“Venezia 1576, la peste”. Nel dibattito di Progetto Rialto, Covid convitato di pietra

Da una drammatica cronaca del Cinquecento a un’attuale riflessione sulla città.
TOMMASO ZORZI
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“Parlare di peste in piena emergenza Covid non è per niente originale”. L’inesauribile Donatella Calabi che s’appresta a introdurre la presentazione del libro Venezia 1576, la peste di cui è co-curatrice è tranquillamente consapevole di quanto il legame tra l’attuale pandemia mondiale e le straordinarie pestilenze del passato sia negli ultimi mesi oggetto di numerosi disquisizioni. È tuttavia altrettanto consapevole che l’incontro non si esaurisca in un confronto socio-sanitario o in una valutazione antropologica su quanto le situazioni (e le reazioni umane) nella storia si ripetano (tema inesorabilmente affascinante). Ma, come per tutte le iniziative promosse dall’Associazione Progetto Rialto di cui Calabi è presidente, la storia è un’occasione di riflessione profonda e progettuale sul tempo presente. Pertanto più che i contenuti affascinanti, tragici, dettagliati della pubblicazione, siamo portati a immergerci nella variegata lettura del presente sussurrata dal testo e amplificata dai contributi di quattro differenti studiosi, che prendono forma attraverso la duplice e affascinante lente proposta per l’incontro: storia e innovazione.

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È martedì 20 aprile e 130 persone sono collegate in zoom per assistere alla presentazione di Venezia 1576, la peste – una drammatica cronaca del Cinquecento, pubblicazione edita da Cierre edizioni, curata da Donatella Calabi, Luca Molà, Simone Rauch, Elena Svalduz e anticipata dal bell’articolo La peste nei documenti di un notaio. Quattro secoli fa, come fosse oggi con Covid di Barbara Marengo.

L’opera è descritta da Alessandro Marzo Magno, scrittore e giornalista veneziano e primo ospite della serata. Il testo è principalmente una ripubblicazione del diario del notaio Rocco Benedetti che, di cancello a Rialto, descrive con grande efficacia narrativa l’evolversi della tremenda pestilenza che nel 1576 colpisce Venezia. La narrazione dei fatti, suddivisa in nove capitoletti, è poi impreziosita da documentazioni storiche di varie fonti, che vanno a confermare e arricchire la visione soggettiva del notaio. I contenuti sono scorrevoli e affascinanti, addirittura sconvolgenti per chi si inerpica per la prima volta nello studio dettagliato della gestione della pandemia del XVI secolo, e talvolta tragicomici quando si approfondiscono vicende singolari, come quella di Antonio Gualtiero, che vende urina come antidoto alla peste e che “vomitando l’anima venne ad uccider sè stesso col suo rimedio”, o di Annibale Giroldi, che si fa portare al lazzareto vecchio per “far miracoli” e muore di peste “nello spatio di pochi giorni”.

Si focalizza invece sul presente Francesca Pazzaglia, docente di psicologia dell’Università di Padova, che pone l’attenzione sulle conseguenze sociali della pandemia, vissuta con il medesimo sistema di reazione traumatico oggi come allora. Per la società odierna la pestilenza costituisce un’esperienza collettiva unica, di scala globale (più condivisa persino delle guerre novecentesche) che andrà a marcare inevitabilmente un prima e un dopo. La pandemia costituisce un momento di rottura, che altera inevitabilmente la percezione di alcuni aspetti quotidiani: la distanza di comfort tra persone, il significato e l’uso della propria abitazione, la ricerca e il contatto con la natura e degli spazi aperti e liberi. La percezione mutata e sofferente narrata da Pazzaglia ricorda quel “sentimento di esilio” ben descritto da Albert Camus, nel romanzo La peste del 1948, ritornato alla ribalta proprio durante i mesi di lockdown (terzo libro più venduto già a febbraio 2020!). Pazzaglia tuttavia sottolinea che il messaggio che si ricava dal diario di Rocco Benedetti è positivo: dalla pestilenza se ne esce, ma è fondamentale trovare il modo di vivere bene in una realtà che può essere precaria.

L’ambito della contemporaneità è ancor più marcato da Francesco Erbani (giornalista di Internazionale), che pone l’attenzione sulla funzione del patrimonio storico come prezioso servizio pubblico. La pandemia può essere colta come occasione unica per ripensare la città d’arte. Passato il Covid non deve tutto rientrare come era prima (tema ripreso anche nell’articolo “passeggiando per una Venezia di altri tempi”, di Enzo Bon). E in particolare è fondamentale mettere in discussione la relazione stretta tra il patrimonio che si custodisce e il turismo.

Il turismo è diventato, talvolta, la ragion d’essere del patrimonio. Pertanto se scompare il turismo rischia di scomparire anche l’interesse per la conservazione e la valorizzazione del patrimonio. E con questa logica si chiudono i musei, luoghi già di per sé semi deserti (e pertanto per nulla a rischio di assembramento) e i siti archeologici (che possibilità di contagio nei sessanta ettari all’aperto di Pompei?), che in questa parentesi priva di turismo avrebbero potuto assolvere un compito culturalmente innovativo: instaurare una relazione più stretta con i pubblici più prossimi. 

Il turismo, continua Erbani, “è patologico se diventa regolatore di tutte le funzioni di una città”. E questo riguarda anche l’abitare, tema molto caro al giornalista, (autore, fra l’altro di Non è triste Venezia su cui approfondisce il tema). Se si pensa che il numero dei morti della peste del 1576, pari a circa un terzo degli allora 150 mila residenti, è pressoché identico al numero degli attuali abitanti del centro storico (circa 50.000), la lettura di Erbani si fa ancora più allarmante. Venezia va abitata allora come ora, e va abitata in una situazione di costante e consapevole vulnerabilità: la città d’altronde condensa tutte le questioni ambientali: cambiamento climatico, rapporto tra costruito e inedificato, l’ecosistema anfibio della laguna… temi al centro della transizione ecologica che è declamata ma non ancora articolata.

La presentazione si conclude con il conciso e prezioso intervento di Shaul Bassi, docente dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e direttore del Venice Center for Humanities and Social Change, che parte da Shakespeare e dalla letteratura (Il mercante di Venezia e Otello sono di qualche decennio successivi alla pestilenza narrata nel libro) per porre l’attenzione su due aspetti: l’intervento del governo pubblico e la complessità del presente.

Il governo del Cinquecento, sottolinea Bassi, ha investito nel patrimonio artistico in maniera molto importante, al fine di edificare non soltanto un monumento emblematico affidato al più grande architetto del tempo (Andrea Palladio) ma soprattutto un movimento civico che ancora oggi è tra i più importanti di Venezia: la festa del Redentore. Con animo simile ci si aspetta che anche il nostro tempo sia governato con sguardo culturale e lungimirante dalla politica pubblica.

Il secondo punto prende spunto dal panegirico di Venezia presente alla fine dell’opera: “Rende a Venezia a chi ben la mira dal di dentro”. L’accenno è nuovamente ai futuri abitanti della città: l’investimento deve essere fatto su chi può venire non solo per assaggiarla, ma per mirarla di dentro, “che poi ci sarà diletto e stupore”. Shaul Bassi termina con un riferimento biblico, e con l’invito ad una forte conversione, non religiosa ma sociale, che generi nuovi cittadini, abitanti, affezionati difensori della Venezia che fu.

C’è tempo, e volontà e curiosità, per qualche intervento dal pubblico, decisamente colto e preparato, che non si fa attendere e che ribadisce l’interesse per uno sguardo contemporaneo alla città infetta.

Durante il dibattito conclusivo si ribadisce l’importanza del cambiamento dell’aspetto urbano della città, con riferimento alla caduta demografica della popolazione (Paola Lanaro, docente Ca’ Foscari), presentando anche alcune soluzioni di discreto successo messe in campo dall’Università (Luca Zambelli, cda Iuav), e si propone di aggiungere alle parole chiavi complessità, innovazione e storia anche “servizio” (Marigusta Lazzari, Fondazione Querini). 

La variegata e intensa presentazione di Venezia 1576, la Peste svela con ancor più chiarezza la possibilità che costituisce per un lettore contemporaneo affrontare questo libro.

Innanzitutto è una preziosa occasione di ricordare il significato della storia e il valore della documentazione d’archivio: un evento straordinario può riportare all’attenzione testi e fonti conosciute ma di relativa importanza, che improvvisamente acquisiscono un valore e un sapore nuovo alla luce del contesto di chi le studia.

In secondo luogo ci descrive un atteggiamento di sgomento e perseveranza, rispetto alla lotta al contagio. Poco di ciò che si fa (ora come allora?) pare funzionare, eppure le azioni si susseguono in una ferrea e perseverante volontà di resistere.

Infine ci ricorda lo spirito e la capacità di rinascita di Venezia, città limitata eppure mai sazia, che coglie, muta, crea il meglio del suo tempo per difendere e rinnovare la sua bellezza.

“Venezia 1576, la peste”. Nel dibattito di Progetto Rialto, Covid convitato di pietra ultima modifica: 2021-04-26T17:37:50+02:00 da TOMMASO ZORZI
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