Cinema e malattia formano da sempre un connubio fruttuoso, per le evidenti occasioni di sviluppo drammaturgico, prevalentemente in direzione melodrammatica-strappalacrime, che la seconda offre. Al suo interno, però, la malattia mentale occupa un sottofilone privilegiato, sia per la quantità di ramificazioni possibili (dal thriller all’horror alla denuncia civile…) sia per un più profondo e sostanziale nesso fra i meccanismi della mente e quelli delle immagini in movimento (ne sa ben qualcosa uno psichiatra-cinefilo come Vittorio Lingiardi).
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A sua volta, quest’ultima branca registra da diversi anni un’ulteriore specializzazione, dedicata al morbo di Alzheimer, questa terribile patologia neurologica che sabotando la memoria e il vissuto degli individui ne preclude la comunicazione con l’esterno lasciando chi è loro vicino nella condizione di un impotente sgomento. Anche in questo caso la predominanza è di film più o meno nobilmente pietistici e patetizzanti, spesso con ampio spazio a nostalgismi romanticheggianti (si pensi a un titolo come Le pagine della nostra vita, 2004, di Nick Cassavetes, figlio del leggendario John, e interpretato da Gena Rowlands, James Garner e Ryan Gosling); altre volte tuttavia il tema è affrontato con maggior sobrietà e sguardo più originale, come in Away from her – Lontano da lei (2004), con Julie Christie, debutto registico della giovane e talentuosissima attrice canadese Sarah Polley, molto cara al cinema problematico di Atom Egoyan; o nel formidabile Remember (2015), appunto di Egoyan, con il compianto Christopher Plummer, che indirizza il tema verso tonalità da thriller storico; o ancora in Still Alice (2014) di Richard Glatzer e Wash Westmoreland, con la straordinaria Julianne Moore a incarnare il caso (non infrequente purtroppo) in cui la demenza colpisce un soggetto ancora giovane.

Ora però arriva un film che resetta completamente il genere, ponendosi come l’opera più radicalmente diretta e onesta sull’argomento, grazie ad una struttura drammatica coraggiosa, ad una regia di potente asciuttezza e ad un protagonista, Anthony Hopkins, per il quale ogni superlativo suona insufficiente.
Si tratta di The Father, ancora un’opera (incredibilmente) prima, firmata dal drammaturgo e regista francese 42enne Florian Zeller che l’ha ricavata da una propria pluripremiata pièce del 2012 già portata in scena più volte (tra gli altri con Frank Langella) e che ha già avuto una versione cinematografica, più orientata verso i toni della commedia, nel 2015, a firma di Philippe Le Guay con protagonista, due anni prima della scomparsa, l’86enne Jean Rochefort.
Siamo dinanzi ad un kammerspiel claustrofobico ma nel contempo dai contorni e dai baricentri incessantemente mutevoli e ingannatori. L’instabile perno del racconto è Anthony (a totale autoimmedesimazione dell’83enne attore), un ex ingegnere elegante, affascinante e ironico ma con crescenti problemi di memoria, che si aggira nel proprio bell’appartamento accudito dalla figlia Anne (dove Olivia Colman, smessi i panni regali della sovrana Anna in La Favorita e Elisabetta II in The Crown, offre una prova di esemplare intensità), il cui principale problema è tuttavia quello di trovare l’ennesima badante ad un genitore che con il suo caratteraccio ne ha già allontanate più d’una. Ma non passa molto tempo nel racconto e ci accorgiamo che questo piano di narrazione è illusorio, contraddittorio, traballante, interscambiabile con altri: esattamente – ecco il punto – come lo sono i ricordi e i riferimenti di Anthony, intorno al quale iniziano a comparire figure la cui identità (o identificazione) si rivela sempre più precaria e ambigua.
Parallelamente all’intrecciarsi dei ricordi, degli apparenti disvelamenti, delle connessioni continuamente stabilite e poi smentite tra i personaggi, Zeller inizia e progressivamente intensifica un lavoro formidabile sugli spazi e sugli ambienti che, pur denotando la propria indubbia matrice teatrale, è cinematograficamente risolto con sbalorditiva perizia ed efficacia. In un gioco sempre più crudele e asciutto di porte che si aprono e si chiudono (qualcuno ricorda la sequela di porte mentali che si spalancano tumultuosamente in Io ti salverò di Hitchcock?) su luoghi e stanze sempre meno certe e riconoscibili, capiamo via via che l’autore sta riuscendo nella più difficile delle imprese: ossia trasferire direttamente su noi spettatori la confusione, le sovrapposizioni, i vuoti, gli smarrimenti del protagonista e della sua mente ormai sull’orlo dell’abisso, impedendoci un punto di vista fisso, attendibile e facendoci totalmente e dolorosissimamente identificare con il suo vissuto.

Non si ricorda, né su questo tema né più in generale, un altro esempio di immedesimazione psichica e percettiva dello spettatore nell’esperienza di un personaggio con patologie: a meno di non risalire – su tutt’altro piano – al Blue (1993) di Derek Jarman, dove un unico fotogramma blu oltremare di 76 minuti ci catapultava nell’esperienza testamentaria del regista, reso quasi cieco da un’infezione e morto di lì a un anno. Ma The Father è anche un racconto i cui nodi richiedono continuamente di essere affrontati e confrontati fra loro, grazie anche alla funambolica sceneggiatura di Christopher Hampton (Espiazione, The Quiet American, Chéri), autore della traduzione in inglese del testo teatrale e capace di aprire continui interrogativi sui personaggi e i loro reciproci rapporti, ora chiarendoli e subito dopo nuovamente rimescolandoli, ancora una volta riproducendo – e contagiandone chi guarda – i sempre più ravvicinati e ingravescenti cortocircuiti che stanno cancellando esperienze e figure care al protagonista.

Difficile annotare qualcosa di più senza svelare troppo di una materia narrativa che a tratti assume persino le tonalità del mystery, sino a sciogliersi in un finale di sconvolgente quanto realistico struggimento. Un realismo tuttavia sorvegliato, quasi pedinato da una macchina da presa che esplora volti, oggetti, ambienti e dettagli con precisione chirurgica e secondo dinamiche implacabilmente geometriche, accompagnata da surreali e sommessi interventi musicali di Ludovico Einaudi, in cui fra le altre pagine classiche s’inserisce ripetutamente, dapprima a livello interno e alla fine come commosso epicedio, l’aria “Je crois entendre encore“ dai Pescatori di perle di Bizet; e un realismo, va aggiunto, che si fonda sulla totale attendibilità clinica del caso descritto e dei suoi lampi di lucidità alternati a totali perdite di riferimenti, sino al già citato finale, dimostrando che sicuramente Zeller (come già la Polley prima di lui, e stupisce l’interesse di giovani esordienti verso simili tematiche) si è avvalso di consulenze mediche autorevoli e di prima mano.
Di Hopkins e della sua inesauribile capacità di restituire la complessità e la fragilità di un personaggio simile (esattamente come ha saputo in passato impersonare figure di terribile malvagità), senza eccessi ma con tutta la straziante credibilità necessaria, s’è detto: non a caso l’attore britannico guida la messe di candidature all’Oscar che il film ha ottenuto, e che in un mondo perfetto (foss’anche quello del cinema) non dovrebbe faticare a ottenere. Accanto a lui però non sfigurano, oltre alla già citata Colman, gli ambigui Rufus Sewell e Mark Gatiss (protagonista di una scena particolarmente traumatizzante), la vibratile Imogen Poots e una grande Olivia Williams nella conclusione. Guardare per credere, in un film dove la solidarietà con il protagonista non è pietisticamente sollecitata dall’esterno ma mirabilmente e spietatamente provocata dall’interno.

Ci pare però doverosa un’ultima annotazione. Nella distribuzione italiana, a The Father è stato appioppato l’incredibile e inqualificabile titolo Nulla è come sembra. Un giorno bisognerà decidersi, da noi, a scrivere una controstoria del cinema attraverso alcune sue deliranti titolazioni nostrane (citerò solo il caso di scuola del truffautiano Domicile conjugal, diventato Non drammatizziamo… è solo questione di corna!); nell’attesa però, va additato il duplice effetto negativo di una simile scelta. Da un lato l’effetto-spoiler davvero offensivo per lo spettatore, che ricorda un po’ La donna che visse due volte con cui fu distribuito l’immenso Vertigo hitchcockiano; dall’altro un titolo simile degrada il film quasi a una spensierata e giocosa commediola degli equivoci. Evidentemente lasciare l’originale o limitarsi a Il padre era considerato troppo semplicemente efficace e asciutto per l’intelligenza del pubblico.
Caro ministro Franceschini, abolendo la censura cinematografica è stato finalmente compiuto un passo decisivo di civiltà e contro la stupidità intellettuale: vogliamo affrontarne un altro, stabilendo regole e criteri di selezione per la titolazione dei film stranieri più rispettosi per autori e spettatori? Grazie.