Davide Astori se ne andò il 4 marzo 2018, ossia il giorno in cui in Italia ci si metteva in fila ai seggi, e quel giorno il calcio si fermò. La Fiorentina avrebbe dovuto giocare a Udine ma il suo capitano, appena trentunenne, morì nella notte a causa di un arresto cardiaco. Non sta a noi dire se Astori si sarebbe potuto salvare, probabilmente no. Sta a noi ricordare, a tre anni di distanza dalla sua tragica morte, un ragazzo dolce e gentile, straordinariamente perbene, mite e civile in campo e fuori, capace di diventare grande pur giocando in realtà di provincia come il Cagliari e la Fiorentina. Avrebbe meritato palcoscenici migliori, magari continuando a giocare nelle fila della Roma, su questo non c’è dubbio, ma a lui non pensava affatto il ruolo di condottiero dei poveri, amato da tifosi e compagni di squadra e stimatissimo in due città a misura d’uomo, in cui poteva passeggiare insieme alla moglie e spingere il passeggino della figlia.
La cifra esistenziale di Astori era la normalità di un ragazzo dal sapore antico, lontano anni luce dal divismo contemporaneo, dalle esasperazioni, dal lusso, dalle passioni sfrenate e da qualsivoglia forma di eccesso. Davide giocava in modo pulito, sempre rispettoso del prossimo, senza mai un atteggiamento di superiorità o un comportamento sopra le righe. Era approdato in Serie A ma non si dava arie da grand’uomo. Aveva indossato la maglia azzurra ma non si sentiva arrivato. Sarebbe stato, con ogni probabilità, un ottimo allenatore o un signor dirigente, un innovatore del calcio, uno di quelli che con un’intuizione adeguata cambiano il corso della storia ed egemonizzano una stagione.

Non gli è stato possibile. Il cuore lo ha tradito quando ormai aveva raggiunto la maturità e la serenità necessarie per considerarsi una persona felice. Il dolore è rimasto, anche se sono passati più di mille giorni, e quel campionato fermo, quella giornata senza calcio, quella sofferenza autentica e unanime ce le porteremo dentro per sempre. Davide Astori ci manca per mille motivi, tra cui il fatto di essere un fior di difensore e un costruttore di ponti in un mondo in cui troppo spesso il machismo tende a farla da padrone. Aveva l’animo gentile dei grandi, la fierezza dei capitani che procedono a testa alta, lo sguardo di Scirea, l’intelligenza tattica di chi sa leggere la partita in anticipo e non si fa mai cogliere impreparato. Era un cervello raro e un campione generoso, cosciente di aver avuto fortuna e felice di mettere il proprio talento al servizio della comunità.
Al tredicesimo minuto, a Firenze, ci si ferma. E la fascia che porta al braccio il capitano della Viola è quella in suo ricordo, anche se la Lega calcio ha introdotto, da tre stagioni, la fascia unica uguale per tutti. Perché Davide non era uno come gli altri e perché quel dolore dev’essere trasformato ogni giorno in speranza, partita dopo partita, come avrebbe voluto lui. Per questo ha vissuto. Per questo è bene ricordarlo, non solo a parole.

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