Zlatan Ibrahimović mi ha sempre suscitato una naturale antipatia. Giocatore di indubbio valore, anche se non allo stesso livello di Messi e Ronaldo, ossia i dominatori della sua generazione, ha comunque segnato oltre cinquecento gol in carriera e vinto pressoché ovunque sia andato, dimostrandosi, persino nei contesti più delicati, un trascinatore e un punto di riferimento. Nato a Malmö (nel quartiere di Rosengard per l’esattezza) il 3 ottobre 1981, sta per arrivare ai quaranta e la forma fisica, al netto di qualche acciacco, gli consente ancora di esercitare una prepotenza agonistica di tutto rispetto.
Eppure, Zlatan ha sempre avuto un lato oscuro: troppo arrogante, detestabile quasi per vocazione, apparentemente sicuro di sé ai limiti della presunzione stucchevole ma in realtà costretto a indossare una maschera per proteggersi da un passato fatto di pregiudizi, da un’infanzia difficile, dalle troppe cattiverie che deve aver subito, da quel ghetto dal quale neanche i soldi lo hanno mai del tutto allontanato, da una maledizione che si porta dietro nonostante la gloria ormai acquisita.
Senza contare lo scivolone cui è andato incontro solo qualche giorno fa, attaccando LeBron James per il suo impegno nella lotta al razzismo, quando Ibra ha dato il peggio di sé, vantandosi per un disimpegno che i campioni contemporanei, in una società senza grandi ideologie e partiti all’altezza, proprio non possono permettersi.

Poi, però, è andato a Sanremo e confesso di essere stato fra coloro che hanno storto la bocca. Cosa c’entra col Festival della canzone italiana? Perché continuare a valorizzare un personaggio del genere? Solo per la sua notorietà? Erano alcune delle domande che mi ronzavano in testa, fino a quando non ho assistito al suo monologo dedicato al valore della sconfitta, ai sacrifici compiuti, al percorso svolto fra mille difficoltà, di cui da fuori quasi nessuno si è accorto, anche per via del carattere tutt’altro che accomodante di un soggetto che, al contrario, si è sempre vantato del suo superomismo, e in quel momento mi sono domandato se ne sia valsa la pena, caro Ibra.

Se sei così, se quelle parole sono davvero tue, se non si tratta di frasi confezionate su misura da autori brillanti per ripulire la tua immagine di bullo ingestibile che ne dice e ne fa sempre una di troppo, se davvero hai un’anima, un cuore e una fragilità, perché non cambi? Perché non accetti di essere anche tu un uomo e non un semi-Dio, con le fragilità, i dubbi, le paure, le ansie e i tormenti che caratterizzano ciascuno di noi? Perché non approfitti della splendida figura che hai fatto sul palco dell’Ariston per lasciarti alle spalle la maschera disprezzabile da conducator senza punti deboli, tanto ridicola quanto insopportabile?

La sensazione, o per meglio dire la speranza, è che alle soglie dei quaranta anche Ibra, prossimo a diventare un ex calciatore, abbia avvertito il bisogno di una nuova dimensione, con meno riflettori puntati addosso e più umanità, meno laudatores intorno a spellarsi falsamente le mani e più amici veri, pronti ad apprezzarne il talento ma, soprattutto, la dignità e la gentilezza d’animo.
Se questa rivoluzione dovesse avere luogo, sarebbe la vittoria piu bella, la degna conclusione di una carriera di alto valore cui, tuttavia, è sempre mancata la luce della dolcezza. E l’uomo Ibra potrebbe serenamente guardare al domani, finalmente felice come forse, in tutti questi anni di agonismo spinto all’estremo, non è mai stato, privando se stesso di una gioia interiore che nessun trofeo potrà mai eguagliare.

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