La questione dei diritti televisivi, recentemente acquisiti da DAZN per trasmettere in esclusiva sette partite su dieci della Serie A nel prossimo triennio, più tre in co-esclusiva vedremo con quale partner, la dice lunga sullo stato comatoso in cui versa il modello economico capitalista, improntato al liberismo sfrenato. Non si tratta più di sport e divertimento, non c’è nulla di ludico nella vicenda. Qui siamo al cospetto della spartizione, a opera di privati, dei nostri diritti e della nostra libertà di cittadini e di utenti.
Siamo di fronte a una privatizzazione senza precedenti che, di fatto, priva la maggior parte della popolazione del diritto di accedere a un’informazione di qualità, in quanto è stata progressivamente indebolita la RAI e potenziato tutto ciò che è privato, al punto che ormai lo sport è praticamente appannaggio di piattaforme a pagamento che i più non possono permettersi. Senza parlare del cinema e delle serie televisive, i cui costi, per gli spettatori, sono leggermente più bassi ma comunque eccessivi per una famiglia che, soprattutto dopo la pandemia che ha sconvolto ogni equilibrio, fatica ad arrivare a fine mese.
L’aver appaltato quasi interamente ai privati la trasmissione di campionati e coppe europee ha, inoltre, sortito l’effetto di una voracità insostenibile da parte dei vari club, acuendo il divario fra ricchi e poveri e consegnandoci un campionato inguardabile, uno spezzatino di partite francamente disgustoso e una situazione nella quale, almeno in Italia, a inizio aprile sappiamo già chi ha vinto lo scudetto, chi si avvia a retrocedere e chi parteciperà alle prossime competizioni internazionali, trasformando le rimanenti nove giornate in una serie di amichevoli, con qualche eccezione qua e là che conferma la regola.
Il calcio è peggiorato, i buchi di bilancio, specie dopo il Covid, sono ormai voragini e i campioni veri in una Serie A ridotta in queste condizioni non ci vengono più, se non a svernare alle soglie dei quaranta, come facevano negli anni Ottanta i miti del basket NBA che venivano in Italia a spigolare gli ultimi brandelli di gloria dopo aver dato il meglio di sé oltreoceano. Da campionato più bello del mondo, Mecca del calcio e punto di riferimento per le altre nazioni, ci siamo trasformati in un torneo mediocre, abbastanza scontato e le cui squadre, in Europa, rimediando spesso figuracce epocali, senza tuttavia riuscire a compiere una seria analisi sulle profonde ragioni del proprio declino.
La Nazionale del Mancio, finora, ha messo una pezza ma anche lì siamo lontani dai tempi in cui potevamo schierare, tutti insieme, Baggio, Del Piero, Maldini e altri fenomeni che rendevano l’Italia una delle compagini favorite alla vigilia di ogni competizione. Per non parlare poi dei movimenti giovanili, letteralmente ignorati e con fior di ottimi giocatori che, non avendo nomi esotici e di richiamo, vengono mandati via per un boccon di pane, salvo rendersi conto, quando ormai è tardi, che all’estero con i nostri talenti si stanno facendo d’oro. Anche nel calcio stiamo umiliando e calpestando una generazione.

Quanto alla narrazione sportiva, duole dirlo, ma non rendersi conto che appaltare tutto ai privati significa trasformare il calcio, e non solo il calcio, in un business, privandolo della valenza sociale che ha e avrà sempre, significa negare ai cittadini la conoscenza di un aspetto essenziale del nostro stare insieme. Quando la partita, comprese le gare più insignificanti, viene trasformata in evento, con telecronache sulla cui qualità ci sarebbe molto da discutere e un’analisi unicamente contingente, vuol dire, infatti, che è stato espulso dal racconto del calcio tutto ciò per cui lo amiamo: il suo essere una forma di riscatto sociale, la passione che suscita, gli aneddoti che lo caratterizzano, la sua anima popolare che quasi nessun intellettuale, dopo la morte di Pasolini, ha saputo mettere in evidenza, la sua funzione aggregante e il suo saper unire ciò che tutto il resto divide.
Se un Europeo itinerante, varato per celebrarne il sessantesimo anniversario ed esaltare le virtù dell’Europa, viene trattato come una mera serie di partite, tanto vale parlare d’altro e seguire i tornei di tamburello. Se vengono meno le grandi interviste e il racconto dei paesi che compongono il caleidoscopio di una competizione, quel giornalismo alla Minà che ha reso grande il servizio pubblico e ha avvicinato alla gente comune argomenti difficili e in nessun altro modo affrontabili, allora è meglio lasciar perdere.
Se si cede all’idea che i campioni siano dei robot, dei circensi il cui unico scopo è farci divertire, senza rendersi conto che essere Ronaldo o essere Mbappé significa molto di più, si sta diseducando una generazione e la si sta abbandonando a se stessa e a una concezione mercantile dell’esistenza. Del resto, dagli anni Novanta in poi, questo paese si è distinto per le privatizzazioni, su tutte quella della Telecom (a proposito del ruolo che avrà TIM nella nuova avventura di DAZN e in tutto ciò che riguarda la fibra e altre questioni decisive per il nostro futuro…), al punto che oggi siamo di nuovo “calpesti e derisi”, con troppi asset strategici in mano a soggetti che fanno i loro legittimi interessi ma non più i nostri, una qualità della vita nettamente inferiore e una rabbia sociale che si evince facilmente aprendo un qualunque social network.
È difficile appassionarsi a un torneo spalmato su più giorni, che va in onda a tutte le ore e che i più fragili, coloro che magari, potendolo seguire, ne trarrebbero un minimo di serenità, non possono permettersi, in un paese in cui la povertà è aumentata in modo esponenziale e le conseguenze della crisi si faranno sentire con forza assai maggiore nei prossimi mesi e anni. Per ovviare a questo disastro servirebbe un forte impegno dell’Unione Europea, un canale unico in più lingue che acquistasse i diritti di tutti i principali campionati e le competizioni europee e mondiali e creasse, partendo dai rispettivi servizi pubblici e mettendo in comune i rispettivi canoni, una rete internazionale dedicata allo sport, intendendolo come patrimonio collettivo e bene comune (ottima, a tal proposito, l’idea di Berruto di inserire il diritto allo sport in Costituzione).
Capisco, tuttavia, che non si possa chiedere questo a un’Europa che considera la mano pubblica un esecrabile aiuto di stato, che non si è impegnata a creare un vaccino europeo, che è in drammatico ritardo nel piano vaccinale rispetto agli Stati Uniti e in cui agiscono spinte disgregatrici che hanno portato al massacro di Atene e, di conseguenza, alla Brexit. Ne prendo atto, ma qui non è in ballo solo un pallone che rotola ma una speranza di unità che viene meno.


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