Qualche scoglio nel Mare del Nord di pertinenza tedesca, dove ancora oggi vivono un migliaio di eroi esposti al vento più feroce e implacabile del Nord Europa, ha fatto da sfondo alle impennate deliranti della mente di Werner Heisenberg che nel 1925, torturata dagli aghi di ghiaccio di quel clima, trovò riparo nella visione più geniale e risolutiva che si potesse elaborare, per dare forma e contenuto alla fisica quantistica che stava sbriciolando le certezze di Albert Einstein.
In quel punto della carta geografica prese origine un pensiero che ritiene, fondatamente, e comunque con un corredo di implacabili dimostrazioni matematiche, sempre del tutto casuale e occasionale la realtà del mondo, compresa la stessa isola che stava ospitando l’autore di tale mostruosa visione.
È questo il tema del libro Quando abbiamo smesso di capire il mondo, di Benjamin Labatut (Adelphi editore). Un libro che intreccia le vite di quei fisici che come elettricisti del creato, contemporaneamente, si trovarono a mettere mano al sistema elettrico dell’universo, non senza rimanerne in alcuni casi, proprio fisicamente, fulminati,.
Un libro avvincente che non vuole ruffianamente essere semplice ma riesce a reclamare l’attenzione del lettore fino alla sua conclusione dove, dopo continue vertigini nella contemplazione di equazioni e teorie, accompagna, placidamente il lettore alla visione finale di una soluzione sconvolgente e spiazzante della realtà del mondo che a quel punto appare la più naturale e sicura nella sua inimmaginabilità.

Siamo nel cuore di quel decennio che Wolfram Eilenberger descrive nel suo saggio filosofico Il Tempo degli Stregoni (Feltrinelli). Il secondo decennio del Novecento: dieci anni che hanno mutato radicalmente consapevolezze e certezze primarie a partire proprio dal concetto stesso di realtà spiegabile solo con la categoria del caso, di un caso matematico potremmo dire usando l’ennesimo ossimoro che rintracciamo in quei saliscendi della ragione.
Considerando i due testi in parallelo, intrecciandone informazioni, ragionamenti, diatribe ed effetti storici, ci sembra di trovarci in un videogame tridimensionale, in cui fisici e filosofi si sono davvero messi a giocare a dadi con Dio, per parafrasare l’aforismo proprio di Einstein. Uscendone vincenti, con soluzioni totalmente imprevedibili e arcane.
Le due esibizioni avvenivano su tavoli paralleli e separati, da una parte i filosofi che si contendevano la riorganizzazione delle ideologie, dall’altro i fisici che preparavano il mondo del futuro,quasi ignorandosi completamente, pur trovandosi spalla a spalla, anche fisicamente negli stessi alberghi e nelle medesime università, mentre ognuno dei due gruppi metteva mano, usando inconsapevolmente gli strumenti dell’altro, alla planimetria dell’universo.
Sarebbe davvero materia di uno straordinario docufilm ricostruire quel decennio, dagli anni Venti ai Trenta del secolo scorso, in cui per quanto facesse la voce grossa e scuotesse dalle radici l’intero mondo, facendolo tremare prima di riuscire poi a bruciarlo non certo metaforicamente, la politica appare sostanzialmente ancella, gregaria, mentre assiste largamente estranea al lavorio dei due gruppi di stregoni, quali erano fisici e filosofi, che stavano con le loro visioni e teorie, instabili e caotiche, minando prima le basi, per poi provocare direttamente l’eclisse del primato dei decisori politici, come oggi possiamo constatare.
Oggi possiamo proprio vedere in quelle diatribe elitarie e apparentemente salottiere, l’origine di quel disfacimento della dialettica politica che ci sembrava così dominante solo fino a qualche lustro fa.
Proprio quel lontano e oscurato decennio del secolo scorso , al di là della coincidenza numerica, sembra parlarci direttamente oggi mentre siamo in fondo al pozzo della pandemia e guardiamo alla scienza come unica ancora di salvezza.

Sotto i colpi di Covid 19, assistiamo alla sostituzione della decisione politica con un protagonismo diretto, senza mediazioni di scienza e tecnologia, che espandendo il proprio campo d’operazione dai laboratori e dalle aule universitarie alla vita quotidiana ,stanno sgretolando le ragioni e la rappresentatività di partiti e istituzioni proponendo in alternativa percorsi e procedure decisionali sempre più esterne alle tradizionali esperienze democratiche.
Un secolo fa, in quegli anni venti, mentre si caricavano le condizioni del successivo conflitto mondiali per quella che ritenevamo l’azione degli unici principi della storia che erano i grandi movimenti ideologici e sociali, la proprietà, il lavoro, il consumo, in ambiti ristretti, nel cono d’ombra di intime scelte di vita, pochi talentuosi individui si consumano nello sforzo di afferrare il senso più intimo dell’universo e delle sue logiche che vogliono dominare in lucidi disegni matematici , anticipando come il calcolo sia il linguaggio per trasformare e non solo interpretare l’intero scenario globale.
Potremmo dire che la società della conoscenza computazionale nasce proprio in quel decennio dove i filosofi smaterializzano gli interessi e i fisici sostituiscono la materia con il caos.
Solo un olandese, che vive ora in Cile, come Labatut, originario di una terra corsara e trasversale per sua natura, e residente in un mondo lontano dalla decadenza europea, può concedersi nella sua ricerca su quel periodo la freddezza di un anatomopatologo, per vivisezionare un pensiero aggrovigliato e ancora sottoposto alla soggettività di chi lo analizza, più che alla pretesa di chi lo elabora, per farcene penetrare l’origine e le conseguenze nella nostra vita.

Il suo libro mi sembra oggi una lama di luce che nel tunnel degli affanni pandemici ci permette di dare un senso alla navigazione nella caotica contaminazione in corso fra i saperi e la vita.
La pandemia ci ha imposto ora , dopo almeno due secoli di convivenza furbastra, in cui la politica contemplava la scienza come strumento principe del suo potere, ma se ne teneva lontano per non perdere il primato dei propri artigiani del potere, un connubio in cui, inevitabilmente, sulla macchinosa routine delle istituzioni sta prevalendo la frenesia dell’argomentazione scientifica, che attraverso dati e calcoli mette in mora ogni metafisica politica in nome di una fisica dei meccanismi primari delle particelle che compongono ogni oggetto della nostra vita.
E proprio mentre cerchiamo rifugio, sgomenti dinanzi alle contorsioni di un virus imprevedibile e irrequieto che sconvolge ogni nostro modello sociale, dall’urbanizzazione alla necessità di produzione, nella potenza di una pratica digitale che possa rassicurarci collegando la verità dei dati alla certezza del calcolo per ottenere con la potenza di misurazione di ogni cosa una pista per contrastare i comportamenti dell’epidemia, scopriamo che nulla di quel corredo è certo, tanto meno si conferma ad un’attenta verifica come vero, e infine risulta del tutto illusorio poterne misurare le variabili.
Siamo in quella sfera che Carlo Rovelli, nel suo testo intitolato proprio a Helgoland (Adelphi), scrive che la la fisica quantistica che riformula la vita come “una realtà fatta di relazioni prima che di oggetti. In cui la materia è rimpiazzata da fantasmatiche onde di probabilità”. Siamo governati dalla probabilità. Siamo noi che giochiamo a dadi con Dio.

Se vogliamo una nuova autorità che ci dia certezze e primati verrebbe da dire “non c’è trippa per gatti”.
Dobbiamo faticosamente ricostruire procedure e saperi per adattare un universo senza inizio e senza ragione che nelle sue infinite combinazioni occasionali, esattamente con i vaccini con il nostro corredo genetico, genera reazioni e soluzioni del tutto imprevedibili.
La società liquida che ci ha descritto Baumann, dove gli individui si incontrano e scontrano ad ondate secondo occasionali ritmi di maree sociali, e non più per grandi faglie tettoniche che spingono i continenti, quali sono le grandi classi sociali del secolo scorso, a contrapporsi verticalmente, nasce proprio in quel decennio degli stregoni, in cui fisica e filosofia si trovano separatamente a dare forma ad un universo probabilistico, senza il sole della certezza. Quel che ci accade oggi ha avuto un’incubazione di un lungo secolo dove abbiamo avuto l’opportunità di collaudare una realtà che non era e non sarà mai così materialmente certa come l’abbiamo sempre descritta per pura comodità amministrativa.
In questo caso non sarà certo una casualità il modo in cui in quegli anni gli stregoni fossero tutti di cultura tedesca e di frequentazioni svizzere.
Da una parte i filosofi, Wittgenstein, Heidegger, Benjamin e Cassirer si confrontano attorno all’evanescenza del destino umano che proprio Ludwig Wittgenstein esemplifica con la sua contrastatissima tesi di dottorato nell’aforismo iniziale : il mondo è tutto ciò che accade. Aprendo uno spazio inedito fra il soggettivismo spirituale della destra idealista e la dialettica della storia della sinistra marxista.

Dall’altro versante, quattro fisici, che si trovano a ballare attorno alla teoria della relatività di Einstein per forzarne ulteriormente i limiti come Karl Schwarzschild, Erwin Schrödinger, Luise de Broglie e, appunto, Werner Heisenberg che ci accompagnano sul ciglio del burrone da cui affacciarsi sull’orrrido dei quanti che tanta incertezza iniettano nella nostra vita. I primi ligi alla regole della rigida accademia di cui cercano la copertura in ogni modo, dall’altro i secondi del tutto sregolati e folli che testimoniamo con la propria vita sempre oltre il limite una visione del mondo che prescinde sempre dal presente. Snodo che ci porta oggi anche per profani come me a cogliere il nesso fra complessità di una teoria e suoi effetti concreti la comune determinazione che nella fisica dei quanti l’oggetto osservato interagisce e si modifica per l’azione che esercita l’osservatore, creando figure e opportunità sempre inedite in qualsiasi ricerca ed esperimento.
A unire questi moschettieri dei quanti, oltre la cagionevolezza di salute a conferma che il genio non è mai gratuito, abbiamo detto, la comune matrice germanica che rende la decadenza dell’impero tedesco, dopo la prima guerra mondiale una straordinaria fucina per l’intero mondo occidentale e, casualità nella casualità, una comune quanto mai non coincidente, frequentazione degli alberghi di Davos, a conferma che in ogni versione il potere supremo trova sempre una propria topologica identità. Allora come oggi i leader dell’economia e della finanza, affidano proprio alla cittadina vacanziera svizzera il testimonial della propria comunità.
Centrale nel libro è il riferimento allo strumento dell’equazione come forma di concentrazione del pensiero: si parla, si comunica, si battaglia a colpi di equazioni.
Ognuno dei nostri campioni ne elabora di ardite e visionarie arrivando, nella conclusione del libro, in cui Heisenberg, che ne esce vincitore, spiega ad un allibito e per una volta muto Einstein che:
la fisica non deve più preoccuparsi della realtà ma di quello che si può dire della realtà. Gli atomi e le loro particelle vivono in un mondo di potenzialità, non sono cose ma possibilità. La transizione dal possibile al reale avviene solo durante l’atto dell’osservazione e della misurazione. Nessuna realtà quantistica esiste dunque in maniera indipendente.
A noi oggi comprendere se questa sciamanica visione di un presente sempre legato al momento e indotto solo dalla sua misurazione sia un limite invalicabile al potere di calcolo che non può certo disporre di realtà ma solo di cronache di un momento passato mentre calcola oppure sia la ratifica del suo dominio come unico titolare di un’azione capace di vedere anche solo per un istante quel che è reale.


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