Italy has a new way to combat overtourism. L’Italia ha un nuovo modo per combattere l’overtourism, racconta Julia Buckley su CNN Travel. La giornalista descrive ed esalta “Uffizi Diffusi”, il progetto di esposizione di opere, conservate nel deposito degli Uffizi di Firenze, in diverse località in giro per la Toscana, che trasforma, come sottolinea l’inviata, “la regione più famosa d’Italia in un grande museo diffuso”. Idea suggestiva. Può essere trasferita e pensata anche per Venezia, per il Veneto? Può essere un modo per contrastare l’overtourism nella città dei Dogi? Oppure lascerebbe la situazione così com’è? Ne discutiamo su ytali. Dopo il breve intervento iniziale di Paul Rosenberg, sono intervenuti FrancoAvicolli, Franco Migliorini (qui di seguito) Antonella Baretton, Francesco Erbani, Rebecca Ann Hughes.
[G. M.]

Diciamo pure che un “merito” la pandemia lo ha avuto, quello di costringerci a ragionare su di un modello di sviluppo che ci ha improvvisamente posto di fronte a interrogativi accantonati nella fretta di rincorrere il quotidiano nelle sue manifestazioni patologiche. E il turismo è proprio uno dei temi al centro della valutazione perché il suo crollo verticale ha spalancato un baratro economico là dove con più forza era radicato. Come le città d’arte, ma non solo, vale per coste, montagna, termalismo e altro ancora.
In sostanza dove è la domanda esterna a condizionare l’economia locale conformando anche i conseguenti comportamenti delle comunità interessate. Ma solo nelle città d’arte si parla di overturismo, cioè della dilatazione di una attività economica pervasiva che richiama l’idea della one company town di fordiana memoria, dove il crollo dell’economia traente trascina la città intera nella disperazione. Perché la Fabbrica del turismo è stata chiusa.
Ma bisogna distinguere. Un conto è il crollo turistico dentro l’economia complessa di una grande città – Barcellona, Roma, Amsterdam -, che soffre ma regge. Un conto di una piccola città, già svuotata di abitanti, e catturata dal turismo di massa che la globalizzazione degli ultimi decenni ha scatenato grazie al basso costo dei viaggi e alla crescita dei redditi di altri continenti.
È il caso di Venezia che con la sua insularità non rappresenta il Centro storico di un corpo urbano che la ingloba senza soluzione di continuità, ma è una città storica spazialmente finita per la sua singolare insularità, che non è solo un dato geografico, ma anche profondamente culturale per il rapporto materiale che la comunità ha storicamente instaurato col suo insolito ambiente lagunare. Un luogo di produzioni materiali sedimentate in una sapienza artigiana che continua a sopravvive immersa in una massa di visitatori che neppure la percepiscono per la banalità della motivazione che sta dietro alla grande mobilità indotta dall’industria turistica mondiale, a caccia di esotismi da proporre a quella che si definisce ormai come economia turistica estrattiva.
Quella che appiattisce verso il basso la qualità del lavoro e propone standard di consumo che cancellano la vera identità, praticamente ignorandola così come ingessata dentro uno stereotipo di largo e banale consumo. E non può che essere così per la dimensione della filiera di interessi che la genera.
Si può quindi porre un confronto Firenze Venezia e Toscana Veneto per segnalare analogie e diversità. Entrambe le città con il nucleo storico fagocitato dal turismo, entrambe con un grande patrimonio artistico culturale parcheggiato nei depositi, entrambe con un entroterra regionale come risorsa. Ma con le debite differenze.

La città d’acqua è un unico storico e ambientale, in quanto tale una “città museo” in sé che viene commercializzata come tale – paesaggio storico monumentale sull’acqua certificato come originale – anche a prescindere dalla ricchezza del patrimonio artistico che ingloba come urbs e delle modalità della sua produzione e del suo mantenimento. Al punto che persino eventi che ne rievocano le origini storiche vengono degradati a un folclore cui nell’anno in corso, il 1600esimo, non si sottrae neppure la celebrazione del fantomatico anno – il 421 d.c.- della sua fondazione di cui gli storici accreditati non trovano alcun verosimile riscontro. Ma non conta. In pratica è una forma di marketing che anziché omaggio alla città diviene ulteriore sfregio alla sua identità per riproporla sul mercato. Mentre i musei restano chiusi da prima del nuovo lockdown.
Ma la forma economica del overturismo urbano può essere convertita attraverso la dispersione dello stesso nello spazio? Ma quale spazio? Quello urbano o quello regionale?
Di quello urbano si è discettato variamente, ma pensare di sostituire San Marco con i quartieri periferici della città insulare, per altro già investiti dalla conversione turistica dello stock abitativo, significherebbe curare con la droga l’overdose già in atto, per accelerare il collasso finale. Mentre a San Marco nessuno potrebbe rinunciare. E a ragione.
Disperdere invece sul territorio regionale i lasciti dei depositi museali per agevolare una circolazione turistica rimotivata, quando tutta l’abbondante offerta museale cittadina messa insieme non regge quel che il Palazzo Ducale da solo attrae, non avrebbe senso. Potendo il territorio già oggi contare sul grande patrimonio diffuso delle Ville Venete, straordinario, ma come offerta alternativa in sé, comunque complemento terrestre della civilizzazione veneziana dell’antico paesaggio veneto e delle sue grandi interpretazioni architettoniche, il cui limitato intorno a fatica è oggi difeso. Ma di cui oggi non si può citare nulla di simile alla tutela della integrità paesistica della Val d’Orcia.
Il genere di paesaggio veneto celebrato oggi è quello dei filari a gradoni dell’economia industriale del prosecco, con marchio Unesco, che si è sovrapposto alle rappresentazioni rurali tramandate dai dipinti dei paesaggisti veneti, dal Rinascimento in poi.

Il parametro di misura è il confronto con l’economia del benessere industriale della regione che presiede ad ogni comparazione con la utilità delle produzioni, nel campo dei beni come in quello dei servizi. Di cui il turismo è una fattispecie cui si affida il ruolo economico crescente e pervasivo della più recente vulgata del governo regionale. Ma non un ruolo sostitutivo. Bensì aggiuntivo. Per il quale a Venezia viene assegnata la funzione di brand e di apripista di una regione che ufficialmente si presenta al mondo come “The land of Venice”. Marchio di qualità per un prodotto geograficamente esteso che si rivolge alla città come ad grande hub turistico e infrastrutturale a disposizione di un vasto territorio. Una porta di accesso con un aeroporto che aspira a terzo aeroporto intercontinentale d’Italia. Aperto verso l’est. Non quello europeo ma quello asiatico. Il perché è chiaro. Di là vengono i grandi numeri della produzione industriale.
Questa la sproporzione delle forze in campo tra una città che aspira alla qualità e un mondo economico che le ha assegnato un ruolo di pura quantità. Con una amministrazione in carica che pensa di governare il turismo con tassa di ingresso, tornelli da stadio e tecnologie di rilevamento in tempo reale le immagini istantanee degli arrivi di massa, buone per le statistiche. Col più semplice principio della prenotazione della visita, come alle Cinque terre e altrove nel mondo, pensato per un futuro indeterminato. Purché molto lontano nel tempo.
Un comunicatore professionale direbbe di operare per un demarketing del brand Venezia, che nella uscita dalla pandemia possa dirottare la ripresa pilotandola verso visite di qualità basate su di un’offerta di servizi culturali che valorizzino il concetto esperienziale della visita. In realtà nulla di nuovo in campo turistico, per il quale esistono opportunità materiali e soggettività organizzate in grado di cimentarsi con accertata professionalità allo scopo, potendo pensare anche ad un ingresso del digitale come strumento di arricchimento della conoscenza di storia e patrimonio.
Ma tutto questo non sarà certo l’inerzia del mercato a produrlo se non sarà la città a reclamare un nuovo indirizzo per garantire sé stessa e il proprio futuro. Dove non serve sempre più turismo, serve sempre più valore aggiunto nel turismo.
in copertina: John Singer Sargent, (1856 – 1925)

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