Tradizionalmente, il primo nella linea di successione è il vicepresidente uscente: dal 1960, infatti, quasi ogni vicepresidente che ha corso per la nomination del suo partito è riuscito a conquistarla. Ma con Donald Trump poco o nulla corre lungo i binari rassicuranti degli schemi che fin qui hanno scandito i ritmi e i modi della politica americana. Il 6 gennaio scorso, in occasione del drammatico assalto a Capitol Hill, Mike Pence, vicepresidente uscente, non solo ha dovuto darsela a gambe di fronte all’attacco della folla inferocita, aizzata dal suo presidente, che profanava il Campidoglio al grido di “Hang Mike Pence”, “Impicchiamo Mike Pence”. Quello sciagurato giorno il numero due di Trump, che per quattro anni ha sopportato ogni capriccio e bizza di The Donald, s’è visto incollare addosso l’etichetta del “traditore”. Un addio, o quasi, alle sue ambizioni presidenziali.
Una strada libera a trumpisti e “trumpini”, fedelissimi della prima ora o convertiti al credo del presidente lungo il cammino che ha relegato il Grand Old Party su pozioni sempre più di estrema destra. Il governatore della Florida Ron DeSantis, i senatori Josh Hawley, Tom Cotton, Ted Cruz, l’ex segretario di stato Mike Pompeo: sono loro i falchi che hanno difeso ciecamente The Donald, che hanno fatto propria la sua bugia, fomentando la rabbia di coloro che hanno voluto credere o che ancora credono che “l’elezione sia stata rubata”. E sono loro che ora fanno a gara, sorpassandosi a destra, per ottenere il titolo di delfino, per affermarsi come l’erede più o meno legittimo di un Trump che, nonostante tutto, non è mai uscito di scena e tiene al guinzaglio i suoi seguaci, pronto a scagliarli contro ogni forma di dissidenza. Mit Romney, Liz Cheney, perfino il fedelissimo Mitch McConnell hanno pagato a caro prezzo la loro disobbedienza.
E poi c’è ovviamente lui, Mike Pence, bollato come traditore dal movement di Trump, perché si è rifiutato di venire meno ai suoi obblighi costituzionali e non ha ha abusato del suo potere per impedire la certificazione di un risultato elettorale sgradito al presidente. Anche recentemente, quando a The Donald è stato chiesto di citare i suoi possibili successori, questo ha evitato di menzionare il nome di Pence. Segno che la ferita del 6 gennaio è ancora aperta, nonostante Pence dica di aver sentito il vicepresidente più volte nelle ultime settimane.

Intanto, in campo repubblicano la corsa verso le primarie del 2024 è ufficialmente cominciata, con Mike Pompeo che s’è già fatto vedere in Iowa e New Hampshire. Mike Pence, invece, è rimasto silenzioso dopo aver lasciato la Casa Bianca. Un silenzio che non significa necessariamente un’uscita di scena. Anzi, tutto fa pensare che stia preparando le carte per rigettarsi nella mischia.
In queste settimane, s’è avvicinato a varie fondazioni di stampo conservatore: la Heritage Foundation, uno dei più influenti think tank americani, della quale – si mormora – potrebbe diventare presidente, e la Young America’s Foundation, organizzazione che cerca di allargare la platea dei giovani interessati alle idee conservatrici. Pare poi che l’ex vicepresidente stia riflettendo alla possibilità di scrivere un libro, che abbia discusso molto con i suoi alleati evangelici – tassello indispensabile dell’elettorato repubblicano, e che sia intenzionato a spendere i prossimi due anni facendo campagna per i candidati repubblicani che si presenteranno alle elezioni di midterm del 2022. Più in generale cercherà di difendere i risultati dell’amministrazione Trump – sui quali può reclamare un’indubbia paternità, portando avanti quel lavoro di avvicinamento e fusione tra il movimento conservatore “tradizionale” e il trumpismo di cui è uno dei principali artefici.
Pence non ha quindi nessuna intenzione di farsi da parte. Anche se per il momento la benedizione di The Donald non arriva, l’ex vice-presidente si sta muovendo per mettere insieme il sostegno necessario a reclamare quello che gli spetta, almeno da un punto di vista di linea di successione.
Secondo gli alleati dell’ex vicepresidente, egli rappresenta l’erede “naturale” di Trump, capace di portare avanti le battaglie care ai supporter dell’ex presidente e, al contempo, di farlo con un tono più “riflessivo” e pacato, da uomo del Midwest qual è. I detrattori invece vedono in lui un politico senza carisma, che ha mantenuto un profilo relativamente basso durante la presidenza Trump, al punto che fu vittima di speculazioni secondo cui Trump non lo avrebbe voluto per un secondo mandato.
In ogni caso, molto dipende effettivamente dall’ex presidente, che conserva ancora una presa micidiale sul partito. Se questo continuerà ad additare pubblicamente il suo vice per la sconfitta di novembre, è possibile che Pence non provi neppure a essere della partita per il 2024.
Guai tuttavia a sottovalutarlo. In campo repubblicano, Mike Pence è un equilibrista senza pari. Basti pensare che nel 2016 sostenne Ted Cruz – principale avversario di Trump nelle primarie repubblicane, per poi agganciare il magnate newyorchese come running mate. Ora dovrà trovare un equilibrio tra la difesa dei risultati dell’amministrazione Trump, che metta in luce la sua fedeltà all’ex presidente, e una narrazione capace di giustificare agli occhi della base repubblicana il suo comportamento di inizio gennaio, quando si rifiutò di assecondare l’ostinazione con cui Trump insisteva sulle accuse di frodi elettorali.
Lo farà con quel fervore religioso che da sempre anima il suo impegno politico. Un fideismo non dissimile da quello che muove molti militanti repubblicani. Per l’uomo che s’è più volte professato «un cristiano, un conservatore, un repubblicano, in quest’ordine», un’altra vita (politica) è ancora possibile.

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