“L’Italia ha un nuovo modo per combattere l’overtourism”, racconta Julia Buckley su CNN Travel. La giornalista descrive ed esalta “Uffizi Diffusi”, il progetto di esposizione di opere, conservate nel deposito degli Uffizi di Firenze, in diverse località in giro per la Toscana, che trasforma, come sottolinea l’inviata, “la regione più famosa d’Italia in un grande museo diffuso”. Idea suggestiva. Può essere trasferita e pensata anche per Venezia, per il Veneto? Può essere un modo per contrastare l’overtourism nella città dei Dogi? Oppure lascerebbe la situazione così com’è?
Ne discutiamo su ytali. Dopo il breve intervento iniziale di Paul Rosenberg, sono intervenuti Franco Avicolli, Franco Migliorini, Antonella Baretton, Francesco Erbani, Rebecca Ann Hughes. Qui di seguito l’intervento di Mario Santi.
[G. M.]
Nella situazione mondiale delle economie post pandemiche, Venezia è capofila di città (e territori) “vedove/i del turismo”. Una vedova che ha dei figli da sfamare – una popolazione privata della prima e quasi unica fonte – diretta o indiretta – di sostentamento.
Se ne può uscire in due modi.
Si può pensare (come fa il suo sindaco) che tutto possa tornare come prima: sempre più turisti, e tutti di nuovo a mungere la stessa mucca, senza accorgersi che forse non ha più latte…
O chiedersi se la seconda “aqua granda” e la bufera del Covid-19 non abbiano segnato la fine del turismo come monocoltura, cioè dell’unica prospettiva in campo fino a IERI.
Ed esplorare se ci siano altre risorse sulle quali puntare OGGI.
Parto da alcuni passaggi dei contributi che ytali ha recentemente pubblicato sullo specifico di un “turismo possibile”.
L’idea di base per il “nuovo turismo” è uscire dalla logica del selfie (come direbbe Marco d’Eramo) ed entrare con Francesco Erbani nell’ordine di idee di
indurre nel turista di passaggio una percezione diversa di Venezia, della sua storia, della sua forma e dei suoi saperi – città complessa e non la traduzione in 3D di una cartolina – sollecitandone la conoscenza.
Conoscenza che parta dalle risorse economiche produttive presenti in città. Franco Avicolli ci ricorda che
a Venezia è ancora attivo un nucleo significativo di aziende fra cui ricordo le vetrerie Cenedese, Barovier, Seguso, l’Atelier Nicolao, artigiani del legno come Saverio Pastor o nuove attività artigianali con alto contenuto tecnologico come Micromega Ottica; e non mancano albergatori e ristoratori consapevoli di operare nella qualità della città. Si tratta di protagonisti di successo che sentono il loro forte legame con il grande spessore culturale e storico di Venezia e ne temono la fine.
Per poi sostenere che
bisogna ricominciare, dalla pittura o dalla scultura e dall’architettura considerandole anche come attività, lavoro della materia, del legno o della pietra, del colore, del suono; (…) che fa grande Venezia e stabilisce anche la qualità civile della città.
Tutti gli interventi sono molti netti sul dubbio che il direttore della rivista affacciava, se cioè il “turismo diffuso (il riferimento è al progetto degli Uffizi – disseminare nella regione opere del museo tenute nel deposito) possa essere considerato utile anche per decongestionare calli e campi dall’eccesso di turismo.
Paul Rosenberg è sintetico e quasi brutale: L’approccio da “museo diffuso” può funzionare per spalmare i turisti, cedere loro sempre più spazi e territorio è anzi una
capitolazione totale all’overtourism e all’idea che il turismo non possa essere contenuto, regolato o controllato in alcun modo.
E Rebecca Ann Hughes richiama l’effetto aggiuntivo e non sostitutivo del “decentramento di opere”:
mi trovavo a Castelfranco ad ammirare la magnifica pala d’altare del Giorgione nel Duomo. Se si dovesse creare un breve itinerario che comprenda questa pala e altre attrazioni di Castelfranco, si potrebbe pensare che essa terrebbe lontani un po’ di turisti da Venezia per un giorno. Ma forse questo tipo di programmi si tradurrebbe semplicemente in un aumento del turismo complessivo nel Veneto.
Neanche Franco Migliorini ritiene che
la forma economica del overturismo urbano possa essere convertita attraverso la dispersione dello stesso nello spazio.
Anche lui pensa che la “diffusione di Venezia nel Veneto” avrebbe non un ruolo sostitutivo, ma aggiuntivo.
Per il quale a Venezia viene assegnata la funzione di brand e di apripista di una regione che ufficialmente si presenta al mondo come “The land of Venice”.
Marchio di qualità per un prodotto geograficamente esteso che si rivolge alla città come ad un grande hub turistico e infrastrutturale a disposizione di un vasto territorio aperto verso l’est, in particolare quello asiatico.
Ecco allora che bisognerebbe lavorare a una sorta di demarketing del brand Venezia, che nella uscita dalla pandemia possa dirottare la ripresa pilotandola verso visite di qualità basate su di un’offerta di servizi culturali che valorizzino il concetto esperienziale della visita, potendo pensare anche ad un ingresso del digitale come strumento di arricchimento della conoscenza di storia e patrimonio.
Il parere sembra in linea con Erbani, che però ritiene pure che
i programmi che vedono il patrimonio storico come prezioso “servizio pubblico”, per scopi relazionali, persino di cura (si pensi ai programmi fra musei e scuole, fra musei e associazioni, fra musei e carceri, fra i musei e i pubblici più prossimi ad essi…) vanno intensificati, dovrebbero contagiare l’intero sistema, e nelle città d’arte come Venezia attrarre una bella quota dei finanziamenti previsti per il dopo-pandemia, stimolando competenze, professionalità, occupazione e nuovi residenti.
Anche la lettura del problema dal punto di vista delle isole delle Laguna che fa Antonella Baretton a partire da Burano si muove su questa linea di pensiero.
Preso atto che le scelte in corso (vedi collegamento veloce con Tessera) sembrano indirizzare sempre di più alla trasformazione in un’unica struttura ricettiva “diffusa”, ritiene sia possibile ripensarla come isola dell’”arte diffusa”, a partire dal merletto.
E indica alcune soluzioni, facendo notare che (anche qui come nella città storica) ci sono risorse per uscire dalla dipendenza assoluta dal turismo “usa e getta”:
- far conoscere i manufatti artistici al di fuori del solo contesto museale dove ora sono “custoditi”;
- stimolare il recupero di un artigianato d’eccellenza, con un’attenta attività di promozione, valorizzazione e tutela dell’autenticità dei manufatti.
L’isola potrebbe tornare a rivivere come laboratorio diffuso, grazie proprio all’arte diffusa, esposta e replicata nelle sue botteghe.
Da qui la possibilità di allargare il discorso alle isole dell’intero sistema lagunare, ricorrendo a contratti di rete, aggregazioni di imprese, come strumenti per accrescere la competitività del mercato attraverso la realizzazione di progetti e obiettivi condivisi.
Si può allora concordare con la conclusione di Migliorini, per cui
non serve sempre più turismo, serve sempre più valore aggiunto nel turismo.
Si richiama perciò ai decisori politici,
perché risulta evidente che tutto questo non sarà certo l’inerzia del mercato a produrlo.

C’è dunque bisogno di scelte politiche a tutti i livelli di governo, dal nazionale al regionale al comunale.
L’occasione che la pandemia ha creato, da una parte mettendo in crisi un settore che sembrava dominante e dall’altra rendendo disponibili i finanziamenti del Recovery Fund crea un’opportunità “unica”.
Non si tratta di affrancare l’economia veneziana dal turismo. Piuttosto, questa disponibilità economica può essere un vaccino contro la monocultura, attraverso il sostegno e lo sviluppo di attività e lavoro “altro”.
Bisogna però capire se la comunità cittadina ha la forza e la voglia di realizzare quello che si configurerebbe come un difficile e rischioso passaggio di capo Horn.
Dobbiamo riflettere su cosa ci ha detto la pandemia e cominciare a costruire le condizioni della “riapertura”, che la campagna vaccinale e l’estate renderanno possibile.
Gli approcci possibili sono due.
Il primo è “tutto come prima”, tornare a un processo di finanziarizzazione delle città e del territorio in rapporto all’economia turistica.
Riaprire le porte al turismo di massa e tornare ad asservire la città (con laguna e hinterland) all’immagine di sé che la speculazione fondiaria e il modello estrattivista basato sulla rendita turistica le hanno imposto in questi anni.
Salvo aspettare di vederla crollare con la prossima, prevedibile pandemia. O forse, come ci abitueremo a chiamarla Sindemia, intesa come
l’insieme di problemi di salute, ambientali, sociali ed economici prodotti dall’interazione sinergica di due o più malattie trasmissibili e non trasmissibili, caratterizzata da pesanti ripercussioni, in particolare sulle fasce di popolazione svantaggiata.
Il secondo prende sul serio il messaggio dall’impressionante successione di cartelli che ti viene incontro se passeggi in tante parti di Venezia: “affittasi” / “vendesi” / “cessata attività”.
A me non danno l’impressione di una “difficoltà momentanea”, ma di una svolta epocale.
Viviamo infatti come in un “vuoto”, in una bolla di sapone oggi ancora sospesa in aria. Dovremmo pensare a come evitare di farci (troppo) male, quando scoppierà. E domandarci di quale paracadute dotarci…
Fuor di metafora, quella che possiamo fare è chiederci se ci sia un bagaglio di idee, progetti, azioni e percorsi per realizzarle.
In modo che l’uscita dalla crisi sanitaria si accompagni alla capacità di costruire una “transizione ecologica” per Venezia e per la sua Laguna.
Un progetto capace di contrastare le cause (mitigazione) e frenare gli effetti (adattamento) del cambiamento climatico.
Non un “greenwashing” di chi finge di cambiare tutto perché nulla cambi.
Forse l’occasione è offerta da una iniziativa cittadina promossa dal raggruppamento della Società della cura, che – dopo aver definito a livello nazionale un Piano di Transizione verso la società della cura – ha avanzato una proposta a livello locale.
Si parte proprio dal fatto che
Il nostro territorio pone delle questioni ambientali enormi e il modello di “brand turistico” che propone la gestione politica veneta e veneziana ha prodotto solo speculazione immobiliare, lavoro precario, isolamento dei cittadini con aggravamento della sperequazione nella distribuzione della ricchezza.
I problemi di inquinamento ambientale, di consumo di suolo e di crisi climatica si sono aggravati, mentre Venezia rischia la sopravvivenza nell’arco del secolo in corso.
La riconversione industriale di Marghera non si è mai compiuta e lo stesso settore produttivo rischia di essere sostituito “fisicamente” nella zona industriale dalle industrie galleggianti del turismo che sono le grandi navi, con ripercussioni ambientali sull’equilibrio morfologico della laguna, di sicurezza in una zona a grave rischio di incidenti, soggetta alle normative della Seveso-ter, con cambi di destinazione d’uso che favoriscono la speculazione immobiliare.
La città di Mestre si sta rivelando brutalmente un caso sociale in tema di spaccio di eroina, tossicodipendenze e sta perdendo quel poco di identità che negli ultimi decenni aveva cercato di ricostruire, tra problemi legati all’impatto dei centri commerciali, una mancanza di visione urbanistica, scarsa attenzione al verde pubblico e agli spazi di coesione sociale.
La risposta sanitaria risente dei tagli alle risorse pubbliche e delle privatizzazioni con un piano sanitario insufficiente.
Rispetto a questo quadro si propone
un modello diverso da quello “sviluppista” del consumo di suolo, dell’inquinamento e dello sfruttamento lavorativo.
Dichiarando esplicitamente di voler passare dai molti “no necessari” a dire “sì a cose diverse”.
E alla domanda “Da che parte sta il futuro?” si risponde “Scriviamolo insieme”.
Da qui ci si rivolge ai movimenti e alla società civile per avviare un “processo di convergenza”.
A partire dal chiedere
a tutti (e soprattutto ai giovani, che vengono chiamati in causa con lo strumento del Next Generation EU, un contributo per le rispettive competenze, maturate nelle lotte ambientali svolte sul territorio.
Questa ricchezza di contenuti andrà valorizzata in un unico documento che verrà presentato come lettera a tutte le sedi istituzionali deputate al processo sul Recovery Plan nazionale.

Non entro ora nel merito del documento che sta circolando nella vasta platea di soggetti coinvolti a livello locale, limitandomi ad allegarlo in nota, perché il suo carattere aperto solleciti “nuove entrate”. Se il Recovery Plan è finalizzato a una risposta alla crisi sanitaria che vada alle radici della crisi ambientale, se solo una vera transizione ecologica può salvarci, bisogna partire dall’ascolto di chi mette in campo idee e pratiche di lotta al cambiamento climatico, a livello globale e locale.
A partire dai giovani di Fridays for future e a dalla galassia ambientalista.
Per quanto sembri che né Regione Veneto né Comune o Città Metropolitana di Venezia se ne siano accorti, possono essere investite dalle idee, dalle proposte, dalle vertenze sulle quali i movimenti cercheranno di trovare una convergenza. Perché la cura venga prima del profitto. O, per dirla con il nostro presidente del consiglio, perché si abbia “un buon pianeta prima di una buona moneta”.
Dopo questo “annuncio” sarà utile seguire lo sviluppo di questo processo, perché è da qui che possono svilupparsi idee, forze, azioni che diano Venezia e al suo territorio un futuro nel quale il turismo è solo una delle attività. Che – come le altre – fa i conti con un quadro di sostenibilità ambientale e sociale.
Ma ora chiudo tornando al punto di partenza, con uno spunto che accompagni la necessaria elaborazione del lutto sulla morte per Covid della monocultura turistica.
Serve una visione capace di offrire – anche e soprattutto alle categorie che sono legate al settore in modo più “sano” – una prospettiva di “ripartenza” per il turismo.
Sappiamo che non deve (e non può) riprodurre quella monocultura che l’ha reso un corpo così ipertrofico e così vulnerabile.
In fondo siamo la città della Fenice, e siamo in grado di risorgere dalle nostre ceneri…

Per farlo voglio prendere in considerazione il punto di vista dei turisti.
Non di quelli che hanno massacrato Venezia, con transiti giornalieri (dalla terraferma o dal mare), e che si accontentano di portarsi a casa un selfie come prova da esibire dell’essere stati a Venezia. Un bollino in più nell’album del presenzialismo, più che del turismo, la prova di “avere” Venezia, non di essere stati a Venezia…
Assumo invece il punto di vista di quei turisti che non solo “sono stati” a Venezia. Ma che l’hanno vissuta e hanno maturato un rapporto capace di andare “oltre la carolina”. Con un’idea di città, da apprezzare e difendere in quanto tale, perché le sue bellezze possono essere godute non a prescindere, ma entrando in relazione con la sua economia e i suoi abitanti.
Cioè di chi ama Venezia anche perché ci sono i veneziani e le loro attività.
Non quelli che vendono chincaglieria – una ricordistica che può essere definita “a costo zero e a chilometro mille” .
Ma quelli che ancora fanno il pane, sfornano colazioni al mattino e ombre e cicchetti la sera.
Non i supermercati sorti come funghi in una città con sempre meno residenti per dar da mangiare al turista, ma qui pochi ristoranti dove ancora si trova un po’ di cucina realmente veneziana.
Non fantomatici proprietari di appartamenti trovati in rete e dei quali c’è solo da augurarci che ci siano veramente, ma l’albergatore che considera suo dovere aiutarti ad orientarti in città per guidarti nella visita.
Non le guide abusive e improvvisate ma le guide formate e abilitate.
Non solo le grandi mostre evento, ma le tante occasioni di entrare in contatto con la storia e la cultura della città, a partire dai suoi musei…
Non la chincaglieria fabbricata in Estremo Oriente, ma l’artigianato e le lavorazioni che hanno fatto grande Venezia e il suo territorio, d’acqua e di terra.

C’è un documento che “questi” turisti hanno preparato. Si chiama Lascia vivere Venezia ed è una sorta di manifesto-appello dedicato a chi visiterà la città che si apre con un incipit molto chiaro:
Esercita il tuo potere di turista per fermare lo sfruttamento di questo patrimonio mondiale dell’umanità!
E spiega come fare.
Il documento parte dalla constatazione che
Venezia ha bisogno di una comunità locale rigogliosa, di un ambiente sano e una laguna viva [… e che] questi sono in pericolo [per arrivare a dire che] alcuni cambiamenti negli atteggiamenti e nei comportamenti dei turisti, insieme a delle politiche governative migliori, possono raddrizzare le cose. Altrimenti, Venezia continuerà a subire lo spopolamento, l’indebolimento della cultura, la degradazione del suo patrimonio e la distruzione del suo ambiente straordinariamente fragile.
A queste parole fa seguito l’appello in sette punti che riguardano comportamenti attraverso i quali “i turisti attivisti possono fare la differenza”, con il richiamo finale:
se sei disposto a iscriverti o condividere tali azioni, sei il tipo di turista che Venezia desidera e di cui ha bisogno.
Vengono toccati punti decisivi per una “riconfigurazione del turismo”.
È considerata centrale la grande questione della sottrazione del patrimonio residenziale all’uso abitativo per i residenti per metterlo sul mercato della fittanze turistiche.
Si spendono parole come
Opta per ostelli, piccoli hotel o B&B a conduzione familiare o alloggi condivisi offerti da un proprietario residente che non conduce più di una proprietà o da in affitto il proprio appartamento per non più di novanta giorni all’anno […] Airbnb può negare l’alloggio alla comunità locale, aumentando i prezzi favorendo lo spopolamento.
Parole che pongono questioni delle quali dovrebbero far tesoro sia una amministrazione che sapesse ascoltare, sia categorie economiche attente la proprio futuro.

Non è meglio che la ricettività turistica (ri)assuma le forme “tradizionali” degli alberghi e che si lavori a incoraggiare i proprietari a rimettere sul mercato dell’affitto per i residenti una larga parte di quegli alloggi inopinatamente destinati a quel mercato turistico che oggi è venuto a mancare?
Non è opportuno pensare a politiche pubbliche attive di garanzia e incentivazione per i piccoli, ma anche di scoraggiamento fiscale, urbanistico e autorizzativo per i grandi proprietari immobiliari che hanno fondato sulla rendita speculativa legata al turismo i loro “investimenti” su Venezia?
Anche i consigli per la visita alla città configurano il “nuovo” tipo di turista sostenibile di cui Venezia ha bisogno e sul quale dovrebbe puntare per una gestione sostenibile di un turismo che sia parte importante, come è sempre stato, ma non esclusiva, com’era diventato negli ultimi anni, delle attività economiche cittadine.
Favorire le permanenze in città rispetto al “mordi e fuggi” escursionistico:
Visita per più di un giorno – diffondi la richiesta e rallenta. Visitatori giornalieri mordi e fuggi causano la maggior parte dei danni a causa della loro velocità e della loro eccessiva pressione sui “luoghi da vedere”. Rallenta, fai con calma, visita altri luoghi che non sono i “luoghi imperdibili” ma che sono altrettanto interessanti, pernotta, se possibile.
Ecco un turismo “dolce”:
Cammina e usa il trasporto pubblico – riduci i danni ambientali.
Venezia è per eccellenza la città dove si cammina. Visita la città a piedi per ridurre il rumore, l’inquinamento atmosferico e l’erosione della laguna.
Rispettoso dell’ambiente lagunare:
usa navi da crociera piccole ed ecologiche – aiuta a escludere le grandi navi da Venezia. Se vieni a Venezia in crociera, scegli una nave di nuova generazione, più pulita e più facilmente manovrabile.
E dell’assetto delle città:
Comportati come se fossi a casa di qualcuno – agisci con cortesia. Venezia non è un resort, né un’attrazione. Ci sono delle persone che vivono in questa città. (…) I residenti hanno bisogno di calma.
Si tratta di turisti che sono stati conquistati dalle valenze architettoniche, artistiche, ambientali e culturale di Venezia, ma che sanno che questa qualità è possibile se esiste una economia plurima che consenta alla città di vivere. Ed ecco allora l’invito forse più significativo:
Sostieni l’economia locale – finanzia gli artigiani, i negozi e i servizi del posto. Acquistare in zona sostiene la comunità. Cerca i negozi e i ristoranti locali e indipendenti. Artigiani e punti vendita tradizionali sono parte del patrimonio culturale di Venezia. Ingaggia una guida locale e visita la laguna.

In altre parole: c’è un turista che è entrato in relazione con la città, che ama Venezia per Rialto e San Marco, ma anche per le sue chiese diffuse e per i suoi angoli nascosti.
Che ama starci qualche giorno e camminare lentamente piuttosto che correre; magari visitare la laguna e comprare qualcosa legato alla tradizione e non le solite patacche; cui piacerebbe trovare bar e ristoranti che lo accogliessero…
Questa “figura” ci dice qualcosa su come possa essere un turismo in grado di ripartire, quando sarà possibile.
Sarebbe interessante fare di proposte come queste una prima base per aprire con le categorie economiche cittadine una riflessione sul possibile “turismo che verrà”, perché si muovono nella logica di una ripartenza sostenibile di molte attività legate al settore, ma più in generale delle attività artigianali e di servizio.
Sono probabilmente quelle che potrebbero fare di Venezia una città e non un parco turistico e (ri)mettere il suo patrimonio edilizio al servizio di abitanti – che hanno bisogno di case e servizi – e non di visitatori di passaggio, che si pensavano spremere e sfruttare perché tanto ne torneranno altri.
Bisogna chiedersi se questa prospettiva non sia migliore di una nuova corsa alla monocultura.
Ci sarà chi obietta che così “perdiamo occupazione e investimenti”.
Ma che occupazione e che investimenti?
Quelli legati alle Grandi navi, nuovi alberghi di lusso e nuovi ristoranti che occupano spazi nei quali la città avrebbe bisogno per organizzare i suoi servizi e la sua vita di relazione?
Quelli legati a intromettitori e guide abusive, produzione “cinese” di patacche, banchetti e commercio di strada, e via dicendo?
Ma questo è un mondo che (dai piani alti fino ai sottoscala sociali) ha costituito il blocco sociale attorno al quale una città e un territorio si sono illusi che il mondo fosse fatto di turisti e di capacità di spesa infinite. E che la rendita speculativa fosse un banchetto cui tutti potevano partecipare, anche se metteva insieme chi aveva i piatti migliori e chi raccoglieva solo briciole.

Oggi non è più così.
Oggi si gioca una partita con la quale si potrebbero riaprire strade nuove per una economia che volesse superare la monocultura turistica.
Proviamo allora a pensare se e come sia possibile una risposta diversa – anche a partire da una gestione del Recovery Plan che sia in linea con i principi di resilienza e lotta al cambiamento che l’Europa ha messo alla sua base e che verificherà prima di erogare i fondi.
A scommettere su un’idea di città che punti su investimenti e occupazione che possono portare la nuove attività legate alla sostenibilizzazione del turismo di una città e un territorio (Laguna e città metropolitana) con una economia plurale.
Ma su questo bisognerà tornare seguendo lo sviluppo di quel percorso avviato dalla “Società della cura” cui si è fatto cenno.
Servizio fotografico di Mario Santi

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1 commento
[…] Come ha scritto Mario Santi su ytali, il dibattito riguardo alla ricerca di una via da seguire per Venezia si sta surriscaldando. Siamo contenti che Il manifesto di Lascia vivere Venezia sia stato discusso come un contributo utile. […]