Quando la maglia degli Azzurri era bianca

ROBERTO BERTONI BERNARDI
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Sembra incredibile, ma l’Italia del calcio, per ragioni meramente economiche, nacque in maglia bianca. Fu bianco, infatti, il colore delle maglie nella partita d’esordio, il 15 maggio 1910, 6 a 2 contro la Francia, nella partita disputata all’Arena Civica di Milano. L’azzurro sarebbe arrivato un anno dopo, in onore di casa Savoia, e da allora gli atleti italiani sono diventati per tutti “gli Azzurri”.  Una maglia storica, dunque, che fece il suo debutto il 6 gennaio 1911 contro l’Ungheria, già vincitrice per 6 a 1 nella seconda partita della nostra Nazionale, il 26 maggio 1910, e vincitrice anche nella terza gara, 1 a 0 sempre all’Arena Civica, contro un’Italia che tuttavia aveva compiuto importanti passi avanti.

All’epoca, stavano andando in scena gli ultimi fasti dell’Impero austro-ungarico in decadenza, era ancora egemone la scuola danubiana, l’unica in grado di competere con gli inarrivabili maestri inglesi, e una compagine come l’Ungheria costituiva un autentico spauracchio.

La Nazionale italiana sul campo dell’Arena Civica di Milano, 15 maggio 1910, prima della partita con la Nazionale francese

Di lì a poco, ben altre sarebbero state le trincee e i campi di battaglia su cui si sarebbero dovuti cimentare i ragazzi di allora, compresi molti calciatori. Addio Belle Époque, addio al quarantennio di pace che aveva fatto seguito alla guerra franco-prussiana del biennio 1870-71 e addio al ruolo predominante dell’Europa.

Il Novecento, noto anche come “secolo breve” o “secolo americano”, stava per fare il suo ingresso nella storia, ponendo fine ai quattro secoli di dominio europeo e aprendo la strada a un nuovo mondo che, nella fase post-bellica, avrebbe condotto l’America sull’orlo dell’abisso, fra proibizionismo e crollo di Wall Street, e l’Europa nel baratro dei regimi totalitari che avrebbero caratterizzato il ventennio successivo. 

L’Italia del calcio, nel frattempo, cominciava a farsi strada fra le potenze europee ma avrebbe dovuto attendere gli anni Trenta per consolidare il proprio ruolo. Fondamentale, in tal senso, fu l’operato del gerarca bolognese Leandro Arpinati, “un fascista anomalo” posto da Mussolini a capo della Federazione gioco calcio (Fgci), e una mano la diede anche la decisione di creare il girone unico: un torneo nazionale in grado di esaltare le squadre delle grandi città, costituendo un formidabile strumento di propaganda nelle mani del regime.

L’azzurro, anche grazie all’apporto degli oriundi, divenne il colore capace di unire gli sportivi che la Serie A divideva ogni domenica. Le vittorie del quadriennio ’34-’38 fecero il resto: due mondiali e l’oro olimpico del ’36, con gli universitari guidati da Annibale Frossi da Muzzana del Turgnano (provincia di Udine), un giovanotto tutto occhiali cui riuscì l’impresa di piegare in finale l’Ungheria che tante sofferenze ci aveva arrecato in passato.

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Prima di tornare a parlare di sport avremmo dovuto attendere un decennio. A guerra finita, faceva furore il Grande Torino, che nella sfida persa 0 a 4 con l’Inghilterra, il 16 maggio 1948, arrivò a schierare ben dieci undicesimi della propria formazione tra le file azzurre. Superga pose fine a quel miracolo umano e sportivo e seguirono vent’anni di anonimato: dalla traversata in nave alla volta del Brasile nel ’50 (Mondiali cui, peraltro, eravamo stati ammessi, a differenza della Germania, solo perché il presidente della Fgci Barassi si era presentato alla riunione organizzativa del torneo con la Rimet fra le mani, gelosamente custodita per anni affinché non cadesse nelle mani degli occupanti nazisti) al fiasco svizzero del ’54, senza contare la mancata partecipazione nel ’58, la corrida di Santiago del Cile nel ’62 e la tragedia inglese del ’66, quando fu Pak Do-ik a entrare per sempre a far parte dei nostri incubi. 

Per rivedere una Nazionale vincente dovemmo aspettare, dunque, il ’68: in panchina un friulano dalle idee chiare come Uccio Valcareggi, in campo i figli della guerra e del benessere, trionfanti agli Europei casalinghi contro la Jugoslavia e artefici della partita del secolo due anni dopo sulle alture messicane, contro i figli dello sfacelo della Germania, divisa in due dal Muro. Ancora buio nel ’74, al crepuscolo della generazione dei Mazzola e dei Rivera, e lenta rinascita sul finire degli anni Settanta.

Protagonisti Bernardini, il demiurgo dell’ultimo scudetto del Bologna ai danni della Grande Inter di Herrera, e soprattutto Enzo Bearzot, il vecio del calcio italiano, con la sua pipa pertiniana e la sua Italia orgogliosa e partigiana, di cui non a caso il primo tifoso era il presidente Pertini, immortalato sugli spalti del Bernabéu di Madrid, durante la finale dell’82 contro la Germania Ovest, in un filmato che appartiene ormai all’immaginario collettivo.

Sandro Pertini e Enzo Bearzot

L’ultimo quarantennio è storia abbastanza nota: l’epilogo dell’era Bearzot, la rinascita con Vicini, l’atroce beffa dell’Argentina di Maradona nello stadio che oggi porta il suo nome, quando i nostri sogni di gloria andarono in frantumi e un intero paese vide svanire la speranza di sollevare la coppa al cielo in casa propria; la deludente esperienza sacchiana, altri due friulani di ferro come Maldini e Dino Zoff, la delusione del Trap, fra Moreno in terra coreana e il biscotto nordico in un Portogallo dal sapore amaro; l’estasi berlinese nell’estate di Calciopoli, grazie alla grinta e alle intuizioni di quell’orso viareggino di Marcello Lippi; la breve parentesi Donadoni, il ritorno infausto di Lippi e, infine, il semi-fallimento di Prandelli e il fiasco totale di Ventura, prima di ritrovare un minimo di dignità grazie alle cure e all’intraprendenza di Mancini.

La costante di questa lunga storia, fatta di calcio e di molto altro ancora, è stata proprio la maglia azzurra, la nostra magia che rende tutti commissari tecnici, tutti esperti la mattina al bar e ora sui social, tutti partecipi, nessuno escluso, come se si trattasse di un’incruenta chiamata alle armi dalla quale è impossibile non rispondere, anche per chi magari nel resto dell’anno si occupa d’altro. È la nostra storia, una delle risorse più belle che abbiamo. E allora auguri, con l’auspicio che fra qualche mese, in un’Europa ancora martoriata dal Covid, Mancini e i suoi ragazzi possano regalare alla nostra gente la gioia di cui abbiamo bisogno. 


In copertina la Nazionale di calcio italiana prima della partita con la Francia all’Arena Civica di Milano, 15 maggio 1910: Mario De Simoni, Francesco Calì (capitano), Franco Varisco, Domenico Capello, Virgilio Fossati, Attilio Trerè, Franco Bontadini, Giuseppe Rizzi, Aldo Cevenini, Pietro Lana, Arturo Boiocchi, Enrico Debernardi. Allenatore: Umberto Meazza.

Quando la maglia degli Azzurri era bianca ultima modifica: 2021-02-28T15:11:38+01:00 da ROBERTO BERTONI BERNARDI
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1 commento

Rosy 5 Marzo 2021 a 11:22

Valcareggi e Maldini non sono friulani ma giuliani, più precisamente triestini.

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