Andando per ricette, ritrovi il calabrone di Einstein

In libreria “Venezia, una storia commestibile” di Pierangelo Federici, un istruttivo e divertente giro per la città e per le sue isole in cerca di prelibatezze e di piccole sacrosante verità.
ROBERTO ELLERO
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“Siamo ciò che mangiamo”, pare abbia detto il buon Feuerbach a metà Ottocento, rilevando addirittura Ippocrate. E “parla come mangi”, ancora qua e là in uso, veniva detto a chi si dava qualche aria di troppo, giusto per riportarlo coi piedi per terra. Perciò, niente di meglio che un viaggio, con ricette, nella cucina veneziana per ricordarci chi siamo e da dove veniamo. Evitando, va da sé, le truppe cammellate dell’enfasi celebrativa d’ordinanza con cui una certa Venezia va festeggiando i suoi presunti sedici secoli di vita, secolo più secolo meno, vista l’assoluta discrezionalità storiografica della data simbolica, 21 marzo 421, assunta a suo tempo e data oggi per buona senza troppi approfondimenti. 

È dunque con salutare tempismo che leggiamo e segnaliamo il lavoro di Pierangelo Federici Venezia, una storia commestibile, edito da Lunargento, simpaticamente illustrato da Pietro Ricca. Dandomene gentilmente copia, l’autore, che è ragazzo di spirito pressappoco della mia stessa generazione, pubblicitario, apprezzato articolista e buon gourmet, premette che di opera versatile si tratta, nel senso che può essere letta tutta d’un fiato oppure per capitoli, alla bisogna culinaria, trovando perciò posto tanto nello scaffale delle narrazioni veneziane quanto in quella mensola della cucina dove solitamente teniamo libri, opuscoli o, più modestamente, ritagli di ricette buone per qualche sfizio, che male non fa. 

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E qui di sfizi ve n’è in quantità: per esempio, a corredo di un’intervista impossibile con Marin Sanudo, quel risoto de gò tanto mitico quanto ormai introvabile nelle cucine veneziane, grandezza del pesce povero: i ghiozzi, quasi un emblema. Assurge a prelibatezza gastronomica, il risotto, in ragione degli anonimi cuochi, forse gli stessi pescatori chioggiotti, che chissà quanto tempo fa ci hanno creduto. Necessità e fantasia. D’altra parte, la cucina veneziana raramente s’inchina allo sfarzo, resta sempre repubblicana senza mai manco sognarsi di diventare principesca. E lavora sul chilometro zero, facendo tesoro di quel che offrono le sue acque e le sue terre, ben prima che la territorialità diventi, cronaca dei giorni nostri, una bandiera ambientalista. Vero che di riso in laguna non c’è traccia, ma poco lontano abbonda, ed eccolo impossessarsi delle nostre tavole: risotti di tutti i tipi, la specialità della casa. 

Il ghiozzo, a Venezia lo chiamano gò

Storia commestibile: non aspettatevi le consuete linee cronologiche temporali predilette dalla storiografia, dalle origini (quali?) ai giorni nostri. Piuttosto un giro gastronomico e non solo per la città e per le isole della laguna, una simpatica flânerie con divagazioni, che facendo tesoro di una toponomastica strepitosamente loquace appunta mestieri e leggende, abitudini e aneddoti, fatti storici e dicerie consentendo al lettore di farsi un’idea certo meno stereotipata e più autentica del vivere veneziano di ieri e, per quel che ne rimane, di oggi. Quando non ci sono santi di mezzo, calli e campielli del resto non fanno che nominare mestieri e maestranze molto spesso riconducibili proprio all’alimentazione. E dunque becheri, botteri, biavaroli, frutaroli, pestrini, scaleteri e via dicendo. Tutta roba da mangiare, qualcosa vorrà pur dire.

Dotato di glossari e indici utili a tradurre e poi individuare con facilità tanto i termini dialettali quanto le ricette, il bello del libro è che ti consente di girovagare senza mai perderti fra le storie che la cucina veneziana va evocando, lumi di sano materialismo storico in fondo, sapienza popolare e collettiva di una città che è unica per la sua stessa esistenza, inveratasi maestosamente fra le acque, con le sue architetture, a dispetto di ogni ferale previsione. Tutto merito dei “battipali”, osserva in premessa Federici, veri artefici “proletari” della città, seguendo un gioco di paradossi che porta persino ad Einstein.

Il ponte di Rialto sta in piedi perché lì sotto ci sono 12.000 pali di olmo, piantati a mano. Questi uomini consumati dalla fatica che, con il loro sacrificio, hanno reso possibile lo stupore del mondo intero davanti alla bellezza di Venezia, questi lavoratori che hanno creato ‘una foresta a testa in giù’ per dare fondamenta alla magnificenza, meritano sicuramente la nostra memoria. (…) E il tutto resta perfettamente in piedi, sia dal punto di vista estetico che statico. Come dice un mio amico, Venezia è tale e quale al famoso calabrone di Albert Einstein, che non potrebbe volare a causa della superficie alare, della forma e del peso del proprio corpo… Ma il calabrone non lo sa, perciò continua a volare.

Per analogia, vale anche per gli anonimi facitori della cucina veneziana, che oltretutto con i suoi cicheti nei bacari vanta una possibile primogenitura persino in un altro comparto della globalizzazione: lo street food. Poi, visto che siamo in tema di associazioni fra toponomastica e gastronomia, la rilevanza del melting pot, che si fa ben sentire anche in cucina con dolce e salato spesso sapidamente accostati. Greci, armeni, schiavoni, albanesi, ebrei di levante e di ponente, tedeschi e turchi (ogni cosa che veniva d’altrove era turca per principio, a cominciare dal mais per la polenta, granoturco infatti) popolano ancor oggi calli e campielli, determinando un felice meticciato che si fa naturalmente apprezzare anche in cucina. Indovinate a chi dobbiamo i bigoi in salsa?

Carlo de Ghega o Carl Ritter von Ghega

A chiudere la ricca carrellata, in appendice, una serie di interviste impossibili, sperimentante con successo dall’autore in una sua rubrica culinaria per le pagine di un mensile veneziano. Personaggi di una Venezia volentieri eterodossa, e dunque, accanto al citato Marin Sanudo, Veronica Franco, Leone da Modena (“il più famoso e discusso rabbino veneziano, per la sua visione del mondo di grande apertura e modernità”), l’immancabile Giacomo Casanova e Carlo Ghega. Balzo sulla sedia: chi era mai costui? Un genio delle ferrovie, in realtà, ingegnere veneziano del 1802, necessariamente al servizio degli austriaci, per i quali realizzerà il Semmering, la prima ferrovia di montagna sulla tratta più difficoltosa della Venezia-Vienna. Oltralpe sarà per tutti Karl Ritter von Ghega, cavaliere, meritandosi persino una banconota da venti scellini prima che arrivasse l’euro. Qui da noi l’oblio, per un genio veneziano la cui famiglia vantava origini… albanesi. E poi, magari, gli stessi che inneggiano alle glorie del nostro Leon, pasticciando volentieri sui secoli, reclamano il consueto “paroni a casa nostra”. La conoscessero davvero, almeno, nella sua paradossale unicità, quella casa. Il suo incrollabile spirito. A tavola e fuori.

Andando per ricette, ritrovi il calabrone di Einstein ultima modifica: 2021-03-28T18:37:25+02:00 da ROBERTO ELLERO
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