Cancel culture, un nemico immaginario che unisce la destra e divide la sinistra

Storia di come un concetto, nato sull’onda dei nuovi movimenti per i diritti civili, è diventato il mantra dei conservatori americani. E non solo.
MATTEO ANGELI
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Vogliono censurarci e cancellare la nostra cultura: è questo in America il nuovo mantra della destra post-trumpiana, schiacciata sulla difensiva di fronte all’avanzata delle battaglie progressiste. I conservatori fanno terrorismo psicologico, esasperando a suon di fake news le istanze di chi è stato a lungo oppresso e ora ha voce. The Donald, i suoi discepoli e la loro macchina da guerra politico-mediatica agitano così lo spauracchio della “cancel culture”, la cultura della cancellazione, concetto funzionale a ridicolizzare e deformare le battaglie dei loro avversari. 

Si tratta di una strategia che funziona e si diffonde a macchia d’olio, tanto che le medesime tattiche sono riprese dalla politica e dalla stampa italiana. Con parte di coloro che si definiscono progressisti che cascano puntualmente nel tranello. 

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Come nasce questo dibattito? Negli Stati Uniti, il concetto di “cancellare una persona” è fatto risalire al 1991, quando comparve per la prima volta nel film “New Jack City”. Il termine, però, cominciò a circolare in maniera diffusa solo nel 2014, sul “Black Twitter”. Questo indica un gruppo di utenti costituito principalmente da persone africano americane, che utilizzano il social per esprimersi su temi che interessano la loro comunità. “Sei cancellato”, nel suo uso iniziale, indicava una presa di posizione personale, una reazione – seria o scherzosa – nei confronti di qualcuno del quale non si approvava il comportamento. 

Rapidamente, però, l’espressione venne impiegata non solo per rispondere ad amici e conoscenti, ma anche per colpire celebrità o personaggi pubblici, responsabili di aver assunto un atteggiamento offensivo nei confronti di un determinato gruppo. Diventa quindi una forma per invitare a boicottare chi, nonostante il suo comportamento riprovevole, continua indisturbato a calcare la scena pubblica. Una strategia di comunicazione adottata da #MeToo e #BlackLivesMatter, grandi movimenti che portano la società americana, e non solo, a mettersi in discussione. Il loro fine è di ribaltare la tradizionale narrativa di vittime e colpevoli, puntando il dito contro predatori sessuali e forze di polizia fuori controllo. 

“Cancellare qualcuno” diventa quindi uno strumento di giustizia sociale, un modo per combattere, attraverso l’azione collettiva, gli squilibri di potere che esistono tra chi gode di fama e pubblico smisurati e chi è ferito dalle sue parole o azioni.

C’è chi paga perdendo il lavoro. Si pensi al “comico” Kevin Hart, che rinunciò a presentare gli Oscar del 2019. Hart, solo qualche anno prima, aveva pubblicato una serie di orrendi tweet omofobi. Quando nel 2018 l’Academy annunciò che avrebbe condotto il prestigioso premio cinematografico, si sollevò un polverone su Twitter, con gli utenti che ripubblicavano, indignati, le parole omofobe di Hart. Il comico, piuttosto che scusarsi, preferì rinunciare alla presentazione degli Oscar. 

Un altro caso emblematico è quello di Woody Allen. L’attore e regista è stato accusato per anni dalla ex moglie Mia Farrow di aver violentato la figlia adottiva Dylan. Diverse indagini hanno indicato l’assenza di prove. Ciononostante, a causa delle rinnovate campagne di protesta contro Allen, Amazon ha annullato un accordo di produzione e distribuzione per i suoi nuovi film e la casa editrice Hachette ha cancellato l’uscita della sua biografiaA proposito di niente, negli Stati Uniti. 

La questione è prettamente economica: l’opinione pubblica è sempre più consapevole (“woke”, come dicono in maniera spregiativa i conservatori americani) e le grandi aziende si adeguano ai nuovi gusti della popolazione. 

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Coloro che possono definirsi veramente “cancellati” sono però davvero pochi. Potremmo citare il trio Harvey Weinstein, Bill Cosby e Kevin Spacey, tutti e tre accusati di aggressioni sessuali. I primi due sono ormai dietro le sbarre, il terzo marchiato dalle pesanti accuse che gli sono state mosse contro. 

Pe tutti gli altri, è molto complesso misurare le conseguenze degli appelli di coloro che gridano al boicottaggio. Si pensi alla vicenda di J.K. Rowling, l’autrice di Harry Potter, al centro di una rumorosa polemica a causa di una serie di affermazioni definite come transfobiche, che hanno fatto di lei uno dei personaggi più famosi nella bufera sulla cancel culture. Le vendite dei suoi libri non hanno praticamente subito conseguenze.

Il dibattito, ovviamente, non riguarda solo i personaggi famosi, ma è ormai esteso a sempre più sfere della nostra vita: le parole che usiamo, la storia che studiamo, i personaggi che celebriamo, i libri che leggiamo. In uno sforzo di decostruzione, ad esempio, sempre più persone si chiedono se è opportuno leggere certe favole ai propri figli o s’interrogano sul sessismo che si cela nel linguaggio quotidiano. 
È uno sforzo complesso, multiforme, aperto, che viene però banalizzato da una certa politica e trattato in maniera superficiale da certi media, con lo scopo più o meno volontario di delegittimarlo.  

Come fa notare Meredith D. Clark della University of Virginia, parlando della nascita della disputa sulla “cancel culture”, 

Il riferimento [alla cancellazione di una persona, sviluppatosi come già detto nel Black Twitter] è stato colto prontamente da osservatori esterni, in particolare giornalisti con una capacita smisurata di amplificare il loro sguardo bianco. Politici, esperti, celebrità, accademici e anche persone normali hanno cominciato a interpretare l’essere cancellati come una sorta di panico morale, simile a un danno reale, aggiungendo un’accezione al termine originario, associandolo a una paura ingiustificata di essere censurati o messi a tacere. Ma essere cancellati – un’espressione, va notato, solitamente riservata a celebrità, marchi e figure altrimenti fuori portata – dovrebbe essere letto come un ultimo disperato appello alla giustizia.

La “cancel culture” è figlia di questo panico morale, che tenta di discreditare uno strumento – il boicottaggio online, nato per obbligare i potenti a rispondere delle proprie azioni – e farlo passare per una forma d’intimidazione insensata. In altre parole, i carnefici – siano essi razzisti, misogini, omofobi o qualunque altro tipo di promotori della discriminazione – cercano di spacciarsi per vittime. 

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Cancel culture in questo senso è solo l’ennesimo termine inventato dalla destra per colpire i suoi avversari. È una continuazione del più noto “politicamente corretto”, nemico immaginario contro cui s’è scagliato lo stesso Trump per giustificare alcune delle sue uscite più razziste. Ma nella stessa logica s’inseriscono anche il “buonisti”, dato gratuitamente dalla destra italiana a chi chiede una gestione umana dei fenomeni migratori, o l’“ideologia del gender”, altra finzione creata ad arte per decredibilizzare gli studi importanti e numerosi che negli anni sono stati fatti in materia. 

Non stupisce quindi che, durante la convention repubblicana del 2020, Trump si sia scagliato contro la “cancel culture”, dicendo, tra le altre cose:

Gli americani sono esausti a forza di cercare di restare al passo con le ultime liste di parole e frasi che si possono dire… L’obiettivo della cancel culture è far vivere gli americani onesti nel terrore di essere licenziati, umiliati e cacciati dalla società così come la conosciamo. 

Un concentrato puro di terrorismo psicologico, che in Italia tanto ricorda gli argomenti odierni dei detrattori del ddl Zan, che tentano di dipingere la legge contro l’omolesbobitransfobia come una “legge bavaglio”. 

Se funziona, in America lo spauracchio della cancel culture rischia di essere la chiave di volta per unire il Grand Old Party e dividere i Democratici, non tutti pronti a seguire i progressisti nelle loro battaglie. E la stessa dinamica rischia di riprodursi altrove. 

Puntare sulla lotta alla cancel culture, permette ai conservatori di scagliarsi contro gli avversari senza apparire bigotti, normalizzando e mettendo in secondo piano la loro misoginia, il loro razzismo e la loro omofobia. Questo rischia di consentire loro di conquistare parte dei voti moderati, anche sottraendoli al campo democratico. 

Ed è una scusa micidiale per ripulire il proprio passato e giustificare ogni malefatta futura. Trump bloccato dai principali social media? Non è perché ha incitato alla violenza e al rovesciamento di elezioni democratiche, ma perché i media liberal hanno scelto deliberatamente di censurarlo e metterlo a tacere. I repubblicani non rispettano il risultato delle elezioni? Con dei Democratici talmente estremisti, che vogliono eliminare la polizia per permettere ai criminali di scorrazzare liberamente, non bisogna andarci per il leggero.

Possiamo già immaginare come, con toni apocalittici di questo tipo, gli eredi di Trump cercheranno di trasformare il panico morale in un tentativo di giocare sporco. 

Cancel culture, un nemico immaginario che unisce la destra e divide la sinistra ultima modifica: 2021-05-17T10:51:12+02:00 da MATTEO ANGELI
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