Via Facebook il segretario del Partito democratico Nicola Zingaretti ha dato le dimissioni. Troppo il tempo, ha scritto in un post, passato a parlare di “poltrone e primarie”, sotto gli attacchi di “chi in questi due anni ha condiviso tutte le scelte fondamentali” del partito. That’s Pd! verrebbe da dire per parafrasare altra formula. Non c’è infatti segretario di partito che non abbia subito questa “guerriglia quotidiana” di cui parla Zingaretti. Dirigenti e militanti hanno l’abitudine di contrastarsi e biasimarsi per le scelte politiche del segretario di turno. Talvolta con esagerazioni. Come per esempio, questa volta, Flavio Zanonato che parla di “pulizia etnica” realizzata dai renziani del suo stesso partito ai danni del segretario.

Mettiamo però da parte l’aspetto emotivo – che tuttavia può avere una funzione nella lotta tribale interna al Pd, come vedremo – e proviamo a riflettere invece su queste dimissioni.
Una possibilità è che siano reali. Le critiche di Base riformista (la corrente di Guerini e Lotti) e degli orfiniani e la richiesta di un congresso anticipato dopo il fallimento della linea politica di Zingaretti – alleanza con il Movimento cinque stelle, “O Conte o elezioni” e il riconoscimento dell’agenda Draghi – hanno esasperato il segretario che ha preferito lasciare. Ipotesi non da scartare ma che direbbe molto dell’inadeguatezza di un politico che dovrebbe conoscere molto bene gli esasperanti meccanismi correntizi del partito che guida. Forse il tentativo di sottrarsi a una situazione troppo complicata e avviarsi verso la candidatura a sindaco di Roma, come qualche stampa annuncia? Può darsi.
C’è però un’altra ipotesi. Il segretario ha annunciato la scelta di far un passo indietro via social, un mezzo non inusuale per Zingaretti ma insolito per il tipo di annuncio, del quale pare molti dirigenti Pd fossero all’oscuro. Il social è mezzo di comunicazione diretta con i cittadini e soprattutto con i supporter. Il tono stesso del messaggio del segretario è drammatico. Per certi versi quasi infantile. Sembra quasi un brusco sfogo. Ma è solo il prologo. Al post seguono gli accorati richiami, sempre via social, degli iscritti e dei simpatizzanti – “ripensaci”, “resta” –, la versione updated del “popolo dei fax”. Ma soprattuto arrivano i tweet e post del ceto politico piddino a sostegno di Zingaretti e con l’invito rivolto all’Assemblea Nazionale a respingere le dimissioni del segretario.
Zingaretti ha infatti ancora la maggioranza dell’Assemblea Nazionale. Non ha più il 65 per cento iniziale ma ha ancora la maggioranza. E perché mai un segretario che ha la maggioranza nel partito dovrebbe dimettersi per gli attacchi delle minoranze? Non c’è ragione. Salvo voler drammatizzare la situazione all’interno del proprio partito. Per radunare e riorganizzare le proprie truppe in vista di riaffermare la propria leadership offuscata. Che cosa c’è di meglio che un odiato nemico – le correnti “renziane” – per riaffermare un potere fortemente indebolito da scelte sbagliate?
Ci sarebbe quasi da sperare che fosse valida questa seconda ipotesi. Perché, tutto sommato, per la prima volta, Zingaretti dimostrerebbe un acume politico maggiore di quanto abbia avuto in precedenza. In effetti questa mossa gli consentirebbe di guidare il partito – almeno per un po’, ma in politica il tempo è tutto – con maggiore facilità rispetto alle settimane e ai mesi scorsi. Probabilmente a scapito delle minoranze che vedrebbero allontanarsi il sogno di un nuovo congresso (e di un nuovo leader, forse Stefano Bonaccini).

Riaffermare però la leadership sul Partito democratico non significa tuttavia risolvere la crisi del Pd. La linea Zingaretti-Bettini – “o Conte o voto” – è infatti uscita sconfitta dall’evoluzione degli eventi e la nascita del governo di Mario Draghi. Il nuovo ruolo di Giuseppe Conte all’interno del Movimento cinque stelle, il “novello Prodi”, è un ulteriore insuccesso di quella strategia. Di fronte a Conte leader del M5s è apparsa peraltro ancora più evidente la desolante assenza di un leader da contrapporre all’ex presidente del consiglio. Anche nell’ipotesi di una coalizione, restasse questa legge elettorale, il Pd rischia di perdere voti a favore dell’uomo che hanno continuato a celebrare durante questo anno e mezzo di governo giallo-rosso (come qualche sondaggio recente ha anche messo in evidenza).
Una confusione che si è palesata anche con le ultime svolte sulla legge elettorale. Prima, in soccorso del nuovo alleato Cinque stelle, si decide di puntare tutto sul proporzionale, sistema deleterio per le molte “identità” che partecipano al partito-tenda. Poi si cambia idea: negli ultimi giorni il segretario rispolvera la “vocazione maggioritaria” e interviene per smentire le notizie della stampa che lo davano d’accordo con Matteo Salvini per una riforma elettorale d’impianto maggioritario. Smentite a cui però mole ricostruzioni giornalistiche non sembrano dare peso. Anzi insistono.
“Senza nocchiere” è la formula che verrebbe da utilizzare. Se in questi quattordici anni di vita del Pd non fosse stata usata ripetutamente.

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2 commenti
Non sono minimamente interessato alle vicende interne del pd, ai pettegolezzi, alle interpretazioni, a chi manovra che cosa o chi, a chi (per sé o per altri nominati o da nominare) gestisca un miserabile potere, ai beceri retroscena da festival di sanremo (infatti, altri hanno il Festival di Bayreuth o quello di Glyndebourne). Ma, in fondo, non sono sorpreso che perfino un dottorando in scienze politiche, cresciuto in questa Italietta plasmata dalla subcultura televisiva, si eserciti diffusamente in questi esercizi.
Piuttosto, mi domando cosa ci sia da attendersi da un’accozzaglia di trogloditi pd (ex tutto), prodotti della cultura facebook e talk show, orfani del loro amato caimano, tanto ammirato, protetto, allevato – e naturalmente invano uguagliato perché la copia non è mai all’altezza dell’originale.
Non un progetto, una visione altra della società, non dico di sinistra (per carità!), ma semplicemente più equa, più civile. Eppure esistono in Italia intelligenze e coscienze che potrebbero trovare ampie praterie su cui esercitare le migliori virtù etiche e sociali. Ecco, nel mio insanabile ottimismo coltivato in quell’etica e in quel senso del sociale io credo sarebbe bello esercitare il vero potere, quello diffuso, quello che discende dal consenso di cittadini maturi e coscienti dei loro diritti e dai loro doveri.
Mi sembrava che Michieli non volesse esercitarsi sulle dinamiche interne del PD ma mostrarne il disastroso vuoto. Quel che manca, in effetti, è un pensiero politico, sviluppato sia a partire dalla riflessione sulla tragica realtà del nostro paese sia a partire dagli scopi politici da cercare di raggiungere. Eppure basterebbe forse cominciare a pensare partendo dall’art.3 della Costituzione e dagli altri della prima parte (eccezion fatta per l’art.7…) per delineare un progetto politico che potrebbe giustificare una serie di programmi condividibili da buona parte dei cittadini. Forse sono illuso?