Le elezioni di metà mandato sono di solito un referendum sul presidente in carica. Dalla fine della Seconda guerra mondiale i presidenti al primo mandato perdono in media circa ventitré seggi alla Camera e uno al Senato. E le elezioni del 2022 non dovrebbero essere così diverse. A più di un anno e mezzo di distanza però l’incertezza che le circonda è alta. Nell’era del Covid-19 è molto difficile elaborare un’ipotesi su ciò che potrebbe accadere.
Joe Biden gode di una maggioranza molto ristretta rispetto ai predecessori democratici. E molti ricordano che alla prima sfida elettorale dalla loro elezione Clinton e Obama persero più seggi della media. Il primo ne perse 52 in totale nel 1994; il secondo 64 nel 2010. Al Senato c’è una sostanziale parità tra democratici e repubblicani, anche se la vice-presidente Kamala Harris garantisce la maggioranza, almeno ai fini delle procedure. Alla Camera i numeri sono pericolosamente sottili (219 dem e 212 repubblicani). Pertanto qualsiasi perdita, anche fosse nella media, rischia di essere una “catastrofe” per l’amministrazione democratica.
Non che un presidente senza Congresso non possa fare nulla. I democratici hanno controllato la Camera dei rappresentanti per quarant’anni consecutivi, dal 1954 al 1994. Il controllo democratico del Senato è durato ininterrottamente per venticinque anni, dal 1955 al 1980. Mentre alla Casa Bianca si succedevano tra il 1952 e il 1992 cinque presidenti repubblicani – Eisenhower, Nixon, Ford, Reagan e Bush – su otto in totale. Però se i democratici dovessero perdere Camera e Senato dovrebbero dire addio a molti dei progetti previsti dall’accordo tra le varie anime del partito.
Alla Camera, che sarà rinnovata completamente, la battaglia sembra più complessa ed è in gioco la leadership di Nancy Pelosi. Al Senato, rinnovato per un terzo, lo status quo non è di così difficile realizzazione per i dem. Il prossimo anno saranno in palio infatti venti seggi attualmente nelle mani dei repubblicani e quattordici seggi ora nelle mani dei democratici. Dei venti seggi repubblicani tre seggi senatoriali si trovano in Swing States: North Carolina, Pennsylvania e Ohio. Quattro invece sono di senatori che hanno annunciato che non si ricandideranno. Si apre così la strada a primarie interne incerte. Che potrebbero concludersi in una resa dei conti tra l’ala repubblicana tradizionale e quella di “rito trumpiano”.

Trump contro l’establishment repubblicano
In questi mesi infatti c’è una sorta di guerra aperta tra l’ex presidente Trump e il leader della minoranza al Senato Mitch McConnell e i leader nazionali del Partito repubblicano. A cominciare dai soldi. L’ex presidente infatti ha deciso di entrare in competizione con le operazioni di raccolta fondi del partito. Ha quindi invitato i suoi sostenitori e finanziatori a non dare più soldi ai “Rino”, “Repubblicani solo di nome”. E di donare direttamente al suo comitato di azione politica. Trump ha anche chiesto al Comitato nazionale repubblicano di smettere di usare il suo nome e la sua immagine per raccogliere fondi. I conflitti poi si stanno spostando sulle primarie. Trump già sceso in campo a sostegno di vari candidati, con molti mesi in anticipo.
Più che una gaffe è invece il tentativo di lanciare messaggi a possibili competitor dei suoi candidati alle primarie. Se vogliono correre devono passare attraverso un sostegno o un distanziamento pubblico dalle politiche e dalle posizioni dell’ex presidente. Trump ha già chiesto di non votare per quei pochi membri del Congresso che hanno votato a favore del secondo impeachment. Lo scontro potrebbe anche contribuire a “diminuire” il voto dei repubblicani non trumpiani. Oppure contribuire alla mobilitazione del voto democratico. Trump, lo si è visto nelle elezioni di metà mandato del 2018, ha una capacità innata di polarizzare e mobilitare i propri elettori e quelli democratici.
I repubblicani però potrebbero trarre vantaggio dalla nuova configurazione delle circoscrizioni elettorali che saranno tracciate prima delle elezioni di medio termine del 2022. L’anno scorso infatti si è conclusa l’operazione del censimento decennale previsto dalla costituzione per la ripartizione dei seggi. E il Partito repubblicano controlla completamente – governatore e legislatura statale – la riorganizzazione delle circoscrizioni di circa due quinti di tutti i seggi alla Camera, mentre i Democratici solo un decimo.
I restanti seggi sono in stati con governi divisi (in cui governatore e legislature sono di colore politico diverso). Qui la ridefinizione delle circoscrizioni è fatta da un sistema di commissioni indipendenti. Questa possibilità di ridisegnare le circoscrizioni elettorali dovrebbe aiutare i repubblicani a ottenere “mappe” favorevoli e a vincere più seggi di quanto ci si aspetterebbe. Inoltre nella ripartizione dei seggi, c’è un “boom demografico” che è concentrato nel Sud – North Carolina, Florida e Texas – e comporterà qualche seggio in più nei tre stati (uno stato incerto e due repubblicani).
Infine nei cinque mesi trascorsi dalle elezioni, i legislatori statali repubblicani hanno introdotto almeno 253 progetti di legge che limitano vari diritti di voto in 43 stati, secondo il Brennan Center for Justice della New York University. I legislatori repubblicani agiscono sulla base della convinzione che le elezioni del 2020 non siano state legittime (la ragione dell’assalto al Campidoglio). In effetti secondo un sondaggio di Quinnipiac nelle settimane successive alle elezioni, il 77 per cento dei repubblicani riteneva che ci fossero frodi elettorali diffuse. Molti di questi progetti di legge limiterebbero il voto anticipato, in particolare nelle aree urbane dove sono presenti elettori democratici.

La fragile tregua tra democratici “moderati” e “progressisti”
Molto però dipenderà anche dai risultati di Biden e dall’entusiasmo dei democratici per le politiche dell’amministrazione. Politiche contro le quali i repubblicani contano invece di mobilitare il proprio elettorato. Dai flussi migratori al confine tra Stati Uniti e Messico alle difficoltà nel riportare i bambini a scuola in mezzo alla pandemia di Covid-19; dalle massicce spese volute dalla Casa Bianca e dal Congresso controllato dai democratici all’inclusione di alcune priorità dell’ala progressista dei dem nel disegno di legge sulle infrastrutture e nei progetti di assistenza economica, al tentativo democratico di espandere la Corte Suprema.
Certo Biden per ora è in luna di miele con l’elettorato. Nell’ultimo sondaggio della CBS News / YouGov, il 60 per cento degli adulti sostiene la gestione dell’economia e della crisi del Covid-19 da parte del presidente democratico. Tuttavia in un anno e mezzo molto può cambiare. Anche la “tregua” interna ai dem.
L’ala progressista del partito ha infatti una lunga lista di progetti di legge che intende presentare. Dal cambiamento climatico all’immigrazione, dall’assistenza sanitaria al diritto al voto, dall’ingresso di nuovi stati stati alla riforma dell’ostruzionismo, necessaria per portare a termine molti di questi progetti. I progressisti pensano che solo realizzando queste riforme i democratici possono mantenere la loro ristretta maggioranza al Congresso nel 2022. I democratici moderati hanno invece una visione diversa. Credono che il modo migliore per massimizzare le possibilità di vittoria il prossimo anno sia limitarsi alle priorità principali degli elettori – Covid-19 ed economia – e mettere da parte le politiche più polarizzanti.
Già a novembre, dopo il deludente risultato elettorale per il Congresso, molti deputati eletti e sconfitti hanno attaccato l’ala progressista del partito. L’idea è che l’utilizzo di alcune formule – “socialismo”, “defund the police” – abbiano danneggiato i candidati centristi in seggi decisivi ai fini degli equilibri congressuali. Una ricerca di Third Way, think tank vicino alle posizioni centriste dei democratici, sembra confermarlo. Lo studio ha rilevato che i candidati progressisti hanno avuto performance più basse rispetto a Biden nei distretti presi in considerazione, con una media di 7,1 punti percentuali. I candidati moderati hanno invece avuto performance più basse rispetto a Biden di soli 4 punti percentuali. Una differenza che cresce nei distretti identificati dai democratici come quelli più incerti.
Come in passato lo scontro tra le due anime si sposterà alle primarie dove già oggi qualche candidato progressista ha deciso di sfidare i deputati moderati in carica. Ed è la ragione per la quale i democratici centristi del Congresso sconfitti alle elezioni del 2020 hanno creato un comitato di azione politica per difendere i moderati della Camera nel 2022. Shield PAC spera di raccogliere ventisei milioni di dollari da utilizzare nei distretti in bilico e che probabilmente determineranno quale partito controllerà la Camera degli Stati Uniti.
È vero che ogni volta che i democratici hanno affrontato riforme profonde le sconfitte alle elezioni di midterm sono state pesanti: nel 1966 Lyndon Johnson fu sconfitto dopo la Great Society, i diritti civili e la legislazione sul welfare; nel 1994 Bill Clinton fu sconfitto dopo aver approvato controversi provvedimenti economici; nel 2010 Barack Obama fu sconfitto dopo il pacchetto di stimolo economico e finanziario e la riforma sanitaria.
Le uniche volte che un presidente ha migliorato la sua situazione nelle elezioni di midterm del suo primo mandato sono state nel 1934, con il First New Deal di Franklin Delano Roosevelt e nel 2002 con la “War on Terrorism” di George W. Bush.
Che Biden si ispiri a FDR non è un mistero. Ma il rischio è di fare la fine di Johnson. Almeno in termini elettorali.


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