Tanto deprecabile e deprimente – eticamente e politicamente – è l’ormai stranota vicenda saudita di Matteo Renzi, quanto è legittima – in quanto rivendicata e motivata politicamente – l’iniziativa, immortalata da più foto, che vide protagonista anni fa Massimo D’Alema a Beirut. Lo scenario, anche allora, è mediorientale. È il giorno di Ferragosto del 2006 e l’allora ministro degli esteri è fotografato mentre cammina a braccetto con Hussein Haji Hassan, esponente di primo piano e parlamentare di Hezbollah, tra le macerie di un quartiere della capitale libanese appena bombardato dall’aviazione israeliana, dopo 34 giorni di conflitto tra le forze armate d’Israele e le forze paramilitari del “partito di Dio”.
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D’Alema, allora e successivamente, difese quella scelta come atto consapevole e lucido per consolidare il ruolo nella regione dell’Italia, presente peraltro con suo contingente di peacekeeping sotto le insegne Onu al confine israelo-libanese.

Intervistato da Aldo Cazzullo, sul Corriere della Sera, D’Alema racconta così, dieci anni dopo, la vicenda:
Spesso in Italia prevale l’ignoranza di trogloditi che non sanno di cosa si parli. Hezbollah rappresenta una parte significativa della società libanese. All’epoca faceva parte della coalizione di governo: il ministro degli Esteri era un accademico islamico espressione di Hezbollah. Siccome io lavoravo per la pace tra Israele e Libano, era inevitabile che incontrassi anche le forze che governavano il Libano. […]
Arrivai a Beirut il mattino del 14 agosto, un’ora dopo la fine dei bombardamenti di Israele, che aveva colpito sino a un secondo prima del cessate il fuoco deliberato dall’Onu. Il ministro degli Esteri mi disse che c’erano molte vittime nei quartieri popolari, e avrebbe apprezzato che avessi fatto loro visita. Non era una manifestazione estremista; era lo scenario di un dramma, con civili che cercavano i loro congiunti sotto le macerie. Il mio fu un gesto di solidarietà umana giusto e apprezzato, che contribuì a garantire la sicurezza dei nostri militari poi schierati sul confine. Come i gesti che compii dall’altra parte, visitando i familiari di soldati israeliani rapiti. E incontrando all’aeroporto di Tel Aviv lo scrittore David Grossman, che in quella guerra aveva perso il figlio. Citai una felice espressione di Andreotti: l’equivicinanza. In Italia mi presero in giro.
Osservato da un altro punto di vista, l’episodio acquistava allora e ha acquistato in seguito tutt’altra valenza.
Nella lunga serie di azioni terroristiche attribuite a Hezbollah, di conserva con il regime di Assad, spicca l’omicidio del primo ministro Rafiq Hariri, avvenuto nel 2005, l’anno prima della controversa “passeggiata”. Ancora nel 2005, il Parlamento europeo, accogliendo le richieste israeliane sostenute anche dagli Stati Uniti, approvava con una maggioranza schiacciante (473 a favore, 8 contro, 33 astenuti) una risoluzione che accusa Hezbollah di attività terroristiche. Stati Uniti, Egitto, Israele, Australia e Canada la considerano già allora organizzazione terroristica.
L’immagine, pubblicata dai quotidiani italiani con grande evidenza, suscitò indignazione nella Comunità ebraica italiana, con riverberi negativi a livello internazionale. Il vicepresidente della Comunità ebraica romana Riccardo Pacifici condannò quel gesto con “un esponente che rappresenta un’organizzazione nemica della pace e non solo di Israele”. Una ferita mai rimarginata.
Quel gesto non avrebbe certo facilitato le aspirazioni internazionali di D’Alema, come la mancata nomina a “ministro degli esteri” della UE, attribuita invece, per volere di Renzi, a Federica Mogherini.

Il Medio oriente, e più in generale il mondo islamico e il mondo arabo, è notoriamente un terreno minato, dove solo politici occidentali avvertiti, con una certa consolidata consuetudine con sensibilità e umori cangianti di quella regione, sono in grado di avventurarsi, senza farsi male. Un terreno minato sia per la sua complessità culturale, religiosa, sociale, storica sia per le estreme polarizzazioni e divisioni presenti, alcune vecchie di secoli. Il minimo di prudenza richiesto è evitare inutili, non necessarie, espansioni di amicalità corporee o ostentate manifestazioni di simpatia, che possono essere spesso un punto a favore del politico italiano rispetto a un suo omologo nordeuropeo o americano. Ma non sempre, anzi: come si è visto, può esserci l’effetto boomerang.
A li là del giudizio etico e politico, è un errore dilettantesco farsi ritrarre in pose che vanno oltre il protocollo diplomatico con leader controversi o, peggio, considerati despoti, come il celebre baciamano di Silvio Berlusconi con Gheddafi (7 novembre 2011) o le battute sceme di Renzi con il principe saudita, o la passeggiata sottobraccio con un dirigente del “partito di Dio”.
Certo, nella vicenda della visita a Riyadh, risalta il ruolo istituzionale ricoperto dal senatore Renzi, che è un aspetto di forte rilievo da un punto di vista politico, oltre che etico. Mentre, da questo punto di vista, non può essere considerata reprensibile – per esempio – l’immagine di Romano Prodi che abbraccia Vladimir Putin (2016) – con il quale ha una relazione personale non diversa da quella che ha Silvio Berlusconi con il presidente russo. Non va tuttavia ignorato che in quel periodo il caso Navalski – solo per citare la vicenda più emblematica della dura repressione nella Russia putiniana – è già al centro dell’attenzione internazionale. E per Putin la legittimazione ottenuta grazie anche alle benevola simpatia di figure internazionali è sicuramente una risorsa preziosa.

Lo stesso si può dire dei rapporti intensi di D’Alema con la Cina, compresa l’esportazione nel mercato cinese dei vini prodotti nella sua tenuta umbra, Silk Road Wines. Sono affari suoi, in tutti i sensi, di un privato cittadino, e come tali vanno considerati, così come l’attività della sua DL & M Advisory, che si occupa di “consulenza nell’ambito dei processi di internazionalizzazione” di diversi mercati esteri “per la ricerca e l’attrazione di investimenti di aziende private“.
La morale, il comune denominatore, delle suddette vicende è che, dei politici italiani degli ultimi decenni, solo quattro nomi, a cui può essere aggiunto quello di Enrico Letta, hanno uno standing internazionale: merito sia dei ruoli di governo ricoperti sia della loro capacità di intessere relazioni non limitate al solo perimetro domestico. Dà la misura, anche questo, della qualità provinciale della classe politica italiana, ancor di più tale se i nostri protagonisti internazionali si distinguono, dentro e fuori d’Italia, per clamorosi passi falsi, della serie ci facciamo sempre riconoscere.

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