Sedici anni fa le stragi di Madrid
Le bombe di Madrid uccisero 192 persone e ne ferirono circa 2000. Il terrorismo di Al Qaeda entrò così in Europa a tre anni dalla strage del World Trade Center di New York. Nell’anniversario dell’11M riproponiamo una cronaca di quei giorni, a partire da quella pubblicata nel libro Zapatero. Un socialismo gentile, manifestolibri, 2007; le note sono in fondo al testo.
Le stragi di Madrid: il racconto di quei giorni
La mattina di un giorno come gli altri, allo scadere della campagna elettorale
Giovedì 11 marzo 2004 è il penultimo giorno di campagna elettorale e l’agenda di José Luís Rodriguez Zapatero, il segretario del Partito socialista, prevede che la maggior parte della giornata si svolga a Barcellona. È una tappa importante. Zapatero ha appoggiato le richieste di maggiore autonomia dei catalani, ha scommesso sulla formazione di un governo che affrontasse la riforma dello Statuto catalano. Ora, che dopo mesi di lavoro si tratta di affrontare la prova elettorale, ha bisogno del voto catalano per sperare di vincere le elezioni.
È stata una campagna faticosissima ma non è ancora finita, le ore di Barcellona saranno fitte di impegni, attorno all’evento centrale: la manifestazione al Palau San Jordi, il moderno palazzo dello sport, dove ci si aspetta un bagno di folla.
La giornata di Zapatero cambierà radicalmente, come quella di tutti gli spagnoli, alle 7,38 di quel giovedì mattina.
Tutto comincia alla stazione di Atocha. Alle 7,37 minuti e 47 secondi, secondo i video di sorveglianza della stazione [1], una esplosione scuote la carrozza numero sei del treno 21.431, appena giunto sul secondo binario. Quarantanove secondi dopo una seconda bomba distrugge il vagone numero cinque. Ancora quattro secondi e esplode il quarto vagone. Un quarto ordigno, posto nel vagone di testa, non si innesca e verrà fatto detonare da agenti del Tedax [2] alle 9:59.
Alle 7:38 altri tre ordigni esplodono quasi simultaneamente in altre due stazioni. Due sul treno 21.435, nella stazione El Pozo del Tío Raimundo, l’altra sul treno 21713, nella stazione di Santa Eugenia.
Non è finita. Mentre il panico regna nella stazione di Atocha, inondata di fumo, feriti e paura, alle 7:39 altri quattro ordigni esplodono in simultanea sul treno 17.305, a cinquecento metri dall’entrata della stazione, in calle Téllez.
In meno di due minuti avvengono dieci esplosioni che gettano la città nel panico.
Gli ordigni sono estremamente potenti, la loro dislocazione e i tempi delle esplosioni non lasciano dubbi sulla volontà di uccidere il maggior numero di persone possibili.
Il Percorso di Alcalá de Henares, dal quale provengono i treni, è un arteria ferroviaria importante, perché collega i dintorni a est di Madrid con la capitale, passando per l’aeroporto di Barajas e distribuendo in città, nelle diverse stazioni urbane, migliaia di pendolari al giorno.
I soccorsi partono con tempestività. A quindici minuti dall’esplosione i primi feriti entrano negli ospedali, ma si capisce presto che le ambulanze non bastano e le autorità invitano i madrileni a condurre con mezzi propri i feriti in ospedale.
Scatta anche il dispositivo d’emergenza antiterrorismo, già studiato e organizzato. Una centrale unica coordina tutti gli interventi di soccorso, vengono allestiti degli ospedali da campo nei pressi dei luoghi delle esplosioni.
Intanto Madrid si blocca. La gente, priva di informazioni sciama verso i luoghi degli attentati.
Col passare del tempo appare in tutta la sua evidenza la portata della strage. Solo nelle prime due ore gli ospedali ricevono oltre 500 feriti, alcuni dei quali in condizioni disperate. I medici del pronto soccorso smistano gli arrivi: “questo all’obitorio, questo in traumatologia”.
La Spagna si rende conto di essere stata oggetto di un attacco terroristico senza precedenti nella sua storia, ma anche nella storia europea. La campagna elettorale viene sconvolta.
Eta o Al Qaeda?
Il primo intervento politico è del segretario e candidato del Psoe José Luis Rodríguez Zapatero. Poco dopo le nove, chiede a tutti i partiti che mantengano “un’unità senza crepe davanti al terrorismo”. Esortando gli spagnoli ad andare a votare in massa domenica: “Questa è la risposta più poderosa contro l’Eta”.
Tutte le televisioni cominciano i collegamenti in diretta: le immagini sono quelle dei vagoni aperti dall’interno come fossero giochi di latta, di centinaia di persone che si aggirano intontite nel caos dei soccorsi, di volti nascosti dal sangue — è un ragazzo o una ragazza quella persona con gli occhi gonfi e i capelli corti che guarda inutilmente il suo cellulare che non prende la linea, che non gli permette di avvisare che è viva, che non si preoccupino?
Alle 9.30 giunge il primo intervento istituzionale, del governatore dell’autonomia basca Juan José Ibarretxe, che alla televisione autonomica condanna senza appello “le atrocità commesse”. E aggiunge: “Questi non sono baschi ma assassini. L’Eta sta scrivendo le sue ultime pagine”.
Perché, in quelle ore, che i responsabili siano i terroristi baschi, in Spagna nessuno ne dubita.
Il ministro dell’interno Ángel Acebes, in conferenza stampa, scarta decisamente le ipotesi di una matrice terrorista riconducibile a Al Qaeda. Ai giornalisti che chiedono del mancato rispetto del modus operandi dell’Eta [3], Ácebes oppone certezze: il materiale esplosivo è riconducibile all’Eta, che avrebbe cercato un obiettivo significativo per rafforzare la sua presenza in un momento in cui si trova in uno stato di sbandamento e marginalizzazione politica.
In effetti, per quanto inusuale, l’ipotesi basca non si poteva scartare a priori.
Anni di attività poliziesca e investigativa, il rifiuto della violenza sempre più diffuso nella società basca e spagnola, avevano indebolito la banda, dal punto di vista militare e politico. Con molti capi in carcere e la pressione degli investigatori si poteva supporre che vi fosse uno sbandamento in atto. I Servizi da tempo nelle loro informative segnalavano l’esistenza di gruppi fuori controllo e di un dibattito in atto. Una situazione nella quale era possibile che qualcuno pensasse di elevare il livello dello scontro, colpendo non simboli dello stato spagnolo, militari, poliziotti o politici, ma agendo indiscriminatamente contro la popolazione civile.
Si sapeva, inoltre, che l’Eta pianificava da tempo un attentato a Madrid. Il 28 febbraio in un controllo di routine erano stati scoperti alle porte della capitale due membri della banda che trasportavano in un furgone 500 kg di esplosivo. Si suppose che l’attentato dovesse avvenire proprio nella zona del Corredor de Henares, in un complesso industriale o una centrale elettrica.
Ma la coincidenza più inquietante era che due mesi e mezzo prima, il 24 dicembre 2003, alla stazione di Chamartín, non lontano da Madrid, la polizia aveva arrestato due etarra mentre tentavano di abbandonare due valigie-bomba su un treno. Proprio in quell’occasione, anche per la giovane età e l’inesperienza degli arrestati, sembrarono confermate le ipotesi di uno sbandamento in atto nell’Eta.
D’altro canto, non c’erano precedenti di attentati jihadisti contro gli interessi spagnoli. O meglio, uno sì. Anzi due.
Il 16 maggio del 2003, a Casablanca, in Marocco, un commando di tredici persone compì un attacco suicida in una strada commerciale in cui si trovava anche il ristorante La Casa de España, uno tra gli esercizi più bersagliati. Morirono 41 persone, 3 delle quali spagnole.
Il secondo precedente avvenne proprio sul territorio spagnolo, anche se quasi vent’anni prima, un’era geologica, rispetto ai cambiamenti intercorsi nel terrorismo musulmano. Il 12 aprile 1985 un ordigno venne fatto saltare nel ristorante El Descanso, nei pressi di Madrid. Morirono 18 persone. L’attentato venne rivendicato dalla Jihad Islamica ma l’episodio non venne mai chiarito, né identificati gli autori [4].
In compenso la Spagna aveva ricevuto minacce dirette. Il 18 ottobre 2003, Bin Laden in persona, minacciando i paesi che partecipavano alla Coalizione di volenterosi di George W. Bush, citò espressamente la Spagna.
Ma in quelle ore si parlava esclusivamente di Eta. Solo Arnaldo Otegi, dirigente di Batasuna [5], negò il coinvolgimento del terrorismo basco, indicando la “resistenza araba” come possibile matrice delle stragi. Il governo non gli dette credito dicendo che si trattava di versioni interessate tese a confondere i corpi di sicurezza dello Stato.
Sia Aznar che Zapatero indicavano l’Eta come autrice degli attentati. Il governo cominciò a contattare alcuni corrispondenti stranieri telefonicamente per confermare la pista dell’Eta e secondo le testimonianze di alcuni di loro, “aiutare a sciogliere qualsiasi dubbio potessero generare parti interessate”.
Mariano Rajoy, il candidato del Pp alla guida del governo, poco prima delle dieci interviene pubblicamente per condannare l’attentato: “È il momento del dolore delle vittime e dei loro familiari. Da questo momento la campagna elettorale è finita: sono ore di dolore e rabbia da affrontare con serenità, fermezza e determinazione”.
I richiami alla serenità arrivano mentre Madrid non può sentirli. I treni sono esplosi nel cuore della città. Il quartiere di El Pozo, in particolare, è una zona popolare intensamente abitata, palazzi di abitazioni e una scuola si affacciano sul binario dove è avvenuta l’esplosione. Tutti i collegamenti ferroviari da e per Madrid sono sospesi, le strade sono nel caos, col via vai dei mezzi di soccorso e il pianto continuo delle sirene. Il traffico viene deviato in molti punti e presto si blocca. La rete di telefonia mobile collassa continuamente, quella fissa funziona a singhiozzo e i centralini cessano di funzionare. Per alcune ore, il modo migliore di entrare in contatto con Madrid è attraverso le chat.
A mezzogiorno i partiti concordano nel sospendere una campagna elettorale senza più senso. I temi della politica cedono il passo al dolore e al richiamo dell’unità nella difesa delle istituzioni democratiche. Governo e opposizione, unanimi, condannano l’Eta.
Il presidente del governo catalano, Pascual Margall, del Partit dels socialistes de Catalunya (Psc), interviene con decisione: “In questo momento noi barcellonesi siamo madrileni”, afferma, esortando all’unità di tutti contro il terrorismo oltre le particolarità. Meno decisa, e oggetto di critiche, la reazione di Carod Rovira, segretario di Esquerra Republicana (Erc) e recente protagonista dello scandalo politico determinato dalla scoperta di un suo incontro clandestino con capi dell’Eta latitanti che offrivano una “tregua separata” alla Catalogna. Un intervento tardivo e non spontaneo, in cui la condanna dei fatti è stata netta ma poco appassionata.
La Spagna è preda del dolore. Sono stati decretati tre giorni di lutto nazionale e si arriverà al voto di domenica sotto la cappa del terrorismo. Ácebes ha accusato gli ambienti del radicalismo basco vicini all’Eta, che hanno legato l’attentato a una matrice araba, di essere dei “depistatori che fanno parte di una strategia di menzogna”. Nel suo discorso alla nazione, dopo il gabinetto di crisi che per tutta la mattinata ha impegnato il governo, i poteri locali e le forze di sicurezza, il presidente uscente, José María Aznar, ha garantito “la sconfitta totale del terrorismo. La Spagna non cambierà regime perché i terroristi uccidono, né perché cessino di uccidere”. Aznar aggiunge poi che “una gran maggioranza degli spagnoli è vicina alle vittime e contro il terrorismo”: la riproposizione, anche in momenti così tragici, della teoria delle due Spagne contrapposte, la dice lunga sul carattere dell’uomo e su cosa sia la crispación, ovverosia il continuo gioco al rialzo dell’ostilità nel rapporto fra i partiti e nel dibattito pubblico, portata avanti dai dirigenti del partito, dal governo, dal sistema intellettuale e dei media affine al governo.
Il governo risponde allo sdegno che percorre il paese indicendo per l’indomani una manifestazione di protesta il cui slogan “Con le vittime, Con la Costituzione. Per la sconfitta del terrorismo” è un altro riferimento all’Eta [6]. Ma manifestazioni spontanee e assembramenti, in solidarietà con le vittime e contro il terrorismo, nascono spontanee in tutto il paese.
Aznar, non si limita agli interventi istituzionali. Dal suo ufficio della Moncloa telefona personalmente ai direttori dei principali quotidiani, confermando che gli autori delle stragi sono da ricercare nel terrorismo basco. Nelle redazioni si stanno preparando in gran fretta le edizioni straordinarie che usciranno nelle prime ore del pomeriggio: tutte indicano l’Eta come responsabile degli attentati.
Alle rappresentanze diplomatiche all’estero intanto cominciano a giungere i primi attestati di solidarietà dalle autorità di mezzo mondo. E domande sui fatti. Il ministero degli Affari Esteri, Ana Palacio, manda via fax una comunicazione a tutte le ambasciate spagnole che conferma la matrice basca e ordina di attenersi alla versione ufficiale.
Alle diciotto le autorità annunciano che il computo dei morti arriva a 200 persone, l’ultima vittima a essere conteggiata è una bambina polacca di sette anni [7]. I cittadini stranieri sono stati colpiti in gran numero nelle esplosioni, avvenute su treni che da zone popolari conducono i pendolari ai luoghi di lavoro. Saranno dodici le nazionalità coinvolte e Aznar annuncia il conferimento della cittadinanza spagnola alle vittime e ai loro parenti stretti, anche se non in regola con le norme dell’immigrazione.
In quella giornata convulsa cominciano anche a farsi strada i primi dubbi. I mezzi di comunicazione stranieri, in particolare negli Stati Uniti, parlano subito di terrorismo islamico, anzi, direttamente di Al Qaeda.
Le indagini di polizia, che sono partite senza nessuna ipotesi precostituita, cominciano a indirizzarsi sulla pista islamica. La svolta si verifica in serata quando, vicino alla stazione di Alcalá de Henares, da dove partirono tre dei quattro treni dove erano state messi gli zaini-bomba, degli agenti trovano un furgone, rubato 11 giorni prima, con a bordo dei detonatori e una cassetta audio, di un tipo in vendita nei normali canali commerciali, con incisi versi del corano.
Gli investigatori sono convinti che sia una vera propria rivendicazione. Ángel Acebes, ne rende conto in una conferenza stampa nella tarda serata, confermando però che l’Eta resta la presunta responsabile dell’attentato.
Alle 21.30, intanto, al quotidiano londinese Al Quds Al Arabi, è pervenuta una lettera che rivendica l’attentato come compiuto dalle brigate Abu Hafs Al Masri, in nome di Al Qaeda.
La notte dell’11 marzo giunge mentre il paese è in preda alla confusione. Le strade sono piene di gente spaventata, arrabbiata e disorientata. Nei bar strapieni le persone seguono emozionate le dirette televisive. La versione ufficiale comincia a perdere credibilità e questo aumenta il disorientamento. Tra due giorni si vota ma pensare alle elezioni, ora, sembra assurdo. Chiedersi come influirà sul voto di domenica questo attentato risulta un vano esercizio. La campagna elettorale è stravolta e ogni ragionamento sui temi politici è cessato. La corsa di Zapatero per la conquista dei voti degli indecisi fino all’ultimo minuto della campagna si blocca.
12 marzo
Venerdì mattina Madrid e tutta la Spagna sono nel pieno dello shock, ma la reazione è forte, corale. Al dolore per le stragi si aggiunge anche il tarlo del dubbio: è stata veramente l’Eta?
Le persone hanno amici e parenti che vivono all’estero, ci si sente per sapere come vanno le cose si apprende che fuori di Spagna — in Inghilterra, Francia, Italia o Usa – le stragi vengono attribuite ad Al Qaeda.
L’informazione comincia a segnalare la discrepanza tra la versione del governo e quelle del resto del mondo. Le testate maggiori si dividono grosso modo in due campi: uno che accetta senza riserve la versione ufficiale e l’altro che riporta con risalto l’ipotesi di Al Qaeda.
In queste ore la comunicazione elettronica conosce un’attività senza precedenti. Attraverso Internet gli spagnoli, prima di tutto accedono ai giornali stranieri, apprendendo che nel mondo la pista dell’Eta non è tenuta in considerazione e si propende per la pista islamica. Gli accessi in rete si moltiplicano e tutto il web viene coinvolto. Blog, newsgroup [8] e ogni luogo di discussione on-line, qualsiasi sia il suo campo specifico, diventano, per mano dei loro utilizzatori abituali, un mezzo per esprimere il lutto e riflettere sul senso delle stragi. Viene scambiata una enorme quantità di sms e di messaggi di posta elettronica, diffondendo gli articoli della stampa straniera e messaggi in cui si accusa il governo di mentire.
Tutte le potenzialità insite nel web e nelle forme di comunicazione diretta, come strumenti di informazione alternativi e non controllabili, vengono verificate improvvisamente quando si tratta rispondere a un aumento, enorme e non prevedibile, della domanda di accesso a informazioni e canali di comunicazione.
Gli attentati sono di ieri, l’odore acre dell’esplosivo si avverte ancora nei pressi della stazione di Atocha, dove migliaia di candele, fiori e biglietti lasciati dalla gente comune si accumulano. I sentimenti sono quelli del dolore e della rabbia, del richiamo all’unità delle forze democratiche e alla partecipazione della cittadinanza alle grandi manifestazioni contro il terrorismo. Ma intanto, a due giorno dal voto, si fa strada il sospetto che il governo abbia imboccato la pista dell’Eta più per calcolo politico che per una vera e propria ricerca della verità.
La Spagna in trent’anni di terrorismo non aveva mai conosciuto una strategia stragista rivolta contro la popolazione. Le bombe nelle piazze, nei treni, erano tristemente conosciute in Italia o nel conflitto irlandese. In effetti, gli italiani che sono in Spagna, e che hanno l’età per farlo, rivivono i ricordi della bomba alla stazione di Bologna. Moltiplicati dall’offerta plurima e contemporanea del moderno sistema dei media.
Per gli spagnoli, il ricordo va agli orrori della guerra civile, ai primi bombardamenti indiscriminati sulle città, esperimenti delle nuove tattiche di guerra per le quali i civili diventano obiettivi militari, compiuti dalle aviazioni della Germania nazista e dell’Italia fascista alleate di Franco.
Ho vissuto esattamente i ricordi che hanno segnato la mia gioventù. Intervennero per soccorrere dei civili in un palazzo bombardato, con un compagno provarono a sollevare una ferita e uno dei due restò con in mano le gambe della donna. Esattamente i racconti dei primi soccorritori della stazione di Atocha,
racconta un uomo di Barcellona.
La Spagna è rabbiosa e stordita, commossa e confusa.
Per tutta la giornata le città spagnole sono percorse da manifestazioni spontanee. Una di queste, per qualche istante, le accomuna tutte in una celebrazione condivisa: a mezzogiorno le scuole e i luoghi di lavoro si fermano. Per qualche minuto la gente esce dagli edifici e si raccoglie in silenzio sui marciapiedi. Davanti a ogni portone e ai grandi complessi, davanti a tutte le scuole, si formano capannelli di persone silenziose e commosse.
È il momento del lutto ma è anche il momento in cui emerge la domanda di verità e la pretesa di sapere chi sono realmente i responsabili delle stragi. La certezza che fossero di mano dell’Eta, inizialmente condivisa da tutti gli spagnoli e considerata dal governo una verità indiscutibile, si è incrinata man mano che passavano le ore.
Il ritrovamento del furgone ha sollevato i primi dubbi.
La radio Cadena Ser, citando fonti dell’antiterrorismo, diffonde la notizia del ritrovamento del corpo di un kamikaze in uno dei treni [9].
Il governo, intanto, non conferma gli altri elementi emersi nella notte che vengono riferiti dai media. In particolare il ritrovamento di uno zaino inesploso, con dieci chili di esplosivo, due chili di oggetti metallici e un detonatore uguale a quelli del furgone [10]. Fonti investigative, riportate dalla stampa, segnalano che il tipo di detonatori in rame ritrovati non corrisponderebbe a quelli usati dall’Eta, in alluminio, bensì sarebbero usuali per i gruppi del terrorismo mediorientale.
Davanti ai nuovi elementi il governo non modifica il suo atteggiamento. Acebes si limita a dire che “malgrado la pista principale sia l’Eta, non vengono scartate altre ipotesi investigative”, confermando però la sua convinzione che la matrice sia basca. L’impressione che se ne trae è che tanta certezza nasconda la conoscenza di prove o di indizi non ancora resi pubblici, magari per non indebolire le indagini. Aznar, intervenendo al Congresso, basa il suo intervento sull’impossibilità di poter anche solo pensare a una pista differente da quella basca. “Chi crede che, dopo trent’anni di terrorismo, io non pensi logicamente all’Eta?”, domanda ai deputati.
Che voleva l’Eta quando pochi giorni fa tentò di introdurre a Madrid 500 chili di esplosivo? Che voleva quando suoi militanti tentarono la notte di capodanno di mettere esplosivi nella stazione di Chamartín?
Il governo non cambia idea. Malgrado i dubbi siano sempre più insistenti, l’appuntamento è per la manifestazione che attraverserà le strade di Madrid “Per la Costituzione!”.
Zapatero nel suo intervento accetta ancora la versione ufficiale. Richiamando all’unità nazionale e alla partecipazione elettorale, evita polemiche dirette ma si augura che “il governo informi nel modo più rapido possibile”, perché “la società spagnola ha diritto a conoscere gli autori di questa barbarie”.
Sono i partiti nazionalisti che accusano il governo di mentire, intimandolo a dire tutto quello che sa prima di domenica, il partito catalano di Esquerra Repubblicana, ma soprattutto il governatore basco, Ibarretxe, tra i primi a condannare l’attentato e l’Eta, sulla base delle informazioni del governo. Ibarretxe chiede la verità, “che può influire sull’analisi politica”.
“¿Quien ha sido?”
Alle 18.30 tutti i negozi del paese abbassano le saracinesche, appendendo cartelli di lutto e di condanna del terrorismo. Intanto, a Madrid, l’enorme folla radunata per la manifestazione ufficiale costringe l’organizzazione a anticiparne l’inizio. Quella che doveva essere una concentrazione in plaza Colon, diventa una folla immensa che cinge tutte le strade, riempie di ombrelli le piazze. Vengono urlati slogan, contro il terrorismo, per la pace. Anche slogan contro l’Eta. Ma oramai la versione ufficiale viene contraddetta in continuazione.
La manifestazione prevede un corteo, aperto da uno striscione con il discusso slogan prescelto dal governo. A sostenerlo ci sono le personalità intervenute a portare la loro solidarietà. Romano Prodi, il presidente della Commissione Europea, Aznar e Zapatero, Silvio Berlusconi e Jean-Pierre Raffarin, i capi dei governi italiano e francese. Poi, per la prima volta nella storia della famiglia reale, senza preavviso, si sono uniti al corteo i figli del re e della regina, il principe Felipe con le infantas, le sorelle Elena e Cristina di Borbone.
Nelle foto che hanno fatto il giro del mondo hanno una strana espressione sul viso e si guardano intorno, quasi intimoriti.
È che sono immortalati mentre passano tra due ali di folla che, con rabbia e dolore con una voce sola grida: “¿Quien ha sido?”.
“Chi è stato?”, urlano tutti, oramai convinti che il governo stia nascondendo la verità. Eppure non sembra possibile che, davanti a una simile tragedia, il governo possa mentire. Perché? Per trarne profitto elettorale?
Le autorità non possono restare neanche per il minuto di silenzio. La gente le si fa incontro urlando richieste di spiegazioni. L’immagine che resta negli occhi di tutti, rimandata dalle televisioni, è quella del ministro dell’interno, Ángel Acebes, che si affretta allontanandosi, quasi una fuga, mentre un’anziana signora lo insegue urlandogli la sua rabbia.
A Madrid ci sono più di due milioni e mezzo di persone. A Barcellona un milione e mezzo. In una città come Cadice, dove vivono 140mila persone, i manifestanti sono 350 mila, giunti da tutta la provincia. Nelle strade di Spagna ci sono oltre 11 milioni di persone: uno spagnolo su cinque era in piazza, a urlare la sua rabbia e a chiedersi “Chi è stato?”
La tensione è sempre maggiore, la rabbia si diffonde e si comincia a temere l’ordine pubblico non possa essere mantenuto.
A Barcellona la concentrazione ha come epicentro Plaça Catalunya, ma la folla occupa tutte le strade adiacenti. Anche lì ci sono dure contestazioni. Gli uomini di scorta del leader del Pp catalano, Josep Piqué, e del vicepresidente del governo, Rodrigo Rato, sono costretti a trascinarli in un parcheggio sotterraneo, improvvisato rifugio in attesa che i rinforzi gli consentano di abbandonare la piazza. La manifestazione poi diventa una immensa cacerolada [11] spontanea che coinvolge fino a tarda notte migliaia di persone. Ma è così anche a Madrid e in molte città spagnole. La polizia si tiene a distanza, l’ordine è di non intervenire, seguire le cose da lontano e sperare che non avvengano incidenti. Come sarebbe possibile intervenire per disperdere gli assembramenti caricando contro la gente comune che a migliaia invade le strade? La folla non è minacciosa ma la tensione è tale che si teme in ogni momento che possano scoppiare incidenti.
Pian, piano, invece, le strade si svuotano. È ormai quasi l’alba quando la situazione torna alla normalità e si può constatare con sollievo che non c’è stato nessun incidente.
13 marzo
Oggi è un día de reflexión — le 24 ore che precedono il voto nelle quali la campagna elettorale è vietata — diverso da tutti quelli che l’hanno preceduto. Domani, trentatré milioni di elettori si recheranno alle urne, per un voto il cui esito è insondabile. I sondaggi elettorali, le indagini sociologiche, i ragionamenti politici e tutti gli strumenti che si danno per indagare un evento elettorale sono inutili.
Lo stretto spazio al quale guardare è quello che comincia alle 7.45 di giovedì: la Spagna dell’11M.
Mentre il paese è ancora sopraffatto dalle immagini dei treni lacerati dalle esplosioni, dei corpi estratti dalle lamiere e disposti in lunghe file di sacchi neri ai lati delle rotaie, dei cortei dei carri funebri, oramai è diffusa la convinzione che il governo, pur sapendo della matrice islamica degli attentati, non lo comunichi ufficialmente perché la notizia non danneggi i suoi risultati elettorali.
Fin dal mattino è evidente come la tensione sia destinata a salire ancora. Il divieto di presenza sui media dei partiti è stato infranto più volte. Ha cominciato il candidato del Partido Popular Mariano Rajoy, con un’intervista a El Mundo che doveva essere sulle stragi ma si conclude con la richiesta agli elettori di confermare la maggioranza assoluta per il suo partito. Poi è toccato alle conferenze stampa dei partiti e agli interventi istituzionali.
Il Pnv, del governatore basco Juan José Ibarretxe, che aveva duramente attaccato l’Eta sulla base delle certezze espresse dal governo, accusa l’esecutivo di “propagare la confusione, nell’affanno di occultare la verità”.
Il governo è in difficoltà. Il ministro degli interni Ángel Acebes nella conferenza stampa quotidiana sulle indagini ha voluto dare un’idea di generosità, parlando dei 140 milioni di euro per le vittime e del riconoscimento della cittadinanza ai cittadini stranieri e ai loro parenti. Certo, adesso esistono due piste, ma quella dell’Eta prevale.
“Nessun responsabile delle investigazioni mi ha comunicato che sia privilegiata la pista di al Qaeda”, dice Acebes. Ripetendo il copione difensivo di Aznar — “30 anni e 900 morti ci fanno pensare logicamente all’Eta” — chiedendo fiducia nell’indagine, seria e rigorosa.
Intanto la stampa annuncia che il Cni (Centro nacional de inteligencia) privilegia la pista islamica. Poi svela la circolare agli ambasciatori spagnoli nel mondo. Giungono due telefonate anonime al giornale basco Gara e all’agenzia di stampa basca Atp, che negano, a nome della banda, qualsiasi coinvolgimento nelle stragi. Poi arriva l’annuncio dei primi arresti: tre marocchini e due indiani.
¡Pásalo!
L’atteggiamento dell’esecutivo suscita una reazione spontanea e inedita. Attraverso l’invio di sms inizia una chiamata alla protesta contro quella che ormai tutti considerano una manipolazione del governo. Ci si dà appuntamento sotto le sedi del Pp per “chiedere la verità sulle bombe”. Dopo l’ora e l’indirizzo i messaggi si chiudono con l’esortazione a inoltrare l’sms: “¡Pásalo!”.
Oltre 3000 persone si radunano sotto la direzione nazionale popolare in Calle Génova, a Madrid. A Barcellona una manifestazione parte con qualche centinaio di persone e ne raduna migliaia lungo il tragitto, poi ricominciano le caceroladas. Altre manifestazioni simili avvengono in molte città del paese. È una situazione molto delicata. Le manifestazioni sono spontanee, la gente si ritrova seguendo le indicazioni degli sms ma, senza nessuna organizzazione, non si sa cosa fare. Nessuno ha il controllo della situazione. In ogni momento potrebbero scoppiare incidenti ma il sentimento di rabbia viene contenuto senza che avvenga nessun episodio di violenza né danneggiamenti.
Il sentimento diffuso, nei partiti, per le strade, nelle redazioni dei giornali, è di timore e incertezza.
Le contestazioni permettono ai rappresentanti popolari che intervengono di spostare il centro dell’attenzione dalle accuse di manipolazione alla rottura della giornata di riflessione. Rajoy presenta un esposto alla Giunta elettorale. È un tentativo inutile.
Alle 19,30 all’emittente autonomica Telemadrid viene consegnato un video rivendicativo. La direzione, strettamente legata alla Comunità di Madrid, in mano al Pp, non dà la notizia.
A tarda sera il Psoe indice una conferenza stampa straordinaria. Alfredo Pérez Rubalcaba, dopo aver espresso il lutto del partito e aver sottolineato l’efficienza del lavoro investigativo, accusa direttamente l’esecutivo: “Sappiamo che le indagini puntano su una pista diversa da quella indicata dal governo”. E conclude, “Gli spagnoli si meritano un governo che non gli menta”.
Solo a mezzanotte e quarantacinque il governo informa del video dicendo che un uomo con accento marocchino, sedicente Abu Dujan al Afgani, portavoce militare di Al Qaeda in Europa, rivendica l’attentato.
La notte, cominciata nella tensione, porta la calma.
14 marzo
La domenica del voto la gente va alle urne con rabbia e angoscia. Nella notte il Pp ha inviato una protesta alla giunta elettorale per le manifestazioni del giorno prima davanti alle sue sedi, gira insistentemente la voce che il governo voglia rimandare le elezioni. Aznar e molti esponenti popolari vengono insultati mentre arrivano ai seggi ma la giornata prosegue senza incidenti. Gli spagnoli hanno voglia di votare. Lo farà oltre il 75,6 per cento degli aventi diritto. Nel 2000 votò solo il 68,7 per cento.
Tutto questo si materializzerà nelle urne con una schiacciante maggioranza per il Psoe di José Luis Rodriguez Zapatero [12]. Una vittoria inaspettata che i commentatori internazionali valutano sostanzialmente in due modi. Come la reazione al fatto che, con la partecipazione alla guerra irachena, il Pp abbia fatto della Spagna un obiettivo dei terroristi islamici; oppure come una punizione per le menzogne riguardo ai veri autori dell’attentato. Il tutto avrebbe ribaltato un risultato già scontato.
Ma è veramente così?
Genesi di un voto
Si dice e si scrive, ancora oggi, che Zapatero sia diventato premier per caso, che senza le stragi di Madrid non avrebbe mai vinto le elezioni. Come pure che gli spagnoli abbiano fatto una scelta emotiva, e un po’ vigliacca, piegandosi al ricatto terrorista.
Sono interpretazioni sbagliate e ingiuste. Ingiuste verso un popolo che da trent’anni si misura col terrorismo che ha ucciso oltre mille persone e che invece, proprio in quei drammatici giorni, ha dimostrato un’alta maturità civile. Sbagliate, perché non tengono conto del contesto politico che ha preceduto le elezioni, del percorso che, fino a prima delle stragi, aveva portato al voto.
Questo non vuol dire, naturalmente, che le stragi non abbiano influito sul voto.
Il peggior attentato della storia spagnola ha colpito la società profondamente, come del resto ha commosso il mondo intero. Le esplosioni hanno ucciso quasi duecento persone, poco meno di un quarto delle vittime dell’Eta in trentacinque anni, e hanno riproposto scene di morte e di distruzione come non si ricordavano dalla Guerra civile. Ma cosa, nel contesto che lo ha preceduto, autorizza a pensare che abbia potuto ribaltare un risultato già acquisito?
“Se è l’Eta, vinciamo. Se è Al Qaeda, perdiamo”
La vulgata attribuisce a Pedro Arriala, sociologo e consulente elettorale del Pp per la campagna elettorale, la frase, detta immediatamente dopo gli attentati: “Se è l’Eta, vinciamo. Se è Al Qaeda, perdiamo”.
Non ci sono conferme dei protagonisti dell’aneddoto, mentre tutti i dati disponibili — le dichiarazioni ufficiali, le sollecitazioni ai canali diplomatici, le comunicazioni ufficiose alla stampa internazionale — concorrono nel confermare che il comportamento del governo dopo le stragi derivò dalla scelta di mantenere almeno fino alla conclusione delle operazioni di voto l’ipotesi dell’Eta come autrice dell’attentato.
Che il Pp abbia scelto questa strada è evidente. Il problema è capire perché lo ha fatto. Se anche fosse stata Al Qaeda, pur tenendo in conto quanto detto in precedenza, sarebbe un fatto inedito che un attentato terrorista ottenga l’effetto di affondare il governo in carica. Generalmente gli elettori si stringono attorno all’esecutivo, la cui continuità è espressione dell’appoggio popolare alle istituzioni democratiche. Perché in questo caso sarebbe dovuto essere diverso?
Forse perché le cose, nel percorso verso il voto, non andavano come molti raccontavano. Il Pp, non solo aveva perso ogni speranza di ottenere di nuovo la maggioranza assoluta, ma non era neanche sicuro di avere già la vittoria in tasca, che fosse certo che sarebbe stato il partito più votato del paese.
Gli avvenimenti dell’ultimo anno della politica spagnola suggerivano chiaramente come il tramonto dell’era Aznar non fosse quel finale radioso che il premier aveva immaginato per sé quando aveva confermato la sua promessa di non presentarsi per il terzo mandato.
José Maria Aznar aveva spostato decisamente l’asse della politica estera spagnola all’indomani dell’11 settembre. Quando Bush faticava a convincere gli europei della giustezza di un’azione militare contro l’Iraq di Saddam Hussein, fu la Spagna, con l’Italia guidata da Silvio Berlusconi, a spezzare il fronte contrario all’avventura militare e a appoggiare la Coalizione dei volenterosi, guidata da Usa e Gran Bretagna, al quale si aggregò anche la Polonia.
Il paese era in grandissima maggioranza contrario a questa guerra, anche per un sentimento antiamericano che, risalente alla guerra di Cuba e alla fine dell’impero, appartiene alla destra nazionalista quanto alle sinistre terzomondiste e antimperialiste.
Aznar, invece, si è lanciato a fianco degli Usa senza dare spiegazioni valide, indispettendo una parte del suo elettorato di riferimento, già messo alla prova da altri fatti.
Il drastico calo di popolarità di governo e Pp
Altre vicende avevano segnato la politica spagnola nei due anni che precedettero l’appuntamento elettorale.
Il 13 novembre del 2002 l’affondamento della petroliera Prestige con la catena di negligenze e leggerezze delle autorità spagnole, avevano incrinato l’immagine di efficienza del governo.
Il 26 maggio del 2003 nella tragedia di Trebisonda dello Yakolev 42, muoiono sessantadue militari spagnoli. Anche questo incidente si tramuta in un infortunio politico per il governo Aznar, in continua lite coi parenti delle vittime, esasperati da menzogne e silenzi. A patire la condotta del governo sono i settori di riferimento del Pp nella società spagnola, militari e nazionalisti, sentimentalmente vicini all’esercito.
Oltre ai singoli avvenimenti e al modo di affrontarli, è l’intera gestione del secondo governo Aznar — che ha invertito il percorso del partito dalla destra al centro che gli aveva fatto conquistare i voti dei moderati e ottenere la maggioranza assoluta — a essere segnata da una perdita di consenso.
Aznar continua a gloriarsi dei successi economici e a dire che tutto va bene. Ma qualcosa si è rotto nel suo rapporto con gli spagnoli, anche per i continui e sempre più gravi episodi di corruzione che emergono da numerose inchieste, e gli appuntamenti elettorali lo registrano puntualmente.
Il 25 maggio del 2003 le elezioni amministrative coinvolgono oltre 15 milioni di spagnoli, rinnovando sindaci e presidenti di 13 delle 17 autonomie nelle quali è divisa l’amministrazione del paese.
Nel Psoe la leadership di Zapatero è ormai consolidata. Le urne premiano il partito e riportano il Psoe al primo posto per numero di voti assoluti: 2,5 milioni di voti e dieci punti percentuali in più rispetto alle politiche di tre anni prima.
Nelle elezioni catalane del 16 novembre, quattro mesi prima delle politiche, Zapatero, punta su un governo delle sinistre che funga da modello politico per affrontare il problema territoriale. Tra spinte autonomiste, volontà secessioniste e nazionalismo centralista, Zapatero si propone agli elettori come l’unico politico in grado di ascoltare le esigenze delle diverse nazionalità, tutelando l’unità della nazione e il dettato costituzionale. E il governo catalano, uscito dalle urne, è il suo biglietto da visita per le politiche.
A marzo del 2004 si arriva con uno Zapatero che, dismessa la sua veste di uomo tranquillo, monopolizza la scena con una campagna aggressiva imponendo i suoi temi di riforma: scuola, infrastrutture, sanità e assistenza. Mariano Rajoy stenta a prendere l’iniziativa e ancora si sentono gli echi delle enormi manifestazioni contro la guerra.
Al voto quindi non si arriva con un governo solido e col vento in poppa ma con un partito e un esecutivo in crisi non solo con parte dell’elettorato moderato ma anche con quote importanti del suo elettorato di riferimento. E col Psoe in piena rimonta.
Tutte le indagini sulle intenzioni di voto sono concordi nel tracciare un percorso di continuo recupero del Psoe sul Pp dall’inizio del 2004, anche se differiscono sulle percentuali.
La distanza che a gennaio viene valutata, a seconda dei diversi istituti di ricerca, tra il 10,7 e il 5 per cento, diventa a febbraio tra il 9,6 e il 3,9 per cento, per finire, quando vengono resi pubblici gli ultimi sondaggi consentiti prima del divieto di diffusione, tra il 6,2 e il 2,3 per cento [13]. Si tratta, come si suol dire, di una tendenza consolidata. Ma ancora più significativa in questo senso è un indagine nella quale viene chiesto agli elettori non cosa avrebbero votato ma come pensavano che sarebbe andata a finire e cosa avrebbero voluto che accadesse. Quasi il 70 per cento degli interpellati erano convinti che avrebbe vinto il Pp ma ben il 45 per cento avrebbe preferito che vincesse il Psoe, contro il 20 per cento per il Pp [14]: una gran parte di elettori, anche del Pp, riteneva che la Spagna avesse bisogno un cambiamento politico.
La mattina dell’11 marzo è il penultimo giorno di campagna elettorale, e avviene la più grande strage della storia spagnola. La campagna elettorale viene sospesa.
Fin dall’inizio il governo accusa l’Eta. Mentre la Spagna vive il suo lutto, l’esecutivo esprime arroganza e protervia, offendendo gli spagnoli non tanto perché cominciano ad avere la percezione che gli si stia mentendo ma perché lo si sta facendo su una cosa così grave. Probabilmente — siamo nel campo di quelle che, anche se si ritengono ragionevoli, sono pur sempre ipotesi — se il governo avesse riunito le forze parlamentari, avesse comunicato lo sviluppo delle prime indagini, proposto una dichiarazione congiunta contro il terrorismo, se si fosse, insomma, comportato in maniera consona al suo ruolo istituzionale, richiamando all’unità di tutto il paese, non avrebbe peggiorato la sua immagine. Non avrebbe scatenato quel rifiuto popolare che invece, col suo comportamento, determinò. Preferì limitarsi a incassare l’accordo sulla cessazione della campagna elettorale e gestire la cosa in perfetta solitudine.
Ma perché agire in modo così, apparentemente, dissennato?
Forse, perché era considerata l’unica chance di vittoria.
Le bombe di Madrid devono essere sembrate agli strateghi elettorali del Pp l’occasione per ribaltare un risultato che, comunque fosse andata, sarebbe stato negativo per il partito.
Anche una vittoria, senza la maggioranza assoluta, sarebbe state un grave problema per il Pp. Il secondo esecutivo Aznar si era infatti caratterizzato per le ostilità aperte con quei partiti ai quali, nella precedente legislatura nella quale non aveva ottenuto la maggioranza assoluta, aveva chiesto i voti per poter varare il governo, nazionalisti baschi e catalani in particolare. Il Psoe avrebbe avuto invece maggior facilità a trovare accordi al Congresso.
La legge elettorale vieta di diffondere i sondaggi nell’ultima settimana di campagna elettorale ma non di farli. I sondaggi riservati, successivamente resi pubblici, effettuati tra il 10 e il 12 marzo davano il Psoe da meno di un punto percentuale dietro al Pp al 2,6 per cento di vantaggio [15]. Quello che gli studiosi, considerati anche i margini di errore, definiscono “pareggio tecnico”.
Possiamo immaginare che gli strateghi elettorali del Pp si siano fatti due calcoli e abbiano deciso di tentare di approfittare della situazione. Convinti che la disfatta poteva essere evitata se gli elettori fossero andati alle urne ancora convinti della matrice basca degli attentati e se si fosse riuscito a trasformare questa convinzione in un appoggio al partito di governo che tanto efficientemente aveva combattuto il terrorismo basco.
La risposta al perché del comportamento “dissennato” del Pp sta, probabilmente, nella convinzione che le elezioni fossero già perdute. Il Psoe era a un passo, forse in testa, ma se anche non fosse risultato il primo partito le possibilità per i popolari di governare per altri quattro anni la Spagna erano praticamente nulle.
La tragedia madrilena esaltava il senso di appartenenza della nazione, ed era prevedibile che gli spagnoli si sarebbero recati in massa alle urne, a celebrare un grande rito civile in memoria delle vittime attraverso il voto, che rappresentava anche lo stringersi alle istituzioni contro la follia terrorista.
Questo avrebbe portato alle urne anche gli elettori che con ogni probabilità, in condizioni normali si sarebbero astenuti. E il grosso dell’astensione era costituito da elettori potenziali del Psoe.
Alla fine i dati della partecipazione hanno confermato questa aspettativa. Il 75,66 per cento di elettori presentatisi alle urne rappresentano una decisa crescita rispetto al 2000, quando furono il 68,71 per cento, riavvicinandosi alle medie consuete di partecipazione alle elezioni politiche [16]. Si tratta di una tendenza già in atto — la riuscita opera di mobilitazione dell’elettorato di sinistra fatta da Zapatero — che viene rafforzata dagli avvenimenti.
In definitiva, non possiamo sapere con certezza come sarebbero andate le cose se le stragi non fossero avvenute, né se il Pp si fosse comportato diversamente. Possiamo però dire che c’erano delle tendenze consolidate e che queste non sono state ribaltate dalle stragi né dalle condotte del governo. Semmai rafforzate.
Il risultato finale del voto, nel quale il Psoe avrebbe guadagnato rispetto alle precedenti elezioni circa tre milioni di voti mentre il Pp ne avrebbe persi poco più di un milione e duecentomila, si deve ascrivere quindi a tre fattori.
Il primo è la valutazione negativa dell’azione di governo nei quattro anni precedenti al voto. Il secondo è la crescita nell’elettorato dell’opzione socialista come una ipotesi attendibile di alternativa di governo — questi due fattori costituiscono il contesto nel quale si sono verificate le stragi. Poi, la percezione che l’esecutivo stesse manipolando i fatti o comunque stesse ritardando la comunicazione dei risultati investigativi sui veri mandanti degli attentati nel tentativo di ottenere un profitto elettorale. E la «punizione” di questo comportamento attraverso il voto.
In quei drammatici giorni di marzo è successo quello che da una democrazia matura ci si deve aspettare che accada: gli elettori hanno espresso un giudizio su maggioranza e opposizione sulla base delle proposte e dei comportamenti politici. Niente di più dell’applicazione dei meccanismi classici della democrazia liberale. Le stragi hanno sicuramente colpito l’emotività degli spagnoli ma non hanno di per sé determinato il risultato elettorale. Più verosimilmente, insieme al comportamento degli attori politici in quel frangente, hanno accentuato quelle tendenze che erano già in atto.

note
[1] Le telecamere di sicurezza della stazione di Atocha riprendono l’attentato. Il video
[2] Técnicos Especialistas en Desactivación de Artefactos Explosivos (TEDAX). Sono unità dei diversi corpi militari e di polizia spagnoli, specializzate nell’individuazione, neutralizzazione e disattivazione di materiali esplosivi.
[3] L’Eta, in occasione di attentati dinamitardi in luoghi pubblici, ha sempre preavvisato telefonicamente delle esplosioni. I morti civili, nella logica terrorista basca, sono considerati “effetti collaterali” e mai obiettivi primari. L’unico precedente è l’attentato nel centro commerciale Hipercor di Barcellona, nel giugno del 1987, dove morirono 21 persone. Forse per problemi organizzativi l’avviso non arrivò in tempo per consentire l’evacuazione dello stabilimento. In seguito ai fatti si aprì una crisi nell’organizzazione terrorista e nel radicalismo indipendentista, e vennero rese pubbliche posizioni differenti riguardo alla conduzione della lotta armata.
[4] Il caso è stato riaperto nel 2005 quando gli Usa hanno estradato un uomo che era detenuto in Pakistan, Mustafá Setmarian Nasar, sospettato di aver preso parte agli attentati.
[5] Il partito del radicalismo indipendentista di sinistra messo fuori legge perché considerato braccio politico dell’Eta.
[6] Nel dibattito politico il riferimento alla Costituzione è utilizzato per indicare l’unità della nazione in contrapposizione alla spinta centrifuga che viene da alcune nazionalità. Nel País Vasco sono definiti “costituzionalisti” quei partiti (Pp e Psoe) che si oppongono all’indipendentismo.
[7] Una successiva verifica dei resti mortali ritrovati porterà il computo definitivo a 192 vittime.
[8] Le liste di discussione su argomenti specifici, svolte attraverso i programmi di posta elettronica, disponibili in gran quantità in rete prima dell’avvento dei social.
[9] La notizia si rivelerà poi infondata.
[10] Lo zaino venne raccolto assieme ai bagagli e agli oggetti personali nel treno esploso alla stazione de El Pozo, depositati nel commissariato di Puente di Vallecas. Solo la mattina del 12, seguendo il suono di un cellulare, gli agenti del commissariato si accorsero c’era un ordigno inesploso, disinnescato dagli agenti del Tedax in un parco vicino.
[11] Manifestazione fatta provocando rumore con stoviglie e pentole (cacerolas). Vengono chiamate così le proteste popolari che accompagnarono la crisi economica argentina del 2001.
[12] Psoe 42,59 per cento, 164 seggi; Pp 37,71 per cento, 148 seggi.
[13] Fonte: Generalitat valenciana. Cfr. www.pre.gva.es/argos/demoscopea/11.htm Cit. in: I. Lago Peñas/J. Ramón Montero — Los mecanismos del cambio electoral — Del 11M al 14M, Claves de razón pratica n° 149
[14] Noxa Consulting per La Vanguardia. 12/2/04
[15] La prima è l’inchiesta di Sigma-Dos del 12 marzo presentata da Carlos Malo de Molina nella conferenza La matriz de transferencia de votos; la seconda è l’inchiesta di NOXA, presentata da Julián Santamaria nella conferenza Los idus de marzo. Le conferenze sono avvenute nell’ambito del XIII Seminario di ricerca politica e sociologica, AEDEMO, Madrid, novembre 2004. Va considerato come si tratti di valori assoluti e non di proiezioni sui singoli collegi elettorali: il vantaggio di voti per il Psoe, se confermato, non avrebbe necessariamente determinato la vittoria elettorale.
[16] Nel 1996 furono il 77,38 per cento; nel ’93 il 76,44 per cento; nell’89 il 69,74 per cento.
Le telecamere di sicurezza nella stazione di Atocha riprendono l’esplosione di una delle bombe. Il video.

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