Chiudo gli occhi e percorro qualche metro della fondamenta deserta. Quando ero bambino mi piaceva mettermi alla prova così, per valutare la conoscenza dei luoghi in cui vivevo, dei masegni, delle pietre. Torno a farlo oggi, questo gioco, dopo anni. Perché anche volendolo giocare, la massa di turisti che era di abitudine in città fino allo scorso anno, lo avrebbe certamente reso impossibile. Sono a Venezia per firmare importanti documenti che devono essere spediti subito: un impegno urgente e improrogabile. È da un anno, a causa del Covid, che non torno nella mia città, che stranamente e al contrario di qualche tempo fa, inizia a mancarmi.
Scendo dal parcheggio di Piazzale Roma e mi inoltro nella forma urbis che ben conosco. Ma non è come al solito. C’è qualcosa di strano in questa città con pochissima gente, con le serrande abbassate, con uno strano odore piacevole di salmastro. È proprio chiudendo gli occhi che mi rendo conto della somiglianza. Mi sovviene una domenica, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. Ci sono le giostre in Riva degli Schiavoni; io e alcuni miei amici ci andiamo, quando possiamo. C’è molta gente, molti bambini, un vociare continuo. E quando è tempo di tornare, imbocchiamo una calle che ci porta verso San Zaccaria. Ecco: è quella la Venezia che mi torna alla mente oggi. Dopo il frastuono delle giostre, ci accorgevamo, superata quella soglia fatale della calle, che la città era deserta, le serrande abbassate, il silenzio incombente, pochi i passanti a ricordarci che vivevamo in una città unica e strana.

Provo questa sensazione oggi, mentre cammino per raggiungere la mia meta: che il tempo, per il gioco dispettoso di una fata birbona, sia andato a ritroso, per riportarmi a quella Venezia che è rimasta nei sogni di un bambino diventato ormai anziano.
E così mi trastullo per la città, finito il mio impegno istituzionale, e passeggio per il centro, che presenta la desolazione di una domenica di cinquant’anni fa, quando la differenza tra la moltitudine di gente che si divertiva alle giostre e il deserto delle calli vicine mi faceva stringere il cuore e sprofondare in una sorta di tristezza leopardiana.
Piazza San Marco è l’emblema di questa Venezia che la pandemia ha trasformato: solo due vigili, nella loro uniforme gialla, a prendere il posto di migliaia e migliaia di volti, di colori, di suoni, di lingue. Sento uno strano tintinnio, sempre uguale, quasi ritmico, che mi ricorda il rumore dei cordami che sbattono, a causa delle onde, sugli alberi delle barche a vela attraccate nei porti. Mi accorgo che sono le corde dei tre grandi pennoni portabandiera di fronte alla basilica, che a causa del vento sbattono sul metallo. Un rumore che mai avrei percepito tra i mille frastuoni della Piazza che ci siamo abituati a vedere e che mi riporta alla mente il rapporto forte e ancestrale che Venezia ha sempre avuto col mare. Quel legame che purtroppo veniva artatamente rappresentato, fino a qualche mese fa, solo dal passaggio delle grandi navi in Bacino.

Continuo il cammino e ai piedi del ponte dell’Accademia incontro tre gondolieri in perfetta tenuta che chiacchierano; uno di loro s’è portato anche uno splendido boxer francese, che sta prendendo il sole beatamente ai piedi del padrone. Le loro gondole sono ormeggiate a pochi metri, in Canal Grande. I tre sanno perfettamente che oggi non ci sarà nessun turista da trasportare; né ci saranno le serenate cantate da improbabili tenori romeni, né le imprecazioni ai vaporetti e alle imbarcazioni che provocano onde. Sono lì, probabilmente, per abitudine: per rappresentare con le loro divise a strisce quella città che provava, sino a pochi mesi orsono, una sorta di amore e odio per i turisti, considerati al contempo sacri e da spennare.

Arrivo alle Zattere e mi accorgo che di fronte alla chiesa dei Gesuati ci sono grosse macchie nere sui masegni e sui marmi del sagrato. Non sono belle da vedere, ma anche quella che sembra una sporcizia a me ricorda l’infanzia, quando andavo a pesca col nonno. Sanno di marino quelle grandi macchie scure: è il nero delle seppie che, prese nel retino, spruzzano all’aria la loro ultima difesa. Si andava di sera, col buio, a pescarle, mentre nuotavano in superficie lungo le rive; poi le onde del canale della Giudecca, che somigliava più a un braccio di mare che a un canale veneziano, hanno reso difficile se non impossibile questo tipo di pesca. Che ora è tornata di moda, per l’assenza del moto ondoso e, forse, anche dell’ebrezza economica che il turismo donava a molti.
Lungo una fondamenta trovo tre negozi di paccottiglie, vicinissimi l’un l’altro e ovviamente serrati: specialità veneziane, venivano chiamate un tempo quelle botteghe, ma nell’era pre-Covid nessuno aveva più il coraggio di chiamarle così. Mi avvicino ad uno e traguardo, attraverso la serranda, la vetrina buia. Maschere di carnevale di orrenda plastica; qualche cappello con piume di struzzo impolverate; il lungo naso adunco di una maschera del dottore della peste, tragico e attuale memento mori; gli immancabili animaletti e qualche vaso di vetro cinese. In fondo, tra la paccottiglia, qualcosa si muove: è una gondola di plastica, come quelle che una volta si portavano a casa dal viaggio di nozze a Venezia e si mettevano in camera, a imperituro ricordo, per figli e nipoti, di quei momenti felici e lontani. Per qualche strano caso la batteria non si è ancora scaricata e la gondolina continua ad oscillare perpetuamente, sballottata tra le onde di un immaginario rio.

Ormai sono quasi di ritorno verso Piazzale Roma, dopo qualche ora trascorsa a passeggiare, pensando un po’ al passato e un po’ al presente. Mi accorgo però, e mi angoscia non poco, che non riesco a pensare al futuro di Venezia, a come sarà questa città quando la pandemia sarà terminata e a quando torneremo alla normalità. Forse per il timore che tutto torni alla normalità di prima, che non era per niente normalità.
Servizio fotografico di Enzo Bon

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