È davvero singolare l’idea di Joe Biden di concludere il ritiro dall’Afghanistan proprio l’11 settembre. Questo ritiro non segnerà una sconfitta epocale, come il precedente ritiro sovietico? Certo il sistema Stati Uniti non è in panne come lo era quello sovietico, ma la scelta della data è un pessimo indizio. Gli americani l’11 settembre prossimo venturo non potranno dire mission accomplished. E Biden dicendo che la missione fu compiuta dieci anni fa con l’eliminazione di bin Laden non risolve il problema non solo dell’insostenibilità della missione ma neanche dell’incapacità di risolvere il problema.
L’Afghanistan intreccia la sua tragedia vittoriosa con l’epopea dei ritiri altrui, ma letta diversamente la sua tragica invincibilità fa emergere il vero problema. Qual è?
Torniamo all’euforia post crollo del Muro. Il problema è emerso allora e sta in una scelta strategica: la vittoria dell’Occidente è la vittoria del sistema capitalista nella sua versione neoliberista. Si cominciò già all’esordio degli anni Novanta, con Mosca. Fu vera gloria imporre il pagamento integrale del debito sovietico? Uno studio dell’Università di Oxford pubblicato da The Lancet ha indicato che a causa delle politiche di privatizzazione di massa condotte nei paesi dell’Est europeo dopo il crollo del comunismo, tra gli anni ‘91 e ‘94, morirono circa un milione di persone per l’accresciuto tasso di mortalità dovuto a disoccupazione e carenza sanitaria. Altri studi arrivano a parlare di dieci milioni di morti “aggiuntive”.

Come sostenuto da David Harvey
la neoliberalizzazione va interpretata innanzitutto come un progetto utopico finalizzato a una riorganizzazione del capitalismo internazionale, oltre che a un progetto politico per restaurare le condizioni necessarie all’accumulazione di capitale e, come nel caso della Russia, a creare il potere di una nuova élite politico-economica.
Furono i famosi oligarchi. È interessante notare che probabilmente questo esito era temuto da Giovanni Paolo II quando nel ‘91 pubblicò la sua enciclica Centesimus Annus, che al crollo collettivista invitava a non sostituire il neoliberismo. Ma i teocon – come documenta il professor Massimo Borghesi nel suo recente libro Francesco. La Chiesa tra ideologia teocon e ospedale da campo – capovolsero il senso dell’enciclica facendone l’atto di nascita del catto-capitalismo. Infatti nel 1992 Francis Fukuyama teorizzò la fine della storia per via del trionfo del mercato, il figliolo prodigio che sa governarsi da solo. Ma il trionfo liberista si trovò presto davanti all’inaudito 11 settembre – ideato da un miliardario – e la Casa Bianca scelse la coppia neocon–teocon affiancando al neoliberismo mondiale la guerra all’islam. Questa idea la possiamo presentare così: il nuovo leninismo è l’islam, contro il leninismo islamista serve un leninismo antileninista. Dunque invasioni, interventi, “esportazione della democrazia”. Importante corollario di questo teorema è stato il no all’ingresso della Turchia in Europa, ideologico nei neocon, concreto in chi lo accettò per non far aumentare il costo della manodopera turca in Germania. Il sofferto sì di Benedetto XVI all’ingresso della Turchia confermò che tra ideologia teocon e cattolicesimo c’era lo iato che c’è tra un uovo oggi e una gallina domani.
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A tutto questo Obama ha detto meritevolmente “no”, ma il terzo errore è stato suo. Obama per primo ha capito l’onestà di quanto disse l’ayatollah Khamenei all’ex presidente iraniano Khatami (stando a quanto da lui stesso riferito): “ho bisogno del nemico americano”. Purtroppo Trump gli avrebbe dato presto ciò che voleva, ma l’errore di Obama è stato pensare che il regime fosse riformabile. Quarant’anni di storia dimostrano che, purtroppo, non lo è. Per questo il trattato sul nucleare avrebbe richiesto un preventivo piano Marshall lungo il confine iracheno, prima di ogni ritiro. Solo così sarebbe stato possibile pensare che il regime change lo avrebbero fatto gli iraniani, grazie al benessere e non alla fame. Ma in questa attesa si doveva evitare l’esportazione del conflitto islamico dall’Iraq fino al Mediteranneo, che dai tempi di Alessandro Magno ha nell’Iraq la sua porta.

A questa carrellata sui grandi errori occidentali manca una lettura della politica Occidentale verso la Cina, dove appare però plausibile pensare che, quando l’apertura andò a vele spiegate, ci si sia illusi proprio che il capitalismo avrebbe fatto il miracolo. Ma il capitalismo non ne fa.
Se tutto questo ha un fondamento come dovremmo inquadrare l’epoca dei ritiri americani? Certo, non ha coinciso con l’inizio dell’epoca nuova che molti speravano, cioè una nuova era multipolare. Il ritiro americano ha preso atto di certo di una necessità contabile, e cercando una visione che mancava ha finito con l’essere più l’apripista del trumpismo che il capovolgimento del bushismo, sebbene nessuno possa dire oggi come il trumpismo potrebbe chiamarsi domani.
Convinto dell’urgenza di smantellare il leninismo antileninista di Bush, Obama rinunciava senza sapere cosa offrire. Non è un caso se proprio Cina, Russia, Iran, Turchia e mondo arabo, le vittime degli errori strategici occidentali ma tutte compatibili con il liberismo, sono oggi i protagonisti dell’assalto all’ordine Occidentale alla ricerca di nuove egemonie. Eppure noi rimaniamo nell’egemonia culturale dei teocon e dei neocon: il capitalismo ha posto fine alla storia, noi dobbiamo porre fine all’ultima sfida, quella che viene dai post-comunisti e dall’islam. Questa certezza si capovolge al di là del muro: Cina, Russia, Iran, mondo arabo, Turchia, tutte compatibili con il capitalismo, hanno un solo nemico, l’Occidente! Obama ha detto, meritoriamente, che il suo paese non può più fare il gendarme del mondo: ma se l’America non deve essere il gendarme del mondo è anche vero che senza una nuova gendarmeria del mondo questo diviene più selvaggio. Così Obama più che archiviare Bush ha aperto la strada a Trump: gli elettori, non a torto, hanno capito che con lo shale oil o il motore elettrico possiamo pensare a noi stessi, allora è meglio farlo fino in fondo. È vero, ma siccome i vuoti in politica non esistono il ritiro americano senza un nuovo ordine ha coinciso con l’emergere di nuovi espansionismi: regimi totalitari che si inseguono, si accavallano, si combattono, trascinandoci nel loro vortice con una sola variante di autotutela, le democrazie illiberali.

Davanti alla preponderanza espansionista di Cina, Russia, Turchia, Iran e al disfacimento arabo ci convince solo una disincantata rassegnazione, l’arroccamento di democrazie illiberali a base iperliberista. Questa rassegnazione deriva dalla stessa idea che ha guidato l’amicizia con la Cina di decenni fa: il capitalismo neoliberista farà il miracolo. Non ne fa. Prima di decretare il nostro adeguamento a un mondo fratturato dove l’unico tasso variabile è quello della illiberalità ammissibile, sarebbe meglio valutare l’unica alternativa: quella indicata da Papa Francesco. Davanti alla sconfitta del Pcus e dell’ala marciante del proletariato l’Occidente ha rinunciato ad essere “l’ala marciante del mondo” subito dopo la caduta del muro di Berlino perché si è convinto di aver vinto per sempre. I nostri valori erano riassunti nel modello economico, vero Salvatore del mondo. Ma oggi che il liberismo selvaggio si trova benissimo anche con i teocratici iraniani, con le dittature arabe, con i totalitarismi russo e turco, con l’impero cinese, non si deve cambiare lettura? Se il sistema economico ci tradisce cosa siamo? La risposta più efficace l’ha data Francesco quando gli è stato conferito il Premio Carlomagno:
Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo, un costante cammino di umanizzazione, cui servono memoria, coraggio, sana e umana utopia.
Questa utopia difficile ieri diviene l’unica bussola possibile oggi, davanti alla pandemia, perché la crisi globale è l’opportunità per chi vuole ritrovare un’idea globale.
Cosa ci dice Francesco con i suoi ripetuti appelli a far giungere rapidamente i vaccini nei paesi poveri? Per me ci invita a un Piano Marshall globale per la sanità, non a lasciare il Terzo Mondo in balia del farlocco vaccino cinese. Dunque si tratterebbe di capovolgere le priorità: mettere la supremazia scientifica ed economica al servizio dei valori e non il contrario. Francesco ci dice che in questo momento bisogna aprire i cordoni dei vaccini. Perché? Perché l’Occidente abdica o l’Occidente rilancia. Non è compito del papa spiegarlo, ma è chiaro che questo Piano Marshall creerebbe le condizioni per una Nuova Yalta. Paragonando la pandemia alla Seconda Guerra Mondiale questo Piano Marshall farebbe dell’Occidente il promotore di una Grande Campagna di Liberazione che produrrebbe la Nuova Yalta. Il meccanismo della fiducia sarebbe offerto dalle religioni, da quell’incontro nel nome dell’uomo che Francesco sta pazientemente costruendo proprio sul cardine della fratellanza universale. Che non è colonizzazione, non è la vecchia “missione civilizzatrice”, ma l’incontro rispettoso delle diversità. Per riuscirci occorre capovolgere la cultura teocon.
Jorge Mario Bergoglio viene erroneamente definito un anti americano. Eppure il passo migliore dell’epoca obamiana gli Stati Uniti lo devono a lui. Ha infatti raccontato il professor Andrea Riccardi che quando Obama venne in visita in Vaticano il papa gli disse: “signor Presidente, se vuole risolvere il problema del suo paese con l’America Latina, risolva il problema di Cuba”. Questa visione deriva certamente dalla sua conoscenza di cosa agiti il profondo degli esseri umani latinoamericani. Ma deriva anche da un’idea di realtà: con buona pace di tanti ci ha spiegato che non esiste un metodo di interpretazione della realtà valido ovunque e sempre, esiste invece un disvelarsi della realtà. È quello che scriveva già negli anni Ottanta in appunti pubblicati solo recentemente da La Civiltà Cattolica. Al tempo Bergoglio lavorava alla sua tesi sul pensiero di Romano Guardini e negli appunti si legge: “i principi interpretativi di una realtà devono essere ispirati dalla realtà stessa, così com’è. La realtà che è interpretata e la realtà di chi interpreta. Qui vale in qualche modo l’ad modum recipientis, ma al rovescio: ad modum develantis. Ogni realtà ha in sé il suo modo di svelarsi, che nasce dalle potenzialità stesse che le sono insite. Si svela in consonanza con ciò che è”.

Archiviare ogni idealismo consente la de-ideologizzazione dell’interpretazione della realtà. De-ideologizzando Bergoglio ha aiutato Obama a vedere Cuba per quel che è: un fattore psico-politico transcontinentale. Vedere i vicini per quel che sono consentirebbe a noi e a loro di sconfiggere ideologismi deumanizzanti e di vederci per quel che siamo, oggi. Questo Occidente post-ideologico troverebbe finalmente nelle sue azioni le sue radici cristiane, piuttosto che nelle sue bandiere o nei suoi proclami, dandoci una visione per l’epoca post-ritiro. È per questo che nel suo messaggio a Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale ha affermato: “La nozione di ripresa non può accontentarsi di un ritorno a un modello diseguale e insostenibile di vita economica e sociale, dove una minuscola minoranza della popolazione mondiale possiede la metà della sua ricchezza.” Quindi “occorre escogitare forme nuove e creative di partecipazione sociale, politica ed economica, sensibili alla voce dei poveri e impegnate a includerli nella costruzione del nostro futuro comune”. Un discorso che sembra scritto nella piena consapevolezza di cosa significhi il ritiro dall’Afghanistan.

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