Russia, criticità e prospettive. Parla Fabrizio Zucca

In uno scenario problematico, s’afferma una volontà di cambiamento sempre più forte, a più di vent’anni dall’ascesa al potere del presidente Putin. Per un’analisi della situazione e dei suoi sviluppi nel breve e medio periodo abbiamo intervistato il presidente di Strategia & Sviluppo.
ANNALISA BOTTANI
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Crollo dei redditi, contrazione del PIL, svalutazione del rublo, prezzi in aumento e peggioramento del tenore di vita. Queste sono solo alcune delle criticità che molti cittadini russi affrontano ogni giorno in un contesto socioeconomico la cui evoluzione non è ancora chiara. Ed è proprio questo scenario, oltre all’arresto di Alexei Navalny, che ha spinto decine di migliaia di persone a protestare in piazza tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio di quest’anno. Una volontà di cambiamento sempre più forte a più di vent’anni dall’ascesa al potere del presidente Putin. 

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Per capire le prospettive che caratterizzano il Paese nel breve e medio periodo abbiamo parlato con il Professor Fabrizio Zucca, Academic Fellow presso SDA Bocconi School of Management, membro del Comitato Scientifico dell’Istituto Eurispes, Business Development Advisor Italy, per quattro anni, presso la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo – BERS e fondatore, nonché presidente della società italiana Strategia & Sviluppo.  

Fabrizio Zucca

Nel 2020 il PIL ha visto una contrazione del 3,1 per cento, i proventi derivanti dal petrolio e dal gas si sono ridotti di un terzo, mentre il rublo continua a svalutarsi. Qual è, a suo avviso, lo scenario complessivo? Vi sono margini di ripresa?
Lo scenario economico, se parliamo di Russia, deve essere analizzato congiuntamente a quello del mercato del petrolio e del gas, valutando le modalità di influenza di queste risorse naturali sulla formazione del reddito nazionale. Nel 2020 la contrazione del PIL è stata del 3 per cento circa. Stando ai numeri, la contrazione è stata inferiore a quella attesa in molti Paesi occidentali (in Italia, ad esempio, siamo all’8,9 per cento, secondo l’Istat). In apparenza, sembra, dunque, che l’economia del Paese abbia retto meglio di molte altre, penso, principalmente, a causa di due fattori: da un lato, la composizione stessa del PIL e dall’altro, un differente approccio culturale e politico. Nel corso del 2020, malgrado la caduta del prezzo del petrolio, la Russia è stata in grado di mantenere alti i livelli di estrazione con una quota soddisfacente di entrate derivate. Il sistema, quindi, soprattutto nella prima parte del 2020, ha retto meglio rispetto ad altri Paesi. 

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Il fattore gas e petrolio, probabilmente, sosterrà l’economia anche negli anni immediatamente successivi alla pandemia grazie alla ripresa economica e, dunque, ai consumi di gas e petrolio e ai relativi prezzi (già oggi il barile è quotato attorno a 60 dollari, quasi il doppio dei minimi raggiunti nel 2020). A tale proposito, va ricordato che il budget pubblico, da cui dipendono gli investimenti, è formato al 60 per cento circa dai proventi delle materie prime, mentre le imposte (pagate per lo più dalle grandi aziende) rappresentano un residuale 35/40 per cento. Questo fattore costituisce una peculiarità atipica per un Paese con un’economia e una demografia vasta come la Russia e crea, quindi, implicazioni di natura differente rispetto, ad esempio, ai Paesi occidentali. In questi ultimi, infatti, sono le imposte a finanziare la spesa.

Finché la domanda per le risorse naturali si manterrà sufficientemente elevata e il prezzo non subirà contrazioni, la Russia manterrà una certa capacità di investimento e, dunque, di crescita del reddito. La criticità principale è legata all’individuazione degli ambiti verso i quali saranno indirizzati gli investimenti. In parte, dovranno essere indirizzati al settore del gas e del petrolio per poterne mantenere la capacità produttiva, in parte, probabilmente, confluiranno in progetti infrastrutturali di cui la Russia ha estrema necessità. Verosimilmente, quindi, una quota ridotta andrà al segmento delle PMI o a quello privato in quanto rappresenta una percentuale minoritaria del sistema economico del Paese. Questo fattore fa sì che la Russia continui a dover importare una grande quantità di prodotti, sia di consumo sia tecnologici da utilizzare nel sistema industriale. Tale dinamica è ben rappresentata dall’andamento dell’interscambio tra Russia e Italia, in cui si nota, in modo evidente, come la riduzione sia dovuta all’effetto prezzo/volumi nel settore delle materie prime che ha compresso il valore dell’export russo rispetto all’importazione italiana costituita da manufatti e prodotti agroalimentari. 


A differenza del passato, in questa fase, la criticità che caratterizza le materie prime energetiche, almeno nel breve periodo, non è la scarsità. Va, quindi, considerato che all’interno dell’Opec+ vi è disaccordo sulla strategia da adottare per cui l’Arabia Saudita (che ha un prezzo di estrazione molto basso) ha tagliato la produzione per poter aumentare la marginalità, mentre la Russia l’ha aumentata, in parte per mantenere un elevato livello di introiti derivati, in parte perché un prezzo troppo elevato renderebbe più competitivo il gas americano, lasciando maggior spazio all’export degli Stati Uniti. Per completare lo scenario sarà anche necessario vedere a che velocità la corsa alla green economy potrà modificare in modo strutturale la domanda di combustibili fossili. 

Pozzi petroliferi in Siberia

In Russia vi sono circa venti milioni di poveri, mentre nel 2020 i redditi reali sono crollati del 3,5 per cento, facendo registrare un decremento del 10 per cento rispetto a sette anni fa. Dal 2014 al 2017 anche gli standard di vita hanno visto una riduzione del 12 per cento circa e, dopo essere rimasti invariati nel 2018 e nel 2019, hanno subito nuovamente un declino nel 2020. Si può determinare l’impatto di tale scenario sulle singole classi sociali e sulla popolazione russa che ha espresso il proprio malcontento durante le proteste di gennaio e febbraio?
La Russia è uno dei Paesi caratterizzati da un indice di Gini tra i più elevati al mondo, ma il problema non si limita alla concentrazione assoluta della ricchezza. Infatti, a questa si deve aggiungere una disparità sostanziale nel reddito tra le grandi città come Mosca o San Pietroburgo e le città più piccole o la campagna e anche nelle grandi città, tra il centro (o le zone più ricche) e la periferia. Un indicatore che forse rispecchia meglio il fenomeno è il reddito mediano che, in parte, riesce a tenere traccia delle differenze tra i vari segmenti della popolazione. Negli ultimi anni, in generale, i salari nominali in rubli non solo non si sono mantenuti, ma sono spesso diminuiti in valore assoluto. Il fenomeno di riduzione non è stato combattuto con forza, anche perché, considerate anche la presenza rilevante dello stato nella gestione dell’economia e la dipendenza notevole dai prezzi delle materie prime (pagate in valuta pregiata), la riduzione del valore nominale e la svalutazione del rublo hanno creato le condizioni per poter mantenere occupato un numero più elevato di persone. 

La politica di contenimento della dinamica salariale è stata anche affiancata da una politica di sostituzione nei consumi. Ad esempio, nel settore primario si è assistito alla crescita di quanto viene prodotto in Russia. Nel settore agricolo, anche grazie alle sanzioni su alcuni prodotti di importazione, il governo è riuscito a far decollare la produzione dopo molti anni di stagnazione, sostenendo, come dicevamo, una strategia di sostituzione delle importazioni e, più recentemente, una strategia orientata all’export. Le esportazioni agricole russe sono aumentate del 150 per cento e hanno totalizzato 25,6 miliardi di dollari alla fine del 2019 rispetto ai 16,8 miliardi di dollari nel 2013. Vi è stato un aumento significativo delle forniture di carne, dei prodotti a base di grasso e olio e dei prodotti dell’industria alimentare e di trasformazione all’estero (la Russia è tra i principali fornitori di grano, olio vegetale, pesce, zucchero e molte altre categorie). In generale, dal 2014 al 2019 la crescita effettiva della produzione in agricoltura è stata del 119 per cento, gli alimenti hanno visto un incremento del 131 per cento e le bevande del 105 per cento.

La Russia è leader nella produzione di grano

Il crollo del rublo e dei salari nominali ha sicuramente ridotto il potere d’acquisto soprattutto delle classi che acquistavano beni di importazione. Parliamo delle classi medie urbane che sono andate in piazza a manifestare e che stanno subendo maggiormente la crisi perché fino a poco tempo fa, comunque, il loro livello di reddito consentiva di viaggiare spesso, potendo contare su un buon tenore di vita, alla luce anche della bassa propensione al risparmio, soprattutto tra i giovani. 

Se, invece, si osservano le classi meno abbienti che vivono nelle periferie delle città o nelle città più piccole e nei paesi, l’effetto della crisi ha avuto un impatto relativamente più modesto perché anche prima della pandemia il livello dei redditi non era molto elevato e il paniere dei beni comprati era composto, prevalentemente, da beni di sussistenza primaria, di origine o russa o cinese, o, comunque, da prodotti a basso prezzo.

In termini mediani, quindi, la crisi ha avuto un impatto limitato su una fascia rilevante della popolazione, in termini di numero di abitanti. Da una parte, infatti, i ricchi sono rimasti ricchi e, probabilmente, potendo eventualmente contare su entrate in valuta pregiata, sono diventati ancora più ricchi. D’altronde, chi aveva già un reddito minimo e un paniere di consumo prevalentemente orientato alla sussistenza non ha subito una particolare contrazione del suo reddito. L’impatto più forte l’hanno subito i professionisti, i cittadini con reddito da lavoro dipendente, i manager di categoria medio-bassa e i piccoli imprenditori, ossia una fascia che, rispetto alla popolazione russa complessiva, non è maggioritaria. È chiaro, però, che il protrarsi di questa tendenza e della crisi, che in modo più o meno strisciante sta caratterizzando l’economia russa, in questi anni potrebbe portare a effetti rilevanti anche nel segmento dei redditi più bassi, estendendo potenzialmente il malcontento.

Per contrastare il disagio della popolazione sono stati introdotti dei limiti da applicare ai prezzi al dettaglio. Secondo un’analisi di Bloomberg, la Russia, insieme a Brasile, Nigeria, Turchia e India, rappresenta “uno dei luoghi più popolati del pianeta in cui il costo del cibo costituisce la quota maggiore del paniere dei prezzi al consumo”. In base alle previsioni, i prezzi dovrebbero subire un ulteriore rialzo. Le autorità, tuttavia, escludono una possibile carenza di prodotti nei supermercati del Paese. Qual è la sua valutazione in merito e, soprattutto, quali possibili interventi possono essere attuati dal governo?
Concordo con l’analisi di Bloomberg. Al di fuori delle grandi città e di una classe urbana particolarmente benestante, il resto della popolazione ha sempre potuto disporre di un reddito relativamente basso, speso, prevalentemente, in generi di prima necessità. 

Il controllo dei prezzi al consumo può essere una strategia utile nel breve termine, ma non si può replicare all’infinito perché impone di sussidiare il costo dei prodotti più cari pesando sul bilancio dello stato.

Un supermercato a Mosca

Come ho già accennato in precedenza, la composizione del reddito nazionale (derivante per lo più dallo sfruttamento delle materie prime) permette il sussidio senza pesare in modo diretto e immediato sul sistema fiscale, ma sottrae risorse dagli investimenti e, quindi, in un Paese che importa la maggior parte dei beni manufatti e dei macchinari rischia di bloccare la parte più virtuosa della spesa. 

La politica di sostituzione punta a rendere sostenibile il consumo di prodotti interni che dovrebbero essere acquistabili a prezzi più bassi, ma, escludendo le classi più agiate, il paniere dei consumi era già orientato a beni di produzione interna e, quindi, il margine di manovra in questo caso potrebbe non essere molto elevato.

Per quanto concerne l’eventuale carenza di prodotti nei supermercati, non credo che rivedremo situazioni come nei primi anni Novanta. Il prodotto per il quale vi è domanda continuerà a essere disponibile per chi se lo potrà permettere, mentre nelle zone a reddito più basso saranno, comunque, disponibili i prodotti di uso comune e quelli prevalenti nel paniere di consumo locale, salvo che non si decida di introdurre una politica di divieto all’importazione di alcuni beni. Ma non credo si arriverà a questo tipo di strategia. 

La Russia si posiziona al quinto posto nel mondo per numero di contagi da COVID-19 (oltre 4,5 milioni) e presenta uno dei più alti livelli di eccesso di mortalità. La pandemia ha certamente aggravato problematiche preesistenti, ma qual è la sua reale incidenza sul contesto economico del Paese e quali sono i settori che sono stati colpiti maggiormente?
La pandemia è stata gestita in modo diverso rispetto a quanto avvenuto in Italia. La fase di lockdown rigido che è stata applicata anche in Russia in corrispondenza della prima ondata non è stata seguita da altre fasi di lockdown rigido per diversi motivi: inizialmente, il “referendum” costituzionale di luglio e, in seguito, l’impossibilità di chiedere alle persone di rimanere a casa in assenza di una vera e propria politica di sussidi e risorti che non consentivano, soprattutto nelle grandi città, di astenersi dal lavoro. Non dimentichiamo che la Russia non ha mai invocato lo stato d’emergenza, decidendo, invece, di prevedere un mese di ferie obbligatorie e tenendo, dunque, i dipendenti sul libro paga delle aziende piuttosto che pesare sul bilancio pubblico. 

La scelta di mantenere limitate le chiusure totali è frutto di una decisione politica legata a diversi fattori: il modello economico, il territorio e anche aspetti di tipo culturale.

Come abbiamo già accennato, senza una politica di sussidi reale era fortemente in dubbio la possibilità per molti cittadini di avere un reddito che consentisse loro di vivere in assenza di un lavoro. Un territorio così vasto, scarsamente popolato e con una mobilità delle persone non particolarmente elevata ha, di fatto, favorito la concentrazione del contagio nelle due città più grandi (Mosca e San Pietroburgo), mentre il fattore culturale è legato alle aspettative delle persone. In Italia l’atteggiamento verso le malattie e la morte è estremamente radicale. Lo si è visto anche in concomitanza con la somministrazione dei primi vaccini: anche se è scientificamente provato che i vaccini portano più vantaggi che svantaggi, non appena si è assistito all’insorgere delle prime reazioni avverse, peraltro statisticamente prevedibili nell’ambito di una vaccinazione di massa come questa, si è sollevato il panico mediatico. In Russia questo atteggiamento è meno marcato poiché prevale l’abitudine a essere fatalisti. L’impatto economico diretto, quindi, è stato inferiore rispetto a quello che stiamo sperimentando in Italia. Anche il mondo dell’ospitalità e del turismo ha sofferto limitatamente alle presenze internazionali che in Russia non rappresentano una quota importante dei ricavi di settore, se non in città come Mosca e San Pietroburgo. Va, però, detto che il blocco delle frontiere che ancora Mosca mantiene sta logorando molti imprenditori esteri che, nel tempo, avevano sviluppato attività in Russia e non è detto che nel medio periodo questo non abbia un impatto anche sul mercato interno.

Parlando di COVID, è inevitabile soffermarsi sulla valenza strategica, in termini geopolitici ed economici, del vaccino Sputnik V, ancora in fase di revisione da parte dell’EMA – European Medicines Agency. Secondo il Russian Direct Investment Fund, ad oggi sono cinquantanove i Paesi che hanno registrato il vaccino. Gli accordi per la produzione su licenza potrebbero essere uno strumento per esercitare nuove forme di soft power e ottenere un vantaggio diplomatico, muovendosi in uno spazio “abbandonato” a causa della carenza di forniture dei vaccini prodotti dall’Occidente. Si può effettuare una stima dei vantaggi economici?
Sicuramente lo sviluppo del vaccino è stato da subito interpretato in maniera politica dalla Russia. Anzi, la campagna mediatica è cominciata dall’inizio della pandemia. Se ripercorriamo gli eventi, si può notare come già all’inizio, sfruttando il ritardo che ha caratterizzato lo sviluppo della pandemia nel Paese, siano state fatte circolare notizie su medicinali miracolosi e non solo. La politica di supporto ai Paesi più colpiti (ad esempio, quella adottata con l’Italia) è stata parte di una forte strategia mediatica fino all’annuncio del vaccino ad agosto prima ancora di aver iniziato la terza fase di sperimentazione clinica. 

Prima di fare un annuncio così importante sarebbe stato necessario rispettare i numerosi protocolli per la sperimentazione e i trial clinici che prevedono che la sperimentazione stessa debba essere fatta in più Paesi, tra più segmenti della popolazione, mentre il vaccino russo è stato sperimentato solo in una determinata area e sotto il controllo della medesima autorità. Detto ciò, è un vaccino molto simile a quello di Pfizer e l’istituto di ricerca Gamaleja che l’ha sviluppato è caratterizzato da un profilo scientifico molto elevato. Dunque, credo che nella comunità scientifica nessuno ritenga che questo vaccino sia falso o non sia efficace. Tuttavia, la preparazione e la vendita nelle dosi annunciate aprono non pochi interrogativi.

Ambulanze in una giornata di emergenza acuto per la pandemia Covid-19

La Russia non ha gli impianti adatti alla produzione massiva di vaccini e per iniziare la produzione in impianti all’estero è necessario effettuare degli investimenti non irrilevanti. Da questo punto di vista, il primo problema è chi sosterrà questi investimenti, se il produttore che ha preso in licenza il brevetto, il fondo sovrano russo o entrambi in forma variabile e complementare. Se sarà il fondo a sostenere i costi di investimento, sarà chiaramente un segnale politico importante, mentre, in caso contrario, sarà necessario garantire il volume delle dosi e i prezzi per determinare un profitto per i produttori. A questo si aggiunge il fattore temporale. Per la riconversione di impianti sono necessari 8-10 mesi: questo implica che, verosimilmente, gli impianti in Europa non saranno in grado di iniziare la produzione prima di fine anno. Se EMA e AIFI, nel frattempo, avranno dato le relative autorizzazioni, il vaccino russo sarà reperibile a fine 2021-inizio 2022 e sarà in competizione con tutti quelli che già sono sul mercato ora e quelli che saranno approvati nei prossimi mesi. Secondo me, quindi, la principale criticità sarà collegata ai prezzi. 

Se Sputnik V non sarà reperibile sul mercato in quantità elevate nei prossimi quattro – cinque mesi, si troverà a competere in una fase caratterizzata da elevata produzione e quindi, da un eccesso di offerta. Le società che hanno veramente fatto l’affare e che, economicamente, avranno un forte impatto sono le prime che sono arrivate sul mercato: Pfizer, AstraZeneca e Johnson & Johnson. Ne seguiranno altre in futuro che potranno sicuramente averne una quota, tra cui probabilmente anche Sputnik. È anche vero che questo virus rimarrà in circolo per altri anni, quindi, la vaccinazione dovrà essere ripresa ogni anno, come avviene per il vaccino influenzale. In questo caso si tratterà di un prodotto che, nel migliore dei casi, dovrà competere con tutti quelli già immessi sul mercato e non potrà avere un’elevata quota di mercato e nemmeno un’elevata marginalità. In conclusione, se l’effetto mediatico è stato sicuramente di forte impatto, non vedo un effetto economico particolarmente rilevante per la Russia, quanto un costo per poter esercitare un efficace soft power vaccinale. 

Un altro elemento che va sicuramente a influire sullo scenario economico russo sono le sanzioni. Ricordiamo che dopo l’annessione della Crimea era stato imposto un primo pacchetto, cui si sono aggiunte, di recente, nuove misure restrittive di carattere finanziario, definite congiuntamente da Stati Uniti e Unione Europea (in tale ambito l’Unione ha applicato per la prima volta il Magnitsky Act), che colpiscono alti funzionari russi collegati all’avvelenamento e all’arresto dell’oppositore Alexei Navalny, tra cui, ad esempio, il Direttore del Federal Penitentiary Service Aleksandr Kalashnikov, il Direttore dell’Fsb Aleksandr Bortnikov e quello della Guardia Nazionale Viktor Zolotov, solo per citarne alcuni. Rientrano nella lista del Dipartimento del commercio americano anche 14 entità legate alla produzione di armi chimiche e biologiche in Russia. Ulteriori sanzioni sono state comminate in considerazione della violazione del Chemical and Biological Weapons Control and Warfare Elimination Act del 1991.
Tali decisioni hanno causato disappunto tra analisti e oppositori del Cremlino in quanto queste sanzioni colpiranno figure dello “staff” di Putin, ma non i suoi referenti più stretti, tra cui, ad esempio, i noti oligarchi che controllano le più importanti aziende del Paese.
Anche alla luce di quanto avvenuto dopo il 2014, concorda con questa visione oppure ritiene che le recenti sanzioni potranno avere un impatto reale sul Paese?
Le sanzioni ad personam, secondo me, hanno un impatto marginale sul Sistema Paese. Sicuramente hanno un effetto segnalatore, di annuncio, ma tranne pochi casi non impediscono lo sviluppo di normali transazioni tra i Paesi. Inoltre, verosimilmente, si tratta di personaggi che hanno da molto tempo attività e fondi all’estero e che, oggi, avranno già messo in sicurezza.  

Di diversa natura, invece, sono le sanzioni del 2014, che hanno avuto il loro peso in quanto hanno colpito, in maniera seria, settori come l’oil & gas e quello finanziario, così come le controsanzioni imposte dalla Russia che hanno colpito una serie di settori, determinando un effetto interno ed esterno, anche se direi ambiguo. Sanzioni e sussidi, infatti, sono stati utilizzati per cercare di far sviluppare alcuni ambiti che in Russia non si riusciva a far decollare, come, ad esempio, quello agroalimentare. 

Al momento la minaccia più elevata è legata a potenziali nuove sanzioni su progetti come il Nord Stream 2. Queste, in realtà, avrebbero un impatto geopolitico non indifferente. Va, però, ricordato che ormai quello del gas è un mercato dell’offerta. La domanda si limita a scegliere il fornitore che ha il prezzo più conveniente e il formato più semplice e, quindi, il gas che arriva tramite i gasdotti dalla Russia può essere messo in competizione con il gas liquefatto proveniente dagli Stati Uniti. E spesso è solo una questione di prezzo.

L’evoluzione delle fonti alternative porterà nel tempo a un’ulteriore riduzione della domanda e il mix sarà sempre più determinato dalle condizioni di estrazione e di trasporto per cui nella domanda futura sarà importante il livello di sostenibilità del gas, inteso come esternalità dei costi di estrazione e trasporto. Su questo la Russia spesso è stata meno competitiva rispetto ad altri produttori. 

Lavori per il Nord Stream 2

Si tratta di un elemento importante se si considera che, nella fase attuale e soprattutto in Europa, i grandi operatori finanziari prestano maggiore attenzione a questo fattore e che, sempre di più, si sta riducendo il livello di sussidio al settore dell’oil & gas, ancora fortemente presente in molti Paesi come, ad esempio, l’Italia. 

Per quanto riguarda le sanzioni legate all’utilizzo di armi chimiche, vi sono ovviamente accordi che ne vietano produzione e utilizzo sia all’interno del Paese (caso Navalny) o all’esterno del Paese (i casi nel Regno Unito). La Russia ufficialmente non ha mai ammesso di aver fatto utilizzo di sostanze chimiche come il novičok o di aver commesso le azioni che le vengono attribuite. In questi casi le sanzioni vengono decise e comminate perché, da un punto di vista univoco, si decide che sia la scelta giusta, a volte utilizzando prove indiziarie. Credo sia una situazione molto diversa da quella che ha portato all’introduzione delle sanzioni per l’invasione dell’Ucraina.  

Michail Vladimirovič Mišustin, primo ministro della Federazione Russa

Passiamo ad analizzare le strategie governative.
Secondo l’analista Tatiana Stanovaya, nel 2020 Putin ha deciso di delegare aspetti cruciali della gestione dello stato, escludendo il referendum costituzionale, a differenti interlocutori. Il governo è, ad esempio, responsabile dell’economia. Inizialmente il primo ministro Michail Mišustin si era posto obiettivi innovativi e nuove priorità, dalla digitalizzazione alla deburocratizzazione, dalla modernizzazione dell’economia all’aggiornamento del modello di governance. Tuttavia, secondo alcuni analisti, il governo non è stato all’altezza delle aspettative, e non solo a causa della pandemia. A suo avviso, come si sta muovendo in questa fase Mišustin?
Quando era stata ipotizzata, questa riforma sembrava dover dare un peso maggiore al governo rispetto a quanto avvenuto finora. Tuttavia, nei mesi scorsi, a Mosca molte decisioni importanti e necessarie per contrastare la pandemia sono state prese dal sindaco e non dal governo, secondo uno schema di governance differente. La sensazione è che, proprio a causa della pandemia, l’obiettivo sia stato quello di tentare di “tenere un po’ al riparo e defilato” il governo in modo da evitargli danni in termini di popolarità. A maggior ragione lo stesso comportamento è stato tenuto con il presidente: infatti, tutte le decisioni di chiusura sono state prese formalmente dai governatori. Bisognerà capire cosa succederà a mano a mano che la situazione si andrà stabilizzando e la fase acuta della pandemia sarà superata. 

Il referendum e la strategia che allora veniva delineata dovevano essere finalizzati a garantire la presenza di Putin anche oltre questo mandato in modo po’ più soft per iniziare a capire come impostare la successione, ma al momento è molto difficile prevedere l’eventuale evoluzione perché la pandemia è come se mantenesse tutto “in sospeso”. Il problema, tuttavia, è reale, se venisse a mancare la persona di riferimento: in un sistema come quello della Russia di oggi vi sarebbe un forte pericolo di implosione. L’individuazione, quindi, di un metodo per sfumare questo passaggio è sicuramente un fattore molto importante per riuscire a mantenere o per determinare il minor impatto in termini di cambiamenti nelle dinamiche della gestione del potere. Come ricordato, nella fase attuale, in parte per la pandemia, in parte perché, probabilmente, non vi sono ancora indirizzi chiari, mi sembra che non si stia assistendo a un vero cambio di passo nella strategia di governance. Sia il presidente sia il governo sono per ora un po’ più defilati in termini mediatici, mettendo in prima linea i governatori, i sindaci e gli alti funzionari, ma proprio per la contingenza legata alla gestione della pandemia.

Il bilancio statale è basato, principalmente, sullo sfruttamento del territorio, ossia su risorse che, in termini di volumi e di prezzi, potranno essere caratterizzati, nel medio e lungo periodo, da un trend negativo. Ritiene che in futuro la Russia riconvertirà le proprie attività di business, diversificando fonti di crescita ed esportazioni, anche alla luce della transizione energetica in corso? E, in tale contesto, come cambierà, a suo avviso, l’approccio della Federazione alla lotta al cambiamento climatico?
La Russia è parte di tutti gli accordi sul cambiamento climatico e non solo. È anche uno dei Paesi che lo sta subendo maggiormente lungo il circolo polare e in Siberia, aree poco popolate di elevata importanza climatica (pensiamo, ad esempio, al deterioramento del permafrost). Tuttavia, considerata l’importante dotazione di risorse naturali come gas, petrolio ed energia idroelettrica, disponibili a bassissimo prezzo, spesso è difficile e poco conveniente ideare meccanismi di efficientamento energetico, portando, dunque, a frenare investimenti che richiedono effort elevati. In Italia il costo dell’energia è molto alto ed è naturale per il nostro Paese portare avanti investimenti in questo settore che non hanno solo una logica ambientalistica, ma anche economica mirata a un risparmio monetario e a un miglioramento del rischio di approvvigionamento. L’impatto si sente in modo diretto e non solo sui costi legati alle esternalità. Più alto è il costo dell’energia e del territorio, maggiore è la convenienza a investire nelle energie rinnovabili o nei meccanismi di efficientamento. Quando il costo energetico e del territorio è basso, l’interesse a effettuare questi investimenti è minore.

La riconversione, invece, è un fattore fondamentale. La Russia, obiettivamente, in questi anni ha sfruttato pienamente le proprie risorse, soprattutto gas e petrolio, per garantire la crescita del benessere che ha caratterizzato gli anni 2000-2010 fino al 2013-2014, anche se con una battuta d’arresto nel 2008. In questi anni non sono mancati gli annunci volti a favorire lo sviluppo di alcuni settori connessi all’industria, soprattutto quella leggera, ma, almeno per il momento, non si vedono risultati confortanti anche perché lo sviluppo dell’industria leggera è spesso legato alla capacità imprenditoriale e agli investimenti effettuati da parte di imprenditori privati e, indirettamente, allo snellimento dei grandi conglomerati di stato. Per ora non mi sembra che il governo russo sostenga realmente la crescita di questi segmenti dell’economia, così come non rilevo da parte delle aziende russe una capacità di miglioramento nella qualità del prodotto, elementi fondamentali per la loro competitività. In questi ultimi anni costi del lavoro e dell’energia bassi avrebbero potuto facilitare uno sviluppo basato sull’export che, però, non è mai avvenuto, almeno non nei Paesi più sviluppati. Non so se riescono a esportare nei mercati come quelli del Far East o dell’Africa, ma sicuramente è una quota poco rilevante del loro prodotto. Si troverebbero, comunque, in competizione con Paesi a elevata vocazione manifatturiera, come la Cina, il Bangladesh, l’India o il Vietnam caratterizzati da sistemi di produzione che presentano costi sicuramente più bassi e un’organizzazione più efficiente rispetto a quelli russi. 

Credo, però, che nel medio-lungo periodo lo sviluppo della Russia si giochi moltissimo sulla capacità di convertire il proprio sistema industriale sviluppando un’industria manifatturiera in grado di creare valore al di là delle risorse naturali. Questo vale anche per il settore agricolo ove si è assistito a un importante processo di crescita, ma limitatamente ai prodotti di base in assenza di una vera e propria industria di trasformazione. 

Il contesto economico è caratterizzato dalla prevalenza di aziende poste sotto il controllo statale. Le Piccole e Medie imprese costituiscono non più del 20 per cento del PIL. Qual è il loro ruolo nel panorama russo e quali sono le misure che il Governo sta adottando per tutelarle in questa delicata fase?
Nonostante il sistema di produzione sovietico sia stato largamente superato, in molti settori permane la logica del conglomerato: Gazprom con la sua banca, le ferrovie con uno dei più grandi settori ospedalieri. La tendenza a mantenere interna la maggior parte della catena del valore e l’import delle tecnologie più moderne rendono difficile lo sviluppo di una PMI manufatturiera, ma spesso anche i servizi scontano lo stesso problema perché quelli ben retribuiti di solito sono rivolti alle grandi aziende. Questo è un modello che favorisce la concentrazione della ricchezza e che non stimola l’imprenditorialità e, secondo me, sarà un problema anche perché il settore trainante dell’oil & gas tenderà ad assottigliarsi nel futuro. Penso che per riequilibrare e diffondere la ricchezza sia fondamentale la creazione di un forte sistema di PMI, ma è difficile ottenerlo senza una politica industriale specificatamente volta a questo obiettivo. Per ora in Russia il sistema delle PMI non si è sviluppato in modo particolare e questo per diversi motivi: l’ambiente economico non era particolarmente favorevole anche a causa dell’assenza di credito, per cui era molto difficile per i piccoli imprenditori riuscire a finanziarsi, se non ad alti tassi; una cultura che, a volte, fa ancora fatica a comprendere le logiche di mercato e un sistema chiuso, per lo più rivolto ai Paesi dell’ex Unione Sovietica e poco aperto ad altri mercati. È chiaro che nello storytelling comune tutti affermano di voler supportare le PMI, ma nei fatti non vedo, ad oggi, azioni incisive in questo ambito.  

Passiamo ad approfondire una tematica centrale per il Paese, soprattutto in questa fase politica, ossia la corruzione. Alla luce delle numerose indagini condotte nel corso degli anni da Navalny, la corruzione non sembra essere più un fenomeno, ma un vero e proprio sistema. Secondo la classifica 2020 di Transparency International sulla percezione dei livelli di corruzione nel mondo, la Russia si posiziona al centoventinovesimo posto su centottanta Paesi, con un punteggio pari a trenta su cento. Come considera questo indice?
E, soprattutto, si può “quantificare” l’impatto di tale fattore sull’economia?
Il tema della corruzione richiederebbe un’intervista a sé stante. Ad esempio, a me non piace molto utilizzare l’indicatore di Transparency International perché è un indicatore di percezione e questo ha provocato negli ultimi anni una forte critica da parte di molti accademici ed esponenti di organizzazioni coinvolti nella lotta alla corruzione. Il problema di un indice di percezione è che non misura il fenomeno, ma quanto le persone credano che il fenomeno sia diffuso: se, ad esempio, si chiede a un italiano quanto lui pensa sia diffusa la corruzione nel nostro Paese, la risposta sarà che il fenomeno è diffusissimo, ma se poi gli si chiede quante volte direttamente ne è stato vittima spesso la risposta è mai.  In un Paese in cui la fiducia verso lo stato e le amministrazioni pubbliche è alta la percezione sottostima il fenomeno, mentre avviene il contrario in Paesi in cui la fiducia nello stato è bassa. Fatta questa premessa, posso rispondere da frequentatore della Russia e, da questo punto di vista, devo dire che la diffusione del fenomeno, secondo me, negli anni si è ridotta. Questo non significa assolutamente che il fenomeno non esiste più, ma che si sta concentrando in alcuni settori dell’economia e, soprattutto, non è più generalizzato. Se, ad esempio, negli anni Novanta e nei primi anni Duemila si poteva corrompere un poliziotto per la strada per evitare una multa, oggi sarebbe molto pericoloso provarci. 

Va, però, sottolineato che il sistema socioeconomico russo è molto favorevole allo sviluppo di reati corruttivi e fraudolenti. Infatti, i fattori che in letteratura vengono considerati importanti per favorire questi fenomeni sono tre: la pressione per il raggiungimento degli obiettivi, la certezza e la severità delle sanzioni, percepite come possibili conseguenze negative in caso di accertamento del reato e, da ultimo, la cultura, propria del contesto di appartenenza, volta all’accettazione e all’agevolazione delle condotte criminali. In Russia è molto forte la pressione per il raggiungimento del successo inteso come ricchezza, più che in Occidente: infatti, professioni anche socialmente elevate come, ad esempio, medici o professori universitari non vengono retribuite in modo adeguato. Il sistema sanzionatorio è ancora vittima di particolarismi e favori e manca di indipendenza, anche se, almeno sul piano normativo, è stata varata una legislazione moderna relativa al fenomeno della corruzione. Da ultimo, è ancora recente e molto viva nella mente degli individui la modalità con cui si sono concentrate le ricchezze negli anni Novanta, metodi che, seppur non propriamente legali, sono stati eticamente giustificati dalla cultura di allora e, in parte (forse meno tra i più giovani), di oggi.

Il fenomeno è, quindi, sicuramente ancora molto presente e aumenta la distanza tra le varie classi della popolazione, facendo crescere la percezione di ingiustizia sociale. Del resto, il flusso di capitali che ogni anno vengono portati all’estero spesso illegalmente ne è la prova. Detto questo, la dimensione del fenomeno, soprattutto nella vita di tutti i giorni, è diminuito grazie all’introduzione di una normativa moderna e a un sistema di procurement pubblico più difficile da eludere. Un aspetto importante, anch’esso tipico di questo Paese, è nuovamente la formazione del budget pubblico perché, non essendo basato sulla tassazione, ma sulle risorse, permette di diluire l’impatto della corruzione (soprattutto quella ad alto livello) sul cittadino medio.

Forse più nociva della corruzione è la pratica che prevede la mancata applicazione di metodi meritocratici per l’assunzione o il coinvolgimento delle persone nei ruoli apicali e importanti, in generale basato più sulla fedeltà, sulla parentela o sull’affiliazione. Tale fenomeno, nel medio periodo, rischia (soprattutto in un sistema fortemente gestito dallo stato) di minare l’efficienza e l’efficacia della classe dirigente. 

Una protesta solitaria contro la detenzione di Navalny

Sempre a proposito di Navalny, in un’intervista a Il Grand Continent, l’oppositore ha ribadito la necessità di “rivedere i risultati delle privatizzazioni”. “I ‘prestiti per azioni’ sono solo un simbolo dell’ingiustizia, un esempio di come le grandi aziende sono state rubate e acquisite in modo disonesto […]”. Navalny ritiene, dunque, prioritario “mettere in atto un sistema semplice per rimediare ai risultati dei prestiti per azioni e di tutte queste privatizzazioni su larga scala”, facendo pagare a coloro che hanno beneficiato di tali pratiche una “tassa significativa”. Qual è la sua valutazione in merito?
Le privatizzazioni seguite al collasso dell’Unione Sovietica hanno creato gli oligarchi della prima ora che avevano intuizioni, accesso alle risorse e pochi scrupoli. Hanno acquistato per pochi soldi le azioni delle grandi società pubbliche che erano state distribuite a una popolazione che non ne capiva il significato e che, soprattutto, si trovava in una situazione di povertà estrema. Va detto, però, che il formarsi di grandi ricchezze attraverso meccanismi non propriamente legali è un fattore che si osserva in quasi tutti i Paesi (pensiamo alle ricchezze accumulate negli anni Venti negli Stati Uniti), soprattutto nelle fasi iniziali di costruzione dello stato. Queste ricchezze nel tempo sono state investite in progetti legali che, nel tempo, sono diventati parte dell’economia stessa del Paese. 

Oggi, però, la quota più rilevante dell’economia russa è in mano allo stato e i grandi oligarchi della prima ora sono spesso diventati alti funzionari o manager dello stato stesso. Va ancora una volta ricordato che la formazione del budget è garantita dallo sfruttamento delle risorse naturali e dalle tasse che vengono prevalentemente pagate dalle grandi aziende che per la maggior parte sono ancora statali. In questo scenario mi chiedo a cosa esattamente faccia riferimento la proposta di Navalny. La sensazione è che si voglia evocare un momento della storia russa per sottolineare le disuguaglianze che ancora oggi sono al centro del problema sociale in Russia in modo semplicistico. 

A parte questa considerazione, vi è poi una problematica più strettamente giuridica, qualora si tratti di imprese che fanno capo ancora a una persona fisica che ne è stato il fondatore, ossia quella di dover provare comportamenti illegali attraverso un processo che rimanga nell’alveo della normativa dello stato di diritto. Non basta una presunzione. 

Tutto ciò premesso, il tema vero è che, se anche si facessero pagare più tasse a una categoria di contribuenti, si dovrebbe attuare una politica di ridistribuzione attraverso la spesa pubblica. Quindi, il tema centrale non è dato dalle fonti delle risorse, dall’impiego e, dunque, dalla ridistribuzione che alla fine può creare ricchezza per altre categorie di persone. 

Da questo punto di vista, come abbiamo più volte sottolineato, in Russia le risorse sono tratte dalle materie prime e dalle grandi aziende di stato e, quindi, già oggi si potrebbero attuare politiche di ridistribuzione atte a favorire la creazione di ricchezza diffusa e un processo di snellimento del settore pubblico in grado di agevolare la nascita di un sistema di PMI privato di successo. 

Dal mio punto di vista, un meccanismo di incentivazione dello sviluppo delle PMI e di nuove privatizzazioni attraverso, ad esempio, lo spin-off di attività core da parte dei grandi conglomerati potrebbe essere molto più efficace per la diffusione della ricchezza e la riduzione delle disuguaglianze. Bisogna generare ricchezza attraverso la creazione di imprese di valore, non attraverso una logica di distribuzione del sussidio, in cui vedo un errore di politica economica di fondo. D’altra parte, si tratta di una proposta facile da comunicare e fortemente evocativa che attribuisce in modo semplicistico la responsabilità della disuguaglianza e dell’ingiustizia a soggetti immediatamente identificabili. 

Come noto, la Russia è parte di una realtà socioeconomica denominata “BRICS”, che vede il coinvolgimento di Brasile, Cina, India e Sudafrica. In qualità di membro dell’Osservatorio BRICS istituito dall’Eurispes, ritiene che in tale ambito la Russia possa avviare progetti innovativi in grado di garantire benefici socioeconomici al Paese?
I BRICS sono una realtà nata per caso all’interno dell’ufficio studi di una banca di investimento, partendo dall’individuazione di cinque Paesi che avevano una crescita sostenuta, un processo di trasformazione in atto e risultavano idonei alla definizione di un piano di investimenti mirato. Non vi era un progetto politico, economico e sociale quando è stato creato l’acronimo BRICS. Solo successivamente e, su istanza di questi primi 4 Paesi – Brasile, Russia, India e Cina (all’inizio il Sudafrica non era incluso), si è cercato di trasformarli in un progetto politico ed economico, che voleva essere, in parte, antagonista e, in parte, in concorrenza con il mondo occidentale. I Paesi che componevano i BRICS in quel momento storico stavano tutti vivendo un processo di crescita economica e di apertura verso l’esterno e si sono posti giustamente il problema della rappresentanza delle loro istanze ai tavoli in cui si prendevano le decisioni sulle problematiche globali. Da questa istanza di rappresentatività è emerso il carattere politico e istituzionale dell’organizzazione dei BRICS. Il vero problema è che, dalla nascita di questa realtà al primo tentativo di trasformazione istituzionale, lo scenario di base si è modificato in modo sostanziale.

Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica (BRICS)

Per quanto riguarda i benefici a favore della Russia, la sintonia iniziale, guardando lo scenario di oggi, non è più attuale. Il vero problema è cosa e chi oggi rappresentano i BRICS.

Se l’obiettivo è quello di rappresentare il mondo che non è al tavolo delle decisioni, ma che prevale dal punto di vista della demografia e del territorio, allora l’organizzazione dovrebbe essere attivamente impegnata in un processo di allargamento, ma su questo le idee sono discordanti anche perché l’importanza relativa all’interno dell’organizzazione di alcuni Paesi fondatori (tra cui la Russia) ne risulterebbe fortemente diluita. Pensiamo, ad esempio, a un allargamento non esagerato che vedrebbe l’inclusione di Paesi come il Messico, l’Indonesia, il Pakistan, la Nigeria e l’Egitto.  

Al contrario, a situazione immutata e, quindi, rimanendo all’interno della compagine attuale, non è chiaro come Paesi che oggi hanno cultura, esigenze, livelli di sviluppo, ricchezza e governance profondamente differenti possano trovare un punto di caduta comune, se non in settori non strategici nel breve periodo come quello culturale, universitario o nell’ambito di tematiche d’attualità, dato che ciò che può essere vantaggioso per un Paese non necessariamente o meglio quasi sicuramente non lo sarà per gli altri. Se si desidera creare un progetto politico (pensiamo, ad esempio, a quello dell’Unione europea che, malgrado l’omogeneità molto più elevata, sconta, ancora dopo molti anni, difficili problemi di integrazione), è fondamentale individuare una piattaforma di interessi comuni perché il mero antagonismo non basta a mantenere uniti gli interessi nel lungo periodo. Tra l’altro, ormai uno dei Paesi più importanti, la Cina, ha una posizione ambigua più vicina a chi al tavolo dei grandi siede e decide. 

Il momento di maggior influenza per i BRICS è legato al percorso di sviluppo della Cina che ha fortemente utilizzato i BRICS per raggiungere il riconoscimento del suo ruolo di potenza a livello mondiale. Una volta acquisito questo risultato (anche se tanti Paesi europei e gli Stati Uniti cercano ancora di negarlo o di sottostimarlo), la Cina ha perso interesse a portare avanti il progetto.  

Non dobbiamo dimenticare che tre Paesi hanno un sistema di governance liberale, mentre gli altri sono caratterizzati da sistemi dirigistici e questo provoca un’ulteriore spaccatura interna: India, Sudafrica e Brasile sono caratterizzati da un tipo di modello di governance, Russia e Cina da un altro. Si rileva più un aumento delle divisioni che delle convergenze da quando si sono costituiti in un soggetto politico ad oggi. 

Personalmente non vedo benefici socioeconomici concreti o progetti politici innovativi, se non nei settori citati in precedenza. E anche questi traguardi annunciati sono già stati raggiunti molto tempo fa dal mondo occidentale e, in parte, già condivisi con la maggior parte dei Paesi a livello mondiale (penso, ad esempio, alla collaborazione universitaria o al riconoscimento degli standard). L’unica vera istituzione creata e gestita dai BRICS è la New Development Bank che, però, resta a forte trazione cinese. 

Non individuo più il collante tra questi Paesi che orbitano in aree geopolitiche diverse: un Paese come il Brasile non ha alcun tipo di proiezione geopolitica al di fuori dei suoi immediati confini e non ha alcuna velleità in tal senso. Il Sudafrica solo nell’immediato confine nel sud dell’Africa. Si deve ragionare anche in termini di dimensioni: è arduo mettere insieme due Paesi da circa un miliardo e mezzo di abitanti con un Paese come il Sudafrica che ne ha cinquanta milioni. Le culture sono completamente diverse: da una cultura iperliberista come il Brasile si passa alla Cina caratterizzata un capitalismo gestito da un regime che ancora si autodefinisce comunista. Anche la New Development Bank, seppur istituita a seguito di tante intuizioni, è una realtà marginale nel mondo delle banche multilaterali e, almeno per il momento, non sta sviluppando progetti di rilievo, capaci di fare la differenza, soprattutto se osserviamo l’operato di altre banche di sviluppo come la China Development Bank, l’Asian Development Bank o anche l’ultima nata, l’Asian Infrastructure Investment Bank, che stanno crescendo a ritmi più elevati rispetto all’NDB.

Sempre a proposito di progetti e finanziamenti, vorrei soffermarmi sul ruolo della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo. Seppur sia cambiato nel tempo, il mandato della Banca è incentrato sulla diffusione e sulla promozione del pluralismo e dei valori di una democrazia pluripartitica. In questi anni sono stati effettuati, tuttavia, interventi in Kazakhstan, in Turkmenistan e Azerbaijan, mentre l’unico Paese in cui la BERS ha deciso di non avviare nuovi progetti a causa dei processi antidemocratici è proprio la Russia. Può illustrarci le motivazioni?
La decisione di non investire in Russia non dipende solo dall’approccio antidemocratico del Paese. Il “congelamento” degli investimenti in quest’area è legato alle sanzioni che sono state comminate nel 2014. La Banca è nata per supportare la transizione dei Paesi a economia pianificata in Paesi a economia capitalista e di mercato. I Paesi fondatori hanno sicuramento aggiunto l’obiettivo della creazione di un percorso verso una forma di governo di democrazia liberale, ma nel processo di transizione anche questo aspetto viene acquisito gradualmente. Prendiamo, ad esempio, altri Paesi in cui la BERS è attiva, come la Bielorussia, l’Egitto o la Turchia di Erdoğan. Per capire queste dinamiche bisogna conoscere la storia e la logica di funzionamento della Banca. All’interno vi sono due categorie di soci: i soci investitori e i soci beneficiari. I soci investitori sono per lo più i Paesi del mondo occidentale (inteso dal punto di vista culturale): Europa, Nord America, Giappone e Corea del Sud. Questi Paesi hanno costituito la Banca, hanno effettuato gli investimenti per avviarla e sono anche i donor di riferimento per i progetti che vengono finanziati. Vi sono, al contrario, i Paesi beneficiari, ossia quelli che possono beneficiare degli investimenti effettuati tramite la BERS (giusto per chiarire, ad esempio, la BERS non può investire in Italia, però l’Italia è il quarto azionista della Banca). In quest’ottica la Banca dovrà tenere in considerazione gli interessi di chi ha investito, dove per interessi non si deve pensare solo a quelli economici, ma anche agli aspetti culturali, geopolitici ed etici. Sarebbe quantomeno anomalo che i governi occidentali decidano di sanzionare la Russia e poi permettano a una delle loro istituzioni di operare investimenti da cui essa e il governo sanzionato potrebbero trarre un beneficio. Questo si riflette anche nel processo decisionale: la Banca ha un Consiglio che approva tutti i progetti. E va qui ricordato che gli azionisti della Banca sono i Paesi, i singoli stati. Nel consiglio siedono i delegati del ministero del tesoro di ogni Paese. Anche se la Russia è membro della Banca in qualità di soggetto beneficiario, è evidente che qualsiasi progetto portato all’attenzione del consiglio deve essere votato da un board rappresentato per la stragrande maggioranza del capitale dai Paesi che hanno votato a favore delle sanzioni. Come si può gestire un processo del genere? A stretto rigore, anche se le sanzioni sono state comminate dal punto di vista finanziario al solo settore pubblico, è chiaro che in questo momento qualsiasi progetto che riguarda la Russia, se sottoposto ad approvazione del board, incontrerà forti opposizioni. Vorrei sottolineare che fino al 2014 la Russia rappresentava il primo Paese beneficiario della Banca come incidenza sul portafoglio complessivo: sono le sanzioni comminate per l’invasione dell’Ucraina ad aver modificato la strategia di azione. 

La Banca non si muove in un’ottica di profitto per gli azionisti, ma di supporto a specifiche attività e a una precisa idea ed etica di sviluppo. Se questa logica viene a mancare, è impensabile che la Banca possa continuare a investire in quel Paese. 

Vladimir Putin

Un millennio di controllo statale, a partire dall’impero zarista passando per i bolscevichi, ha portato alla creazione di un background economico peculiare. Dopo il collasso dell’Unione Sovietica, il governo russo ha avviato il processo di transizione all’economia di mercato, trasferendo alcune delle regole dell’economia parallela del periodo comunista. In quest’ultimo ventennio, dopo l’ascesa di Putin, quale tipologia di struttura economica si è delineata e come potrà evolvere in futuro, anche alla luce della crescente corruzione?
Si tratta sicuramente di un’economia di mercato, anche se nel Paese vi è sempre la volontà di cercare di non abbracciare fino in fondo questo modello. Lo è, anche se la maggior parte del sistema è in mano allo stato. 

L’economia russa è basata, principalmente, sulle materie prime, i cui prezzi sono definiti da un mercato globale. Per quanto ci si sforzi con il petrolio e il gas, tra riunioni dell’Opec e dell’Opec allargato, il prezzo è determinato dalla domanda e dall’offerta. Anche le grandi aziende e le grandi banche sono controllate dallo stato, ma non vi è più un sistema di economia pianificata. È un sistema aperto, come dicevo prima, caratterizzato da flussi di importazioni rilevanti soprattutto nell’ambito dei manufatti, a fronte, invece, di esportazioni, soprattutto, sulle commodity. La valuta russa fluttua sul mercato e viene governata dalla Banca centrale russa, il tasso di cambio fluttua sul mercato. Nonostante il controllo e, spesso, la proprietà ultima delle grandi aziende siano detenuti dallo stato direttamente o attraverso istituzioni finanziarie, queste aziende si muovono in un alveo di diritto privato. Molte delle grandi aziende di stato russe sono quotate a Mosca, ma anche in piazze come Londra, New York e Francoforte. 

Il sistema economico si è ormai affrancato dal modello pianificato, ma è caratterizzato da due aspetti peculiari: le quote maggiori delle grandi aziende sono controllate dallo stato e gran parte della ricchezza prodotta deriva dallo sfruttamento delle risorse del Paese. Peculiarità importanti che non si trovano in altri Paesi di quelle dimensioni. 

Questi due aspetti influiscono sulla capacità del governo di gestire i processi economici, sulla capacità di ridistribuzione della ricchezza e sui meccanismi di funzionamento e di impatto della politica economica. Tali caratteristiche creano una struttura economica che è molto peculiare, ma, in base al diritto e alla dimensione economica tutto sommato limitata (il PIL russo è circa ¾ di quello italiano), il sistema si muove all’interno del mercato globale con le logiche di quest’ultimo. Certamente vi sono barriere all’ingresso, ma come accade ovunque. Se si vuole vendere in Russia, bisogna cercare di produrre localmente, di avere dei fornitori locali, ma questo avviene anche negli Stati Uniti (la cosiddetta logica del “Buy American”) ove prima di comprare un macchinario europeo bisogna rivolgersi alle imprese americane. Le barriere sono presenti anche nel sistema delle certificazioni, ma, considerando tutti i vincoli, l’economia russa rimane più nell’alveo delle economie di mercato. Il fatto che lo stato controlli, attraverso queste holding, una parte rilevante del sistema economico e, quindi, da questo punto di vista, abbia una leva di politica economica gestita in modo diretto dal governo senza la creazione di meccanismi di incentivo o disincentivo non è un elemento sufficiente a definire il sistema russo non di mercato.

Russia, criticità e prospettive. Parla Fabrizio Zucca ultima modifica: 2021-04-06T19:27:48+02:00 da ANNALISA BOTTANI

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