale statunitense che disincentiva la proliferazione dei partiti politici. In secondo luogo perché a livello nazionale, le leggi sull’accesso al voto sono la sfida principale per le candidature di terzi partiti, per le tasse di registrazione nei singoli stati e un numero minimo di elettori a sostegno delle candidature.

Se i terzi partiti superano questi ostacoli, si trovano però di fronte a un sistema bipartitico che ha più di un secolo e mezzo. In questo sistema il ruolo del terzo partito diventa rilevante per impedire a uno dei due partiti principali di vincere. Ma non è sufficiente per portare il proprio candidato al potere. Così è accaduto con i democratici, quando l’ex governatore democratico dell’Alabama George Wallace, oppositore dei diritti civili, corse nel 1968 contro il suo ex partito, contribuendo a sgretolare l’ormai fragilizzato potere democratico nel Sud del paese a vantaggio di Richard Nixon; e nel 2000 con Ralph Nader, candidato del Green Party, quando l’opzione di sinistra al candidato democratico Al Gore riuscì a spostare quei voti sufficienti a far pendere alcuni stati in campo repubblicano, a vantaggio di G.W. Bush. Ma è anche accaduto con i repubblicani nel 1992, quando il miliardario Ross Perot vinse circa il 20 per cento del voto popolare senza però ottenere alcun elettore del Collegio elettorale. Ma sottraendo sufficienti voti per consentire a Bill Clinton di sconfiggere il presidente G.H. Bush.

Trump correrebbe da ex presidente. E non sarebbe il primo ex presidente a spaccare il proprio partito. Il presidente repubblicano Teddy Roosevelt infatti si ritirò dalla convenzione repubblicana del 1912, accusando il suo successore, William Howard Taft, e il suo stesso partito di averlo derubato della nomina presidenziale. Fondò il Partito progressista, arrivò secondo e divise il Partito repubblicano, aiutando a eleggere il democratico Woodrow Wilson. 

È vero che i social media hanno rivoluzionato la politica, rendendo infinitamente più facile oggi rispetto alle epoche precedenti creare una presenza pubblica, diffondere informazioni, raccogliere fondi e identificare persone che condividono opinioni simili. Tuttavia lo storico politico americano Richard Hofstadter sosteneva che i terzi partiti fossero come le api: “una volta che hanno punto, muoiono”. 

Poiché le loro idee più popolari vengono adottate dai due principali partiti e svaniscono rapidamente nell’irrilevanza. In un modo o nell’altro, pertanto, l’eredità di Trump non sembra destinata a scomparire.

Teddy Roosevelt e William Howard Taft in una vignetta satirica del 1912
Il “Patriot Party” di Trump ultima modifica: 2021-02-23T21:53:31+01:00 da MARCO MICHIELI
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