Vitalità e morte di Mario Stefani

Vent’anni fa il poeta veneziano si toglieva la vita. Un talento poetico riconosciuto nel mondo letterario, eppure i suoi libri non sono mai diventati successi commerciali, nemmeno nella sua Venezia. Perché abbiamo poco tempo da dedicare alla poesia.
GIOVANNI LEONE
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Fa a tempo a vedere l’esordio del nuovo millennio e poi spegne la luce. 

Il 4 marzo di vent’anni fa Mario Stefani si toglie la vita in casa. Talvolta togliere è sottrarre privando del superfluo, talaltra è invece aggiungere, una lacuna, un vuoto risonante di mancanza. È questo il caso. Quel giorno Venezia ha perso il suo poeta, civico e di strada nel senso che abitava lo spazio pubblico nutrendo la residua vitalità. La principale risorsa di Venezia è la qualità della dimensione relazionale, di natura immateriale e carattere sociale, che si (ri)genera quotidianamente percorrendo a piedi questa città domestica, casa urbana dove ci s’incontra di continuo, in corridoi in forma di rio e calle, in stanze di corti e campielli, o nel soggiorno dei campi e nel salotto buono di piazza San Marco.

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Esponente del panorama culturale, Stefani era un volto familiare nel tessuto della città vissuta. Era normale incontrarlo in giro a eventi culturali, in libreria e scambiare quattro chiacchiere davanti a un’ombra. Il viso florido, con camicia sbottonata e foulard, oppure abbottonata con farfallino. Poteva incutere timore perché sapeva essere affilato quest’omone colto e sincero, in generale era affabile e generoso, gioviale e allegro, mai banale, sorseggiava vino sorrisi e poesia, con silenzi rotti da improvvise scroscianti risate. Nelle sue poesie è ricorrente il riferimento all’infanzia e alla giovinezza, gli era rimasta la voglia di divertirsi nonostante la progressiva riduzione di spensieratezza. Laico com’era, è improbabile si sia lasciato andare alla disperata speranza di un meglio a venire, più probabilmente avrà deciso di prendere le redini del destino e d’impadronirsi della punteggiatura mettendo alla sua vita un punto senza accapo. Uomo, innanzitutto, essere umano di grande cultura, persegue la conoscenza senza inseguirla, apprezza la cultura dei luoghi e nelle persone, coltivandola.

Elegia veneziana
è la laguna
certo non è che quel colore
di luce indefinito
tra cielo e terra
tra paradiso e inferno

[Elegia veneziana – da “Elegie veneziane”, Rebellato, Cittadella 1971]

Qui Mario Stefani ci restituisce in forma poetica l’unità “venezialaguna”, terra d’acqua che prima d’essere fenomeno visivo e percettivo è carattere identitario di un luogo dai contorni sfumati, gravido di travasi tra l’uno e l’altro nel rispetto della diversa identità dell’uno e dell’altro, a formare un’unità plurale di diversi/opposti come terra e acqua, accorpati a generare emozione per contrasto.

Scrive di arte e letteratura in forma poetica annidandosi tra le righe di ogni testo dove parla di sé pur scrivendo d’altro. Succede come negli ammalianti riflessi sulla superficie dell’acqua che a un certo punto smettono di restituire quel che riflettono per nascondere dietro una superficie resa impenetrabile dal riflesso la loro natura liquida. Vedo / non vedo, e di Mario Stefani se ne vedono più d’uno, riflessi sulla superficie di una vita ondulata e increspata in moto perpetuo.

Flavio Cogo rileva che la prefazione a una raccolta di poesie di Gabriele de Masi è poco attinente al testo. Vero. In verità, diciamocelo, si parla sempre di sé. Se si è forti lo si fa con discrezione, quando si è più deboli ci si distrae e si sbrissa nel narcisismo. In ogni caso stiamo sempre allo specchio. C’è chi si ferma in superficie incapace di andare oltre la propria immagine e chi in sé ci entra attraverso lo specchio, come Alice. Al di là non sempre si trova il paese delle meraviglie. L’introspezione è azione volontaria dalle conseguenze imprevedibili perché non ci sono reti anticaduta, come cadere senza farsi troppo male non l’insegna nessuno, lo si può solo imparare con l’esperienza.

È un gioco di scatole cinesi, una sorta di matrioska in cui andiamo incontro all’altro che è in noi, con il rischio di sentire uno spaesamento che può risultare insopportabile, sensazione che può essere fatale in un luogo permeante com’è Venezia. Mario Stefani appare come un nodo, che a un certo punto non è riuscito più ad allentare ed è diventato un cappio. Nei suoi testi troviamo il disincanto ma mai la resa o la disperazione. La speranza deve averlo abbandonato alla fine, ne avrà preso coscienza senza abbassare lo sguardo e agito di conseguenza, andando oltre.

Inquieta carne che mi possiedi
cilicio o salvezza non so
in questa Venezia di morte
chi sei uomo?
Ma il grido si perde nel silenzio
marcisce la speranza
all’approdo sarai solo
[Inquieta carne che mi possiedi – da “Il poeta assassinato”, Pan, Milano 1974] 

A un certo punto ha scelto deliberatamente di tuffarsi in quel silenzio che torna ricorrente nel suo canto poetico, ma continua a sussurrarci in biblioteca, tra pagine di libri e fogli di giornale, o nelle prefazioni di libri altrui, com’è il caso di Aspetti di Venezia di Arbit Blatas. Nonostante siano pressoché irreperibili in libreria, perché pubblicati in numero limitato da preziosi editori minori e di provincia (ma affatto provinciali), i suoi libri di poesia hanno ancora molto da dire e da dare, sono ancora oggi un giacimento di riflessi(oni) di venezianità, quella condizione che non è solo di chi è nato a Venezia ma di chi la ama, la vive e se la porta dentro, come altri poeti “veneziani” a cui Stefani si accompagna, dal toscano Aldo Palazzeschi (che a differenza di Stefani preferiva vivere un’omosessualità non dichiarata) al romano Diego Valeri (con cui i rapporti si raffreddano per la dichiarazione pubblica di omosessualità fatta dallo Stefani). Qualche loro poesia è scritta in veneziano, magari imprecise nella trascrizione della lingua parlata ma certamente intrisa di venezianità.

Le checche matte
vanno per la città
rondando di felicità
fanno coccodè ai maschi
Coccodè
[da “Il male di vivere”, Pan, Milano 1968] 

Omosessualità è al tempo stesso espressione di libertà (dei sensi) e interrogazione (di senso), che Mario Stefani indagava nella vita e con gli strumenti della poesia. Non la ostenta, semplicemente la vive con naturalezza, senza negarla o nasconderla e anzi dichiarandola candida-mente.

Inseguimi nei sogni
andremo alla deriva dei desideri
poiché nulla è più bello
di essere naturali
sembrando diversi

[Dalla raccolta di poesie “A debito della vita”, Panda, Noventa Padovana 1984]

In questa poesia ci dice dell’uguaglianza, riconosce di apparire diverso e di essere al tempo stesso naturale, quasi a dire che la naturalezza vanifica la diversità, ciò che è frutto di Natura può apparire diverso ma non lo è. L’innaturale lo è, come anche il falso, non l’autentico, com’è lui anche con gli studenti dell’Edison Volta, l’istituto tecnico in cui insegnava. Ed era quella sincerità a regalargli la confidenza degli studenti ai cui matrimoni e compleanni veniva invitato. Molti, oggi umili lavoratori, ricordano di dovere a lui gli unici libri posseduti. 

Le sue doti di poeta sono state riconosciute nel mondo letterario, ma i suoi libri non sono mai diventati successi commerciali, nemmeno nella sua Venezia, perché abbiamo poco tempo da dedicare alla poesia. Anche per questo Mario Stefani abita oggi i margini della memoria, è un’isola in cui approda talvolta la lettura per curiosità o interesse per poi tornare ad allontanarsi lasciando l’isola al suo isolamento. Venezia ha forze e risorse per cullare cultura e contrastare l’oblio, deve solo trovar modo di liberarle liberandosi degli impedimenti. Per questo dobbiamo essere grati a Flavio Cogo, l’unico a portare avanti un metodico lavoro di ricerca e ricomposizione della complessità della figura e dell’opera di Mario Stefani. La meritoria opera di documentazione ha portato alla pubblicazione di una trilogia, frutto di un certosino lavoro bibliografico con rigoroso approccio scientifico.

Prima è venuta la restituzione di una biografia critica in Mario Stefani e Venezia, Cronache di un grande amore (libri di Gaia, Venezia 2011 con prefazione di Alberto Toso Fei; testo rieditato e ampliato da My Monkey, Bologna 2020, con prefazione di Roberta De Rossi). Segue un testo su trent’anni di prefazioni con Mario Stefani. Diario pubblico (Il grido, Venezia 2018, con prefazione di Leopoldo Pietragnoli). E infine la recente raccolta ragionata di poesie in Mario Stefani. Venezia mio sogno (My Monkey, Bologna 2020). Qui sono pubblicate le poesie richiamate in questo testo, e alla bibliografia essenziale di e su Mario Stefani rimandiamo tutti coloro che fossero interessati alla sua opera. 

Se Venezia non avesse il ponte l’Europa sarebbe un’isola.
[da “Epigrammi”, Panda, Noventa Padovana 1994]

È del 1994 il suo distico più famoso in cui esplicita efficacemente il complesso di superiorità tipico del veneziano, orgoglioso di appartenere a quell’élite di privilegiati convinta di risiedere nell’umbelicus mundi o caput mundi che dir si voglia, un appellativo simbolico attribuito nel Mediterraneo prima a Roma, poi a Gerusalemme, quindi a Costantinopoli, e infine è Venezia ad appropriarsene. Stefani sentiva di stare al centro del mondo, lo dichiara in “Venezia-folclore. Campo San Giacomo”:

El megio campo del mondo”, così dicevo, da piccolo, alla gente sul mio campo. È passata l’infanzia, l’adolescenza non è che un ricordo, così la mia giovinezza. Ma il campo è rimasto per me come luogo di segrete promesse di vita. Era una volta l’unico campo alberato, ora non più. Per me era l’ombelico del mondo. Sostavano pittori per eternare nei loro quadri tanta bellezza. (…) San Giacomo è così un po’ la Saint Germain di Venezia. C’è la riva destra e la sinistra, c’è la chiacchiera che aleggia sovrana.
[in “Mario Stefani. Venezia mio sogno.”, My Monkey, Bologna 2020; Mario Stefani, “Venezia-Folclore. Campo San Giacomo”, ‘La Vernice’, n.78, 1975].

Qui la pretesa centralità si spinge oltre, fino a fare dell’isola un continente, non in virtù della sua dimensione ma in riferimento al primato della realizzazione di un miracolo tangibile. L’ombelico è espressione che si riferisce non solo al centro geometrico ma al punto del corpo umano in cui resta traccia del legame con ciò che è venuto prima, il tempo in cui stavamo nello spazio liquido del ventre materno che presenta molte analogie con quello lagunare: entrambi avvolgono e proteggono ma non impediscono di uscire e far andare oltre. Il passato è ciò che è stato …e sempre sarà proprio perché è stato, solido sedimento di vissuto, a differenza del futuro che resta solo potenzialmente possibile.

Tutto è presente
l’ieri l’oggi il domani
pietre non sono che un volto
del passato
che ieri oggi e domani
[Tutto è presente – da “Elegie veneziane”, Rebellato, Cittadella 1971]

Era il 1989. Il ministro degli Esteri Gianni De Michelis sosteneva la candidatura di Venezia come sede dell’Esposizione Universale del 2000, annunciata come l’occasione per dare impulso a una scellerata idea di sviluppo del territorio veneziano che voleva completare la trasformazione della laguna in infrastruttura attrezzata, così perpetuando l’errore d’insediare nella gronda lagunare il polo petrolchimico di Porto Marghera aggravato dalla scelta di scavare il canale dei petroli (1964-1968). Ora si voleva il cemento, per “recuperare” e rilanciare l’arcipelago lagunare. Una mancanza di rispetto per l’ambiente tollerabile forse solo nella forma poetica dell’iperbole marinettiana che voleva un canal grande asfaltato in cui far sfrecciare le automobili.

Poi semo andai a veder i Pin Floi e un dolce naufragar d’Expo è sopraggiunto, con una crisi politica che però non ha regalato a Venezia una classe politica capace di costruire un progetto con una nuova visione del presente, regalando alla città una prospettiva per il futuro che si smarcasse da sogni di gloria e dall’illusione onirica di un progresso da incubo, sinonimo di abuso. La classe dirigente è la stessa che ha poi venduto il destino della città alla monocultura turistica, incapace di concepire alternative per la città. Il “partito del fare” ha perso quella battaglia ma ha raccolto le forze e ha poi vinto la guerra. Quel partito che ancora oggi s’invoca irragionevolmente, etichettando il dissenso come “partito del non fare” e negando agibilità politica alla coscienza critica e al partito del “fare (ma) bene”, per far spazio al “partito del fare a qualunque costo” che ha finito per governare la città sostenuto da cittadini che – pur lamentandosi per l’evidente deriva – sono pronti a vendere l’anima per soldi che evaporano in un baleno senza lasciare ricchezza, nella corsa a un oro di latta come il turismo incontrollato, che porta più danni che benefici, vincolando intere comunità alla zavorra della sua volatilità.

Il concerto dei Pink Floyd, con i suoi 200.000 spettatori a invadere una città inerme di fragilità nota, è evento epocale, spartiacque, prova generale ed esordio di un sovraffollamento inesorabilmente sopraggiunto per l’incapacità di arginare le manie di grandezza, aprendo la via al gigantismo di cui le grandi navi da crociera sono diventate l’emblema. Un sussulto di orgoglio civico alzò un argine e impedì lo scempio che un’Expo avrebbe portato a un ecosistema fragile come quello lagunare e alla simbiotica unità di “Venezialaguna”. Al sindaco Casellati non resta che recarsi al comitato EXPO di Parigi per contrapporre alla loro proposta la nostra protesta, che portava in grembo la proposta abortita di una non più rinviabile inversione di tendenza. Il manifesto di ciò stava nel manifestino distribuito nella capitale francese dove il compito di portare lo spirito e la cultura del luogo era affidato a un’immagine di Hugo Pratt e a questa poesia di Mario Stefani, presagio del 1969:

Venezia more
fé qualcosa zente
i xe qua ieri i xe ancuo
i studia i varda
i ciscera cussì a vanvera
e no’ se conclude niente
dovemo serarse in casa
par no’ vedar
la nostra cità sofrir?
[Venezia more – da “Un poco de tuto”, Rebellato, Cittadella 1969]

Ci sono poi le parole scambiate; offerte generosamente a tutti quelli che lo hanno incontrato (e sono tanti) fino a quando non ha deciso di sottrarsi, venendo meno. Non erano solo i discorsi intellettuali a incuriosirlo e attrarlo ma anche le semplici ciacole.

La vose vien suso da la cale
mi me diverto a darghe un volto
ghe xe mbriaghi
inamorai
altri i ciacera de politica
ore e ore
sansa capir gnanca
le perole che i dixe
ma basta parlar
[La vose vien suso da la cale – da “Un poco de tuto”, Rebellato, Cittadella 1969]

Amava parlare ma sapeva anche ascoltare e lo faceva anche dalle finestre di casa, occhi e orecchie sul mondo e la vita.

L’acqua del rio
a la riva bate
e bate ancora
come in un sospiro
ne la note ciara
i muri e le finestre
come oci grandi a vardar
[L’acqua del rio – da “Un poco de tuto”, Rebellato, Cittadella 1969]

Forse, dopo avere denunciato la decadenza nel corpo sociale della città, non ha sopportato il sopraggiungere di quella del suo corpo fisico. Nel periodo antecedente la sua morte una mano sconosciuta verga in giro per la città una sua riflessione, motto straordinario di disarmante disincanto e precisa lucidità che oggi lo ricorda nella targa a lui dedicata dalla Municipalità di Venezia in campo San Giacomo dell’Orio:

Solitudine non è esser soli, è amare gli altri inutilmente.

Il sindaco di Venezia Massino Cacciari scopre la targa in ricordo di Mario Stefani (20 marzo 2010)
Vitalità e morte di Mario Stefani ultima modifica: 2021-03-05T15:59:12+01:00 da GIOVANNI LEONE
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