Matthäus e Cruijff, quando il calcio aveva un sapore nordico

Uno ha raccolto l'eredità del Novecento e l'ha consegnata al Duemila, l'altro ha scritto le ultime pagine gloriose di un secolo comunque indimenticabile. Uno è ancora qui, guascone e irriverente, l'altro ci ha detto addio ma ha lasciato un'eredità che durerà in eterno.
ROBERTO BERTONI BERNARDI
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Lothar Matthäus ha fatto sessanta lo scorso 21 marzo, all’inizio della primavera, come a voler ribadire la sua esuberante vitalità, la sua smisurata forza fisica, il suo vigore e la sua grinta che non hanno mai concesso sconti agli avversari. Johan Cruijff se n’è andato il 24 marzo di cinque anni fa, anche lui a inizio primavera, all’età di sessantotto anni, al termine di una vita vissuta, sfidata, attraversata ogni giorno da protagonista e ipotecata a suon di sigarette, fino a quando i suoi polmoni non ne hanno potuto più.

Un panzer tedesco dal cuore gentile, innamorato dell’Italia e corrisposto dagli italiani, cosa rara, per la gioia che ha donato nei suoi quattro anni di permanenza nel nostro campionato, in particolare ai tifosi interisti che, grazie a lui, nell’89 si tolsero la soddisfazione di conquistate lo scudetto dei record, infrangendo momentaneamente lo strapotere della Juve bonipertiana e del Milan stellare della nouvelle vague berlusconiana.

Ballon d’Or 1990

Cruijff è stato, invece, il dominus dei Settanta, dapprima con l’Ajax e con l’Olanda del calcio totale e della rivoluzione dei costumi, capaci di creare uno stile e di modificare per sempre le austere tradizioni che fino a quel momento apparivano immutabili, e poi con il Barcellona, che allora era davvero più di un club, l’esercito disarmato della Catalogna e l’emblema della resistenza al morente franchismo, in una Spagna che si apprestava a vivere la transizione verso la democrazia ma nella quale era ancora vietato attribuire ai figli nomi catalani.

Non a caso, il funambolo olandese mise a suo figlio il nome Jordi, sfidando apertamente il regime e ribadendo, con beata irriverenza, che lui poteva permettersi questo e altro.

Se Matthäus è stato l’eroe della fine della storia, della Germania che vedeva la conclusione dell’incubo del Muro e il ritorno all’unità, al crepuscolo del Secolo breve e nel bel mezzo di un rivolgimento epocale, Cruijff, come detto, è stato il mito dei ragazzi degli anni Settanta, quelli con l’eskimo e i capelli lunghi, quando la politica era tutto e nelle sezioni del Pci, per non dire della sinistra extraparlamentare, si rifletteva per ore, se non per giorni, sulla barbarie che stava andando in scena in Cile e in Argentina.

Cruijff è il campione che si rifiutò di partecipare ai Mondiali della vergogna di Videla: un po’, pare, per paura di essere rapito o addirittura di fare una brutta fine, un po’ perché il suo cuore di sinistra gli impediva di andarsi a genuflettere al cospetto dei generali golpisti, in un torneo dall’esito scontato, in cui all’Argentina di Menotti venne consentito di tutto, compreso vincere senza particolari meriti contro la splendida Olanda dell’arancia meccanica che già si era vista soffiare il titolo quattro anni prima dalla Germania Ovest e che quattro anni dopo perse una partita che non poteva e non doveva vincere.


Troppo per uno come Cruijff, icona dello sport pulito, della classe cristallina e incontaminata, della purezza del gioco, degli ideali e dei sentimenti, uno che aveva rifiutato i fasti di Madrid per tenersi a debita distanza dal franchismo e che a Barcellona è considerato un Dio non meno che nella natia Amsterdam. A lui si deve l’olandesizzazione dei catalani, come una sorta di Orwell pallonaro che ha scritto sui campi di calcio il suo “Omaggio alla Catalogna”, conducendo i blaugrana a umiliare i rivali di sempre in un “Clásico” che ancor oggi fa bella mostra di sé in una fermata della metro di Barcellona.

Matthäus non ha avuto quest’epica, è venuto dopo. Si è limitato, si fa per dire, a disputare cinque fasi finali dei Mondiali, a vincerne uno e ad arrivare in finale altre due volte, dovendosi arrendere nell’82 ai ragazzi di Bearzot e nell’86 all’Argentina di Maradona e Valdano. 

Li accomuna unicamente, e non è poco, il fatto di essere due icone del calcio nordico, due simboli della supremazia fisica di un mondo che, da questo punto di vista, non ha eguali. Uno è stato un cingolato di notevole valore, l’altro un poeta. Uno ha raccolto l’eredità del Novecento e l’ha consegnata al Duemila, l’altro ha scritto le ultime pagine gloriose di un secolo comunque indimenticabile. Uno è ancora qui, guascone e irriverente, l’altro ci ha detto addio ma ha lasciato un’eredità che durerà in eterno. Entrambi hanno dedicato al calcio la propria esistenza e per questo li abbiamo amati e li ameremo sempre. 

Matthäus e Cruijff, quando il calcio aveva un sapore nordico ultima modifica: 2021-03-27T20:15:36+01:00 da ROBERTO BERTONI BERNARDI
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