Sette miti da sfatare sull’Italia

Due economisti austriaci confutano gli stereotipi che circolano in Europa.
VITO VACCA
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Il Vienna Institute for International Economic Studies (Wiener Institut fur Internationale Wirtschaftsverleiche – WIIW), il 19 febbraio 2021, ha pubblicato in lingua inglese un articolo di due economisti austriaci, Philipp Heimberger e Nikolaus Kowall, su una serie di luoghi comuni sull’Italia che continuano a circolare in Europa a dispetto dell’evidenza. 

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Gli autori affermano che è il momento di dare uno sguardo all’economia italiana basato sui fatti:

  1. l’Italia ha registrato una lunga serie di surplus commerciali e rimane il secondo polo industriale dell’Unione Europea dopo la Germania;
  2. il debito privato in Italia è relativamente basso rispetto ad altri paesi OCSE, mentre il debito pubblico è elevato a causa dell’eredità degli anni Settanta e Ottanta;
  3. lo Stato italiano ha implementato in assoluto i più grandi pacchetti di risanamento fiscale tra tutti i paesi industrializzati dall’inizio degli anni Novanta fino a tutto il 2019;
  4. l’Italia ha problemi strutturali significativi (ad esempio, il divario Nord-Sud), per affrontare questi problemi è necessario ripensare la politica economica nel suo complesso; 
  5. la ripresa dell’Italia deve essere considerata un compito centrale della politica economica europea, perché può dare un impulso allo sviluppo dell’Unione nella sua interezza.

Molti sono gli stereotipi di lunga data che circolano in Europa sull’Italia, tra questi che si tratti di un paese pesantemente indebitato e non disposto a varare riforme. 

Giornalisti e politici di spicco degli autoproclamati frugal four (Austria, Danimarca, Olanda e Svezia) hanno ripetutamente dubitato che l’Italia dovesse davvero ricevere sovvenzioni in misura considerevole per mitigare le conseguenze della crisi derivata dalla pandemia, che per prima l’aveva colpita. 

I due economisti austriaci riportano sette dati di fatto che sfidano i consolidati stereotipi sull’Italia.

1. L’Italia ha vissuto al di sotto delle proprie possibilità. L’accusa è che “l’Italia vive al di sopra dei suoi mezzi”; questa affermazione è spesso giustificata sottolineando che il debito pubblico italiano è salito a circa il 160 per cento della produzione economica, anche a causa degli effetti della pandemia; ma questo significa soltanto che il settore pubblico è fortemente indebitato, non dice nulla sulle performance dell’economia italiana nel suo insieme. 

Un paese vive veramente al di sopra delle proprie possibilità soltanto se importa più beni e servizi di quanti ne esporta in un periodo di tempo lungo, cosa che va di pari passo con l’aumento del suo debito estero; se invece esporta all’incirca quanto importa, non ha senso parlare di “vivere al di sopra dei propri mezzi”, perché in realtà produzione e consumo coincidono. 

Ma l’Italia, nell’arco di 26 anni dal 1995 al 2020 compresi, ha sempre registrato esportazioni di beni e servizi più elevate rispetto alle importazioni (con la parentesi di sei anni dal 2006 al 2011 in corrispondenza della crisi finanziaria mondiale); in realtà il paese consuma meno di quanto produce ed è un esportatore netto di capitali; semmai gli italiani vivono al di sotto dei propri mezzi.

2. Il debito privato è relativamente basso in Italia. Se l’economia italiana nel suo insieme non vive al di sopra dei propri mezzi, allora l’elevato livello di indebitamento deve essere confinato al settore pubblico; ed è così, il debito privato in Italia è basso per gli standard OCSE, rimanendo nella parte bassa della graduatoria tra gli Stati.

3. Il debito pubblico è alto a causa degli errori commessi quaranta anni fa. Lo Stato italiano ha implementato in assoluto i più grandi pacchetti di risanamento fiscale di tutti i paesi industrializzati dall’inizio degli anni Novanta; l’economia non è eccessivamente indebitata, l’elevato debito pubblico è un’eredità degli anni ottanta. 

Gli errori commessi quarant’anni fa si sono verificati in un contesto internazionale di tassi di interesse in aumento; da allora, lo Stato italiano si è portato dietro un pesante fardello determinato dagli alti tassi di interesse dell’epoca.

Ma, se escludiamo questa zavorra, lo Stato italiano ha costantemente registrato avanzi di bilancio dal 1992 in poi (con le eccezioni dell’anno della crisi finanziaria 2009 e dell’anno della crisi Covid 2020).

Anche Germania, Austria e Paesi Bassi hanno registrato un surplus di bilancio “primario” positivo comparabile, ma meno frequentemente dell’Italia; pertanto lo Stato italiano non si è dimostrato così “dissoluto” come spesso si sostiene: ha costantemente raccolto più tasse di quanto abbia speso. 

L’onere degli interessi, elevato a causa dell’eredità del debito, ha ripetutamente spinto il saldo di bilancio complessivo dello Stato italiano in territorio negativo; ora l’Italia sta registrando deficit fiscali significativi nel 2020 e nel 2021, ma ciò è dovuto agli effetti della crisi Covid, che sta avendo un forte impatto anche sugli altri paesi dell’Unione Europea.

4. L’economia italiana ha sofferto da quando è entrata nell’Euro. Il debito pubblico italiano è marcato anche perché la sua crescita economica è stata molto debole negli ultimi vent’anni. Essendo il debito in rapporto al PIL, se l’economia ristagna uno Stato non può tirarsi fuori autonomamente da un ammontare di debito, che già nel 1995 era al 120 per cento del PIL.

Le carenze strutturali, comprese quelle relative alla corruzione e alla criminalità organizzata, non devono essere trascurate. Ma l’Italia non è mai stata un’oasi di stabilità politica: il nuovo governo è il 67° dalla fine della Seconda guerra mondiale, mafia e corruzione sono innervate nel sistema da lungo tempo. Eppure i due economisti fanno notare come questa situazione non abbia impedito in passato all’economia italiana di svilupparsi in modo abbastanza dinamico.

In termini di potere d’acquisto pro-capite, l’Italia ha superato il Regno Unito nel 1969 e la Francia nel 1979; nel 2000 lo standard medio di vita dell’Italia era praticamente uguale a quello della Germania (pari al 98,6 per cento del PIL pro-capite tedesco). 

L’introduzione dell’Euro nel 1999 ha cambiato le carte in tavola; il paese è tornato a inseguire il Regno Unito (nel 2002) e la Francia (nel 2005); nel 2019, il reddito pro-capite italiano è stato inferiore a quello della Germania di circa il 25 per cento (un quarto in meno).

Nel caso dell’Italia, dagli anni Novanta, l’impegno nei confronti dei criteri di Maastricht e il processo di introduzione dell’Euro sono andati di pari passo con il calo della crescita economica e l’aumento dei problemi di produttività. 

Una spiegazione è che i vincoli delle regole di bilancio europee hanno ridotto la domanda interna, contribuendo anche alla stagnazione dell’economia italiana; inoltre, il valore dell’Euro riflette la forza media di tutte le economie dell’area; la moneta comune è troppo a buon mercato per la Germania (il che aumenta le esportazioni tedesche) ed è troppo costosa per l’Italia.

La possibilità dell’Italia di ritrovare lo slancio economico all’interno dell’area Euro dipenderà non da ultimo dalla volontà della Germania e di altri paesi europei di riformare l’architettura istituzionale della moneta comune all’indomani della crisi pandemica, soprattutto per quanto riguarda le regole di bilancio. 

In ogni caso, è chiaro che i paesi che hanno più beneficiato della moneta comune “a buon mercato” come la Germania, i Paesi Bassi, l’Austria, dovrebbero fare tutto il possibile per mantenere l’Italia nell’area Euro; questo sarebbe nel loro interesse, perché il ritorno a una valuta “costosa” come il marco tedesco rappresenterebbe un notevole onere sui prezzi per l’industria dei paesi che dipendono da un modello di crescita guidato dalle esportazioni.

5. L’Italia ha realizzato molte riforme liberali (pagando un prezzo elevato). Nel 2015, l’OCSE ha valutato gli “sforzi di riforma” dell’Italia come significativamente più forti di quelli di Germania e Francia. L’economista olandese Servaas Storm afferma una approccio simile: in uno studio approfondito spiega come l’Italia abbia aderito molto più strettamente al regolamento politico dell’Unione Europea rispetto alla Germania e alla Francia. 

Pertanto, lo Stato italiano ha registrato sforzi di risanamento fiscale maggiori rispetto a tutti gli altri partner europei prima della crisi del Covid, pagando un prezzo elevato in termini di sacrifici.

Ciò è dovuto al fatto che il consolidamento fiscale ha indebolito la domanda interna di beni e servizi, e conseguentemente la crescita, a tal punto che il debito è rimasto elevato nonostante i grandi sforzi di risanamento.

La politica di austerità italiana ha avuto conseguenze molto concrete: da un lato, il drastico calo degli investimenti pubblici ha ostacolato la crescita della produttività in Italia; dall’altro, ha portato a pesanti tagli al sistema sanitario, che si sono rivelati fatali durante l’emergenza sanitaria.

L’Italia si è decisamente conformata ai requisiti europei per rendere flessibile il mercato del lavoro, il che ha portato a un forte aumento dei contratti a tempo determinato, e a un calo dei salari reali rispetto a Germania e Francia; con le riforme del 2014, le tutele del lavoro sono state ulteriormente ridotte, consolidando una forte precarizzazione. 

In una prima fase, le riforme del mercato del lavoro non solo hanno ridotto l’inflazione negli anni Novanta, ma probabilmente anche la disoccupazione, che infatti era inferiore a quella di Germania e Francia quando è scoppiata la crisi finanziaria nel 2008; ma la disponibilità di manodopera a basso costo ha anche ridotto l’incentivo a investimenti innovativi da parte delle aziende. 

Gli investimenti privati sono fondamentali per aumentare la produttività, in particolare nei settori ad alta tecnologia; lo sviluppo della produttività è a sua volta la base per la crescita e l’aumento dei redditi. Nella realtà, i grandi sforzi di risanamento dei conti pubblici e le riforme strutturali pro-mercato hanno apportato più danni che benefici alla crescita della produttività dell’Italia.

6. L’Italia rimane il secondo paese industriale più importante dell’Unione Europea. Può sembrare sorprendente per le orecchie nordeuropee, ma nonostante la debole crescita della produttività e i problemi con la competitività dei prezzi all’interno dell’area Euro, l’Italia ha importanti punti di forza economici; i sessanta milioni di italiani non vivono principalmente di turismo. 

L’Italia è ancora il secondo polo industriale più importante dell’Unione (il che sarebbe vero anche se il Regno Unito fosse all’interno), principalmente per la struttura economica nel Nord del paese.

L’Italia ha la produzione industriale più elevata dopo la Germania ed esporta molti più beni industriali di quanto ne importi; il settore di esportazione di gran lunga più importante è l’ingegneria meccanica, che da sola rappresenta quasi un quinto delle esportazioni di merci, seguita dalla costruzione di veicoli e dai prodotti farmaceutici. 

L’ordine è quasi identico alla struttura delle esportazioni tedesche, questi settori si collocano tra le industrie a “medio-alta tecnologia” e “alta tecnologia” nella classificazione dell’OCSE

Se le politiche di austerità e le riforme liberali del mercato non sono riuscite a far progredire l’Italia negli ultimi decenni, la cosa ovvia da fare è provare una diversa strategia di investimento – per la quale l’uso delle risorse del Recovery Fund potrebbe fornire un forte impulso – e dare una spinta all’industria italiana lanciando una nuova strategia industriale complessiva. 

7. Gli italiani non sono più ricchi dei tedeschi o degli austriaci. Spesso negli ultimi anni abbiamo sentito la tesi che gli italiani sono più ricchi dei tedeschi o degli austriaci; pertanto, dovrebbero pagare da soli i loro investimenti. La famiglia italiana mediana, quella situata esattamente tra la metà superiore più ricca e la metà inferiore più povera della popolazione, è effettivamente più ricca della corrispondente famiglia tedesca o austriaca; ma la famiglia italiana media, ottenuta dividendo la ricchezza netta totale per il numero totale di famiglie, è chiaramente meno ricca che in Germania o in Austria.

Sebbene la ricchezza privata sia inferiore in Italia, la distribuzione della ricchezza è più equa; in Germania e in Austria, la ricchezza è più concentrata in un numero minore di famiglie; uno dei motivi principali è il maggior ruolo della proprietà privata in Italia. 

Questo ha molto a che fare con il relativo minore sviluppo della rete di sicurezza pubblica: gli alloggi sociali e cooperativi, che forniscono a molte persone in Germania, e soprattutto in Austria, alloggi a prezzi accessibili di dimensioni ragionevoli, in Italia sono rari. 

Gli alloggi sociali e le cooperative non contano tuttavia come beni privati, anche se occasionalmente ci si vive più comodamente che nei condomini italiani di basso livello; resta il fatto che è semplicemente sbagliato dire che gli italiani sono più ricchi dei tedeschi o degli austriaci.

Serve un’Italia forte per un’Unione Europea forte. Nelle conclusioni i due economisti austriaci affermano che l’Italia ha certamente problemi strutturali significativi: il divario Nord-Sud, la criminalità organizzata, alcuni meccanismi politici disfunzionali. Ma la domanda che loro si pongono è: in quali condizioni il paese è in grado di affrontare meglio questi problemi? La stagnazione degli ultimi venti anni è stata un terreno fertile per il fatalismo piuttosto che per l’ottimismo di sessanta milioni di italiani.

Una ragione in più perché i media e i politici in Germania, Austria e altrove, smettano di trattare l’Italia come un caso senza speranza, un paziente dell’Europa meridionale che ha problemi perché rifiuta la medicina riformista (dell’austerità) del medico del Nord Europa.

I media europei, così come i principali leader europei, invocano la concorrenza internazionale tra l’UE, la Cina e gli Stati Uniti; una conclusione geopolitica logica dovrebbe essere quella di sostenere attivamente l’economia italiana, che in passato è stata la seconda più grande dell’Unione, nei suoi sforzi di ripresa; ad esempio, avviando una moderna strategia di politica industriale complessiva.

Questa misura da sola rafforzerebbe in modo significativo il peso economico dell’Unione Europea nell’economia globale; se l’Italia fosse cresciuta alla stessa velocità della Germania o della Francia dal 2000 in poi, il PIL europeo (a parità di potere d’acquisto della Banca Mondiale) sarebbe oggi superiore a quello degli Stati Uniti, e non inferiore com’è avvenuto.

Un’Italia forte in un’Unione forte sarebbe anche nell’interesse di tutti coloro che ritengono artificiose tali rivalità economiche internazionali, ma che vogliono che l’Europa preservi il suo modello sociale di democrazia nel ventunesimo secolo.

La pandemia non è finita, le conseguenze economiche si faranno sentire a lungo; la ripresa economica dell’Europa è un’opportunità importante per innescare uno sviluppo economico sostenibile e duraturo dell’Italia. 

Fino alla crisi del Covid, economicamente parlando, il Nord Europa stava reggendo abbastanza passabilmente rispetto agli standard internazionali, e l’integrazione economica degli Stati membri dell’Europa orientale era per lo più positiva. 

Oggi, il punto debole della zona Euro e dell’Unione Europea sono l’Italia e il Sud Europa; in una prospettiva continentale, la ripresa dell’Italia deve essere considerata un compito centrale della politica economica europea.

Sette miti da sfatare sull’Italia ultima modifica: 2021-02-27T18:02:49+01:00 da VITO VACCA
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