La mattina del 23 marzo la nave Ever Given, una tra le più grandi porta-container al mondo, probabilmente a causa di forti venti e di una tempesta di sabbia (ma forse anche di un errore umano), si è incagliata nel Canale di Suez, di fatto bloccando quella che è la principale via di comunicazione marittima tra l’Europa e l’Asia. La nave è un colosso lungo 400 metri e largo 59, con oltre 220.000 tonnellate di stazza a pieno carico (ovvero circa ventimila container). Già nel febbraio 2019 aveva avuto un incidente nei pressi di Amburgo, dove aveva speronato un traghetto. Partita dalla Cina il 4 marzo, sarebbe dovuta arrivare a Rotterdam a fine mese, ma si è incastrata pochi chilometri dopo l’ingresso nel canale, in un punto in cui esso è largo più di 200 metri.
Inizialmente il problema sembrava risolvibile in tempi brevi (quando nel 2017 il canale era stato bloccato da un’imbarcazione giapponese in avaria, la riapertura era avvenuta dopo poche ore), ma l’indefesso lavoro di draghe e rimorchiatori non ha sortito in realtà gli effetti sperati. Addirittura si è ipotizzato di dover scaricare tutti i ventimila container prima di poter tentare le manovre di disincagliamento con una certa probabilità di riuscita: questa operazione avrebbe richiesto alcune settimane. Con il passare dei giorni si è tornati a previsioni più ottimistiche e in effetti nella notte tra il 28 e il 29 marzo la nave è stata “quasi liberata”; ma, nel frattempo, decine di navi si sono accumulate ai due estremi del canale (con il timore che le imbarcazioni bloccate nel Mar Rosso o nella zona del corno d’Africa possano diventare bersaglio di attacchi di pirati).
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La situazione, comunque grave, ha rischiato di diventare drammatica: basti pensare che nel 2020 quasi 19.000 navi sono transitate nel canale (una media di 52 al giorno). Dal Canale di Suez passa infatti circa il dodici per cento del commercio mondiale, ovvero beni per circa 9,6 miliardi di dollari al giorno (5,1 in direzione Est-Ovest e 4,5 in direzione Ovest-Est). Le conseguenze economiche sono dunque enormi e i primi effetti si sono visti immediatamente con tensioni sul prezzo del petrolio (transita da Suez il 4,4 per cento del greggio mondiale); la distribuzione di molti beni verrà colpita, dato che nel 2019 hanno percorso il canale ingentissime quantità di cereali, minerali, metalli, carbone e coke oltre a un’ampia gamma di beni (fra cui animali vivi e prodotti alimentari che rischiano di deteriorarsi).
Negli ultimi anni la dimensione delle navi porta-container è aumentata enormemente: secondo uno studio della compagnia assicurativa Allianz, la capacità di carico è cresciuta di quindici volte dal 1968 ed è più che raddoppiata dal 2005. Si discute se non si sia raggiunto un limite, anche a causa delle modifiche infrastrutturali necessarie ad accogliere questi giganti del mare. In effetti anche la Suez Canal Authority si è attrezzata e nel 2015 ha effettuato lo scavo di un canale parallelo a una parte di quello esistente (si tratta però di circa 35 chilometri su un percorso totale di circa 190). La Ever Given si trova incagliata a sud di questo nuovo tratto. Anche quando il canale sarà sbloccato e si tornerà alla normalità vi saranno comunque sensibili ritardi nelle forniture, poiché l’arrivo di molte navi nello stesso momento creerà un collo di bottiglia nei porti di arrivo, dove le procedure sono già state rese più complicate – e lente – dalla pandemia.
Secondo il Wall Street Journal la copertura assicurativa della nave ammonta a 3,1 miliardi di dollari, ma non è certo che tale somma basti a coprire i danni. Sono tra l’altro previste molte cause legali perché le assicurazioni standard stipulate dai proprietari delle merci coprono solo danneggiamento e perdita; per ottenere compensazioni in un caso del genere, quindi, non resterebbe loro che rivalersi sui giapponesi di Shoei Kisen Kaisha, proprietari della nave.

Vista la perdurante incertezza dei giorni successivi all’incidente, alcune compagnie hanno dirottato le proprie navi facendo loro percorrere la lunga rotta di circumnavigazione dell’Africa. Questa scelta comporta un notevole costo aggiuntivo per il carburante (solo parzialmente compensato da un risparmio del pedaggio) e un incremento di tempi stimato in sette-dieci giorni (normalmente il viaggio Cina-Rotterdam è di circa un mese); ma almeno fornisce una certezza sulla consegna delle merci.
Si è trattato di un ritorno al passato, ovvero a quella lunga rotta che per primi, a fine Quattrocento, i portoghesi avevano inaugurato nella ricerca delle spezie asiatiche. Capo di Buona Speranza, l’estrema propaggine meridionale del continente africano, fu doppiato per la prima volta nel 1488 da una flotta posta sotto il comando di Bartolomeu Dias. Giunte nei pressi del limite meridionale dell’Africa, le navi portoghesi furono travolte da una tempesta dopo la quale, tornando a vedere la costa, i portoghesi si accorsero dell’impresa riuscita. Si spinsero avanti per un poco, fino alla baia di Algoa, ma decisero poi di tornare indietro, non prima di aver nominato Cabo das Tormentas (Capo delle Tempeste) quel luogo di incontro delle acque dell’Oceano Atlantico e dell’Oceano Indiano. La notizia (ovvero l’apertura della via marittima verso l’Asia) fu accolta con entusiasmo a Lisbona e re Giovanni II decise di attribuire al capo il più benaugurante nome attuale.
Con quel viaggio i portoghesi portavano a compimento un lungo processo di esplorazione della costa africana che era iniziato nel 1415, con la conquista di Ceuta. Nel corso degli oltre settant’anni seguenti essi si spinsero progressivamente più a sud, nella prima fase soprattutto grazie all’impulso del principe Enrico, detto il Navigatore (morto nel 1460). Nel 1487, pochi mesi prima che Dias salpasse verso sud, Pêro de Covilhã e Afonso de Paiva furono incaricati dal sovrano portoghese di dirigersi a est. Giunti via mare ad Alessandria d’Egitto, i due risalirono il Nilo fino al Cairo e proseguirono poi via terra fino al Mar Rosso; da lì ripresero il mare, Paiva diretto in Etiopia e Covilhã in India, dove giunse nel novembre 1488. Successivamente Covilhã si recò a Hormuz e da lì esplorò parte della costa orientale africana, fino a Sofala (nell’attuale Mozambico), rientrando poi al Cairo.

Con le informazioni pervenute a Lisbona dai viaggi del 1487-88, si era ormai capito che raggiungere l’Asia via mare era un’impresa fattibile. Nel 1492, tuttavia, Colombo – per conto della Spagna – toccò quelle che si pensavano essere le propaggini orientali dell’Asia. Le diplomazie si misero all’opera e nel 1494, con il trattato di Tordesillas (che confermava con leggere modifiche la bolla papale Inter coetera del 1493), portoghesi e spagnoli divisero il mondo in due sfere di influenza: ciò che si trovava ad ovest di un’immaginaria linea di demarcazione tracciata nell’Atlantico (come si sarebbe capito poi, l’America tranne il Brasile) sarebbe toccato alla Spagna, quello che si trovava a est (Africa e Asia, più il Brasile) al Portogallo.
Il primo a giungere in Asia dall’Europa direttamente via mare fu Vasco da Gama, che nel 1497-98 completò il viaggio Lisbona-Calicut (costa occidentale indiana) in 316 giorni (8 luglio 1497-20 maggio 1498). Pensando ai colossi attuali, fa impressione pensare che le navi di quella flotta non arrivavano a trenta metri di lunghezza e avevano una stazza inferiore a duecento tonnellate. Quando, due anni e due mesi dopo averla lasciata, Da Gama rientrò a Lisbona, fu accolto trionfalmente: i portoghesi vedevano la prospettiva di fare della loro capitale il fulcro del commercio europeo delle spezie, fino ad allora in mano ai veneziani, che andavano a rifornirsi nei porti del Mediterraneo orientale. Come enfaticamente scrisse Girolamo Sernigi, un mercante fiorentino che si trovava a Lisbona al rientro di Vasco da Gama, “a mio iudicio stimo che tutta la richeza del mondo sia trovata et già altro non si possa schoprire”; e, come con malcelata soddisfazione rimarcò un altro fiorentino, Guido Detti, “el soldano [sultano] n’abi una chativa nuova e veniziani abino a tornare pescatori”.
I portoghesi, dunque, miravano a scalfire tale monopolio e iniziarono a effettuare operazioni navali tendenti a bloccare l’accesso al Mar Rosso (passaggio fondamentale della tradizionale via delle spezie). Ottennero alcuni successi, fra cui la battaglia di Diu (1509) in cui sconfissero una composita alleanza fra i sultanati dell’Egitto mamelucco e del Gujarat (musulmani) e il regno di Calicut (indù), appoggiati anche dalla Repubblica di Venezia e dall’impero ottomano: in pratica tutti coloro che gestivano le varie fasi del trasporto di spezie in Europa. Nel 1513 Afonso de Albuquerque, governatore generale dell’impero portoghese in India, tentò di conquistare Aden, all’imbocco del Mar Rosso: il tentativo fallì, anche se negli anni successivi la presenza di navi portoghesi in zona e la guerra fra ottomani e mamelucchi indebolirono il traffico di spezie attraverso quella via. Nel 1515 i portoghesi riuscirono invece a conquistare Hormuz, all’ingresso del Golfo Persico, mentre nel frattempo, navigando verso Est, erano giunti anche alla fonte delle spezie più preziose, ovvero le isole dell’Asia sud-orientale. Così, pur non soppiantando del tutto la vecchia via di traffico, essi riuscirono per tutto il XVI secolo ad avere un ruolo dominante nell’importazione delle spezie in Europa.

Con l’inizio del Seicento subentrarono gli olandesi, seguiti poi dagli inglesi: la tecnologia navale si evolvette nel tempo, ma ancora a inizio Ottocento un viaggio Londra-Calcutta (città diversa dalla Calicut precedentemente citata) si svolgeva a vela, attraverso Capo di Buona Speranza e richiedeva fra i cinque e gli otto mesi, tempi e modi non molto diversi da quelli di tre secoli prima (anche se si era verificato un aumento della sicurezza, con perdite che si erano sensibilmente ridotte rispetto al 15-20 per cento di naufragi che caratterizzò i primi 150 anni dell’avventura portoghese). Già nell’ultimo quarto del Settecento la lunghezza dei tempi di circumnavigazione dell’Africa aveva spinto gli inglesi a propendere talvolta per la via Mediterraneo-Mar Rosso, nonostante la scomodità (e il costo, sia monetario che organizzativo) del necessario passaggio terrestre.
Dopo una pausa dovuta all’invasione francese dell’Egitto gli inglesi tornarono sull’idea e, a partire dagli anni Venti dell’Ottocento, svilupparono un progetto che prevedeva anche l’uso della propulsione a vapore. La tecnologia ancora agli albori implicava per le navi a vapore la necessità di frequenti soste per la manutenzione; anche quando utilizzavano una propulsione mista vela-motore, esse si adattavano male al lungo viaggio di circumnavigazione del continente africano, che pure venne sperimentato: nel 1825 una di queste imbarcazioni a propulsione mista, l’Enterprise, seguì la rotta del Capo, completando il percorso Inghilterra-India in 113 giorni (quaranta dei quali navigati a vela, 62 a motore e 10 trascorsi in porto).

Le navi iniziarono a crescere di dimensioni e la Great Eastern, varata 1859, sarebbe rimasta per quasi mezzo secolo la nave più grande del mondo con i suoi 211 metri di lunghezza. La propulsione era ancora mista, anche per ridurre il problema legato al trasporto di grandi quantità di combustibile (carbone).
Nel 1869 l’apertura del canale di Suez permise il vero salto di qualità nei viaggi Europa-Asia. La sua importanza strategica ovviamente faceva gola a molti; per quasi novant’anni esso rimase essenzialmente sotto il controllo europeo (francese e inglese), prima della nazionalizzazione decisa nel 1956 dal presidente egiziano Nasser. Tuttora il canale garantisce notevoli entrate all’Egitto, grazie ai pedaggi pagati per il suo attraversamento: nel 2019 esse sono ammontate a 5,3 miliardi di dollari; nello stesso anno (e quindi prima della crisi pandemica) la Suez Canal Authority (SCA) prevedeva che essere sarebbero salite a ben 13,2 miliardi nel 2023.
In passato questioni geopolitiche o belliche hanno implicato blocchi temporanei anche lunghi: in occasione della crisi del 1956 il canale fu chiuso per circa 5 mesi; tra il 1967 e il 1975 il conflitto arabo-israeliano ha determinato un blocco di addirittura otto anni. In tempi recenti vi sono stati vari incidenti a navi in transito, ma generalmente essi si sono risolti in poche ore, o al massimo due-tre giorni; si è trattato comunque di episodi risibili rispetto a un percorso ormai tendenzialmente sicuro, nell’ambito di un movimento globale enorme.
Per secoli, come abbiamo visto, il vento è stato elemento determinante per garantire il collegamento Europa-Asia: la sua forza ha garantito il successo dei viaggi, ma ha causato disastri, come i tanti naufragi. Anche la sua assenza, tuttavia, poteva essere deleteria. Nel corso del viaggio del 1503-04, sulla via del ritorno dall’India, le navi si ritrovarono bloccate nel golfo di Guinea per quasi due mesi a causa di una “calma equatoriale”: il fiorentino Giovanni da Empoli, che era a bordo di una delle navi, ricorda come delle 85 persone che erano con lui ben 76 morirono a causa della carenza di viveri e di acqua. I nuovi sistemi di propulsione sono stati concepiti proprio per non dipendere dai “capricci” della natura. A distanza di mezzo millennio, però, ci si è resi conto che il traffico globale è ancora vulnerabile.

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1 commento
L articolo cosi ricco di informazioni è estremamente interessante. Sarebbe bello nei giornali trovare questa qualità