Alf Ramsey non era propriamente un simpaticone, eppure, da commissario tecnico dell’Inghilterra, aveva creato e difeso fino alla fine un mito destinato all’eternità. La vittoria casalinga del ’66 costituisce, infatti, l’unico alloro internazionale conquistato da una Nazionale tanto grande quanto eccessivamente presuntuosa, al punto che nelle prime tre edizioni dei Mondiali non si vollero confondere con la “plebe”, salvo poi essere eliminati, nel ’50, da un gol di Gaetjens, un haitiano naturalizzato statunitense con una vicenda personale incredibile, capace di infliggere ai sedicenti maestri una delle sconfitte più amare della loro storia. L’unica volta che i leoni d’Inghilterra hanno dato il massimo è stata, per l’appunto, nel ’66, quando giocavano in casa e nella finale del 30 luglio contro la Germania Ovest furono favoriti anche da un arbitraggio non propriamente impeccabile e da un gol fantasma di Hurst che, nei supplementari, indirizzò la sfida a favore dei padroni di casa.

Ebbene, apprendere ora che quattro di quei campioni sono morti di Alzheimer e un quinto, sir Bobby Charlton, ha contratto la stessa patologia mette profonda tristezza. Un idolo si sta spegnendo nell’oblio, solo, dimenticato da tutti: di quei fuoriclasse rimangono solo le immagini di giorni ormai lontani, quando lui e i suoi compagni erano ragazzi col sorriso sulle labbra e la Rimet in mano, sotto gli occhi compiaciuti di una giovane regina Elisabetta.
Ray Wilson, Jack Charlton, Nobby Stiles, Martin Peters: questi i nomi dei campioni defunti: è una Spoon River senza epica, un declino che di rado trova spazio sulle prime pagine dei giornali perché per noi, in questo tempo amaro e vincista, i fuoriclasse sono tali fino a quando alzano trofei; quando inesorabilmente declinano, non siamo più in grado di comprenderne e accettarne la dimensione umana.

Qualcuno dà la colpa ai troppi palloni pesanti colpiti ossessivamente di testa durante gli allenamenti, causando danni cerebrali a lungo andare irreparabili, ma non abbiamo strumenti per dire se sia così o meno. Sappiamo solo che stiamo assistendo allo straziante addio di una formazione che ha segnato un’epoca, costituendo un modello e un punto di riferimento per una nazione singolare che quella volta abbiamo amato, così come abbiamo amato altri protagonisti di quei mondiali ambientati ai tempi dei Beatles, nel paese di tutte le libertà e nel periodo aureo della Swinging London.

Gli inglesi di Ramsey, in quell’occasione, si sostituirono ai brasiliani e restituirono al calcio europeo la propria nobiltà, in un ventennio, dal ’50 al ’70, in cui ben quattro edizioni della Coppa del mondo volarono in Sudamerica. L’idea che quei ragazzi del ’66 non ci siano più o che non siano più in grado di raccontare la loro storia, i loro eccessi, la loro meravigliosa follia, i loro sogni di gloria e il loro successo, in un torneo che per l’Italia rappresenterà sempre uno dei punti più bassi del nostro calcio, per via della beffa patita a Middlesbrough contro gli sconosciuti nordcoreani, quest’idea è devastante.
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Osserviamo la foto di quei giovani e ci tornano in mente reminiscenze leopardiane sulla natura matrigna, che prima ci illude e poi ci inganna, fino a far svanire tutte le nostre speranze. Di quella stagione del mondo in cui tutto sembrava possibile è rimasto poco o nulla. È come se il destino avesse deciso di farci pagare, in una volta sola, il prezzo di quella gioia straordinaria. Silenzio e ombra in un periodo buio.

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