L’ombra che avvolge Cesare Prandelli, uno degli ultimi galantuomini del calcio italiano, ci dice chiaramente che aveva ragione Tony Judt: guasto non è il calcio, è il mondo. E il mondo del calcio non fa certo eccezione. Il superomismo di cui abbiamo ammantato questi eroi contemporanei, chiamati a essere divi senza macchia e senza paura, nell’impossibilità di avere un dubbio, una preoccupazione, una remora, costretti a essere sempre al massimo della forma per far andare avanti uno spettacolo divenuto ormai malato, tutto questo sta stritolando la gioia e il divertimento che un tempo erano l’essenza di questo sport.
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Non sappiamo quanto sia profondo il malessere di Prandelli. Di certo, l’uomo ne ha viste e subite tante: in ambito professionale ma, soprattutto, dal punto di vista umano. Quando uno come lui arriva a scrivere di non sentirsi più parte del mondo che è stato il suo per tutta la vita, però, significa che qualcosa si è irrimediabilmente rotto. Il dramma privato del Prandelli uomo lo lasciamo alla sua coscienza. Ci auguriamo di potergli stare vicino, di potergli far sentire il nostro affetto e la nostra vicinanza ma non ci spingiamo oltre perché si tratta di una vicenda che non può e non deve riguardarci, se non nella misura in cui egli stesso deciderà di coinvolgerci.

Il dramma professionale dell’allenatore, invece, ci riguarda eccome. Perché se uno come lui dice basta, dopo aver visto uscire mestamente di scena, quasi condannati all’esilio, i ragazzi dell’82 che ci avevano issato sul tetto del mondo in quel di Madrid, significa che il calcio contemporaneo, almeno in Italia ma temiamo anche altrove, non tollera più uomini veri, personalità schiette e sincere, figure autentiche che dicono quel che pensano e ontologicamente incapaci di mentire o di servirsi di forme più o meno squallide di ipocrisia. Se un uomo come Prandelli si ferma, se ammette che la sua carriera potrebbe essere giunta al capolinea, se il suo malessere interiore prevale sui suoi sogni e sulle sue speranze, allora abbiamo perso tutti.

Cesare Prandelli aveva accettato nuovamente la sfida di Firenze dopo aver allenato la Nazionale italiana e qualche nobile decaduta all’estero, ma non ha mai dato l’impressione, almeno a me, di possedere ancora quel tocco magico che lo aveva reso uno dei migliori tecnici italiani negli anni di Parma e della prima esperienza in viola, quando allevava talenti su talenti e consentiva ai suoi ragazzi di crescere e maturare in un ambiente sano e al riparo da ogni polemica. Quando è tornato a Firenze, in un contesto che lo aveva amato e scaricato troppo presto, Cesare si portava dietro l’ombra che ha finito col travolgerlo. Dava la sensazione di considerarsi già un ex, di non divertirsi più, di non avere più la tempra necessaria per svolgere quel mestiere, di non poterne più di un ambiente dal quale, evidentemente, si sentiva tradito e preso in giro.

Eppure ha svolto al meglio il suo compito, ha condotto la Fiorentina al sicuro, ha battuto la Juve a Torino, ha insegnato calcio, ha rivitalizzato giocatori che avevano bisogno solo di essere presi per mano da qualcuno in grado di trovare sempre le parole giuste per motivare chi è in difficoltà e, infine, ha detto basta. Forse al momento opportuno, non sappiamo se animato dalla certezza di essere in pace con sé stesso o dal tormento di sentirsi sostanzialmente uno sconfitto.
Di sicuro, Cesare Prandelli non ha perso la partita più importante: quella con la dignità, la stessa che aveva vinto già nel 2004, quando aveva abbandonato la panchina della Roma per star vicino alla moglie Manuela gravemente malata. La stessa dignità che non gli è mancata quando si è trattato di metterci la faccia e rassegnare le dimissioni dopo il fiasco solenne degli Azzurri ai Mondiali brasiliani. La stessa che lo caratterizza oggi che il sipario cala sulla sua avventura sportiva e nuovi scenari si prospettano davanti a lui. Ha scritto di volersi fermare per ritrovare sé stesso, non potendone più di un mondo con ogni evidenza troppo frenetico. Buona fortuna a un uomo che al calcio e alla vita ha dato molto più di quanto abbia ricevuto in cambio.

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