Venezia come città delle fondazioni

La Casa dei Tre Oci, le Procuratie Vecchie, l’ex sede della Cassa di Risparmio in Campo Manin. Stiamo assistendo a operazioni di mera facciata di player internazionali che scelgono la città lagunare come vetrina oppure si tratta di interventi spot?
ANTONELLA BARETTON
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Appunti sparsi, osservazioni e domande che sorgono leggendo i quotidiani di quest’ultimo periodo. Il tema è quello che mi è più caro, Venezia e il suo futuro prossimo venturo, con una premessa di metodo che sottende le mie osservazioni: da qualche tempo leggo la stampa e le notizie che vi compaiono cercando di cogliere la ragione ultima, se vi è, per la quale sono state pubblicate. In altri termini, al di là della linea editoriale di ciascun quotidiano, mi chiedo se eventualmente ci sia da qualche parte un disegno o – eventualmente – più disegni atti a far prevalere e condizionare l’opinione pubblica verso un modello di sviluppo piuttosto che un altro, già “altrove” deciso.

Il quadro che ne emerge è distonico: da un lato, una città abbandonata e vilipesa, in preda a fenomeni di micro-criminalità, una Venezia oramai irrimediabilmente “cinesizzata”, anche se il fenomeno, come ho già avuto modo di osservare, non è certo il frutto della crisi pandemica e ha ragioni e radici ben più remote.

È anzi acclarato (fonte Agi e Cciaa) che il tasso di flessione registrato dalle imprese cinesi a causa del Covid-19 è sostanzialmente allineato a quello italiano mentre non vi sarebbe alcuna evidenza della circostanza che gli imprenditori sino-veneziani avrebbero nel corso dell’ultimo anno accelerato i loro acquisti in laguna, approfittando della capitolazione dei residenti.

A questa visione apocalittica (preconizzata peraltro in maniera mirabile, a proposito di Roma, da Tommaso Pincio in Cinacittà), che alimenta accesi dibattiti sui social e si presta a, neanche velate, strumentalizzazioni in chiave micro-protezionistica di ristori e indennizzi alle categorie interessate, si contrappongono articoli di tutt’altro stampo.

Proprio in questi giorni viene dato ampio rilievo alla sottoscrizione del preliminare d’acquisto tra Fondazione Venezia e il gruppo Berggruen Institute per la Casa dei Tre Oci alla Giudecca. Nella dichiarazione rilasciata dalla Fondazione di Venezia e ripresa ad ampio raggio dalla stampa, è previsto il mantenimento della destinazione culturale per mostre d’arte e di fotografia, nonché “l’organizzazione di simposi, vertici, workshop e convegni destinati ad accogliere ospiti, studiosi e policy-maker di calibro internazionale”. 

Ancora, si dà conto dell’inaugurazione il prossimo dicembre da parte della Fondazione The Human Safety Net e di Assicurazioni Generali dei nuovi uffici di rappresentanza nelle Procuratie Vecchie in Piazza San Marco. La Fondazione, secondo l’articolo del Gazzettino a firma Fiorella Girardo che riprende le dichiarazioni dell’amministratore delegato di Generali Philippe Donnet, ha lo scopo di “affiancare i progetti rivolti alle parti più deboli della comunità locale dove Generali ha sede”, mentre “l’affluenza alle sale del pubblico in occasione di incontri e mostre sarà permessa lungo un percorso multimediale”.

Resta centrale il tema se e chi avrà il compito di controllare se l’annunciata fruizione pubblica sarà mantenuta. Problema, mi viene da dire, di non poco conto dato atto che trattasi di soggetti con piena facoltà di determinarsi secondo il loro privato interesse. Come non ricordare, al proposito, gli impegni presi nel 1992 dal gruppo Benetton all’atto di acquisto del complesso dell’ex cinema San Marco. L’investimento ricomprendeva quel gioiellino del Teatro Ridotto, un tempo noto come Casino del Ridotto, la più importante sala da gioco ai tempi della Serenissima. Dopo un restauro splendido e una lettura rispettosa dell’antica destinazione, è divenuto l’annessa sala banqueting dell’Hotel Monaco e il vincolo di consentire l’accesso a chiunque ne faccia richiesta, lungi dall’essere adeguatamente pubblicizzato, sono davvero in pochi a conoscerlo. Di fatto la fruizione pubblica è stata cancellata. Tralascio le polemiche sulla destinazione del Fontego dei Tedeschi e della Scuola della Misericordia.

Un futuro di Venezia come città della cultura e delle fondazioni, modello per attrarre una nuova residenzialità, così in sintesi, conclude il suo articolo sul Gazzettino a firma Girardo.

La Casa dei Tre Oci alla Giudecca

Ma allora la domanda è la seguente: è davvero questo oppure stiamo assistendo a operazioni di mera facciata che sottendono a normali transazioni economico-finanziarie tra player internazionali che scelgono Venezia come vetrina per le loro iniziative, data l’“iconicità” della location? In altri termini, da qualche parte nella comunità internazionale, il futuro di Venezia è stato già in qualche modo disegnato e deciso nei termini di deputarla ad uno dei centri mondiali della cultura e del think tank, oppure si tratta di interventi semplicemente spot?

Effettivamente la front page del sito del Berggruen Institute ha un titolo accattivante che tradotto suona più o meno “Idee per un mondo in cambiamento”. Si prefigge il supporto a tutte quelle iniziative volte a fronteggiare il cambiamento in atto e a ridisegnare lo scenario di istituzioni politiche e sociali in senso trasversale, a prescindere da confini politici e di stato. Nelle dichiarazioni riprese dal citato articolo del Gazzettino sulla nuova sede di rappresentanza della fondazione delle Generali, l‘amministratore delegato preannuncia che “le Procuratie sono destinate a diventare la sede di tutti i progetti riguardanti la sostenibilità, tema centrale del gruppo triestino che ambisce a trasformare Venezia nella capitale del settore”.

Per contro il quadro, a livello di politica locale, è altamente sconsolante, se a leggere l’intervista concessa proprio su ytali da Pier Paolo Baretta si evince, senza mezzi termini, un travisamento del concetto stesso di Recovery plan. Par di comprendere che al momento manchi realmente un indirizzo di programmazione che sottenda e indirizzi i progetti da presentare, che – allo stato – si sarebbero sostanziati in mere richieste di finanziamento di interventi spot, articolati a seconda di interessi particolaristici o comunque di categorie determinate. Anche il concetto di città metropolitana altro non sarebbe nella realtà che una mera conferenza di servizi dove ciascun sindaco proverebbe a portare a casa quello che può nell’interesse della singola realtà locale da lui rappresentata.

In tale contesto, Baretta opera un netto distinguo tra città metropolitana di Venezia, fraintesa a suo dire come opportunità per valorizzare la vocazione di ciascun territorio che la comprende in un contesto ben più ampio e interprovinciale, con la Venezia “insulare”. A questo proposito, fa un accenno alla centralità dell’ente Biennale che

secondo il piano nazionale, sarebbe centrale come polo di sviluppo ma che non trova riscontro nel piano comunale […] e che si sarebbe dovuto far diventare centro di raccordo del progetto di rilancio culturale della città in un’ottica internazionale.

Dichiarazioni che fanno emergere tutto lo scollamento e l’inadeguatezza della politica locale alla risoluzione dei problemi della città storica; la mancanza di alcuna progettualità concreta nel senso auspicato del superamento della monocultura turistica.

Ancora, leggo sulla pagina Facebook di Terra e Acqua, gruppo consiliare all’opposizione, di una recente interrogazione formulata all’assessore al bilancio del comune – Michele Zuin – in merito all’attività svolta dall’Agenzia di Sviluppo Venezia, istituita con “l’obiettivo di diventare lo strumento di interfaccia con investitori nazionale e internazionali per valorizzare le risorse del territorio, favorire lo sviluppo dell’imprenditoria locale e attrarre nuovi investimenti”. Nell’interrogazione, al punto primo, si chiede conto di quali siano le attività in corso e quali investimenti abbia portato in città, mentre si stigmatizza la scarsa trasparenza e la mancata informativa su costi e benefici.

Ex sede della Cassa di Risparmio, Campo Manin

Mentre sto scrivendo le righe conclusive di queste riflessioni, scorro i titoli dei quotidiani di oggi e mi sorprendo, positivamente, nell’apprendere che Intesa San Paolo ha selezionato, quale sede della nuova direzione regionale del Veneto Orientale, proprio il centro storico veneziano nella ex sede della Cassa di Risparmio in Campo Manin.

Si tratta, per quanto mi riguarda, di un’inedita inversione di tendenza, di un primo esempio di quel resettlement di istituzioni ed enti, non necessariamente culturali, a cui auspicavo nei miei scritti precedenti come strumento di ripopolamento della città storica. Ignoro quali siano stati i criteri che hanno indotto il colosso bancario a scegliere Venezia, a preferirla, come si legge, alla sede friulana.

Mi piace pensare tuttavia che si inserisca in un contesto “meditato” e non certo casuale. Che Venezia, per utilizzare una parola destinata a conferire valore a ogni futura iniziativa imprenditoriale, sia già divenuta sinonimo di “sostenibilità”, vocabolo che riecheggia, manco farlo apposta, proprio nelle dichiarazioni dell’amministratore delegato di Generali. Un caso?

Le Procuratie vecie in Piazza San Marco
Venezia come città delle fondazioni ultima modifica: 2021-02-27T20:02:00+01:00 da ANTONELLA BARETTON
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