La Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu) ha severamente criticato, nel merito e nel metodo, le tre sentenze (Tribunale, Corte d’appello, Cassazione) con cui due giornalisti erano stati condannati a pene pecuniarie e a esosi risarcimenti alle parti civili per un’intervista a un sottufficiale dei Carabinieri su tempi, modalità e movente dell’omicidio di Walter Tobagi, l’inviato del Corriere della Sera assassinato nel 1980 a opera dei terroristi della “Brigata 28 marzo”.
Più di vent’anni dopo il delitto (esattamente nel giugno 2004), il cronista del settimanale Gente Renzo Magosso intervista il brigadiere D. C. (nome in codice Ciondolo) il quale sosteneva di avere avuto la confidenza di un informatore secondo cui vi era un piano per uccidere Tobagi e aveva anche fatto i nomi dei possibili esecutori dell’omicidio. Ancora: secondo l’intervista il brigadiere aveva informato i suoi superiori ma, a suo avviso, non ne era seguito l’approfondimento necessario. Di più: successivamente gli sarebbe stato anche intimato, da due suoi superiori, di tacere sul rapporto che egli aveva redatto.

Per i contenuti dell’intervista, due ufficiali dell’Arma (A. R. e U. B., capitani all’epoca dei fatti) i quali avrebbero assistito all’ordine di silenzio impartito al C., avevano sporto querela nei confronti non solo del brigadiere intervistato ma anche del cronista e del direttore pro-tempore del settimanale, Umberto Brindani.
Il Tribunale di Monza, nel 2007 aveva condannato, oltre al sottufficiale, anche il giornalista e il suo direttore non solo a mille euro ciascuno di multa ma anche al risarcimento del danno quantificato in ben 120mila euro in favore di A. R., nel frattempo diventato generale, e in 90mila euro per la sorella del poi colonnello B., nel frattempo deceduto.
In Appello e in Cassazione le pene per i due giornalisti erano state confermate. Allora Magosso e Brindani erano ricorsi alla Corte di Strasburgo rivendicando la violazione dei loro diritti.

La sentenza della Cedu è stata pronunciata l’anno scorso e pubblicata nella primavera di quest’anno.
Anzitutto l’analisi della sentenza (identica nei tre grado di giudizio):
Secondo le motivazioni dei giudici italiani il diritto di cronaca non poteva essere invocato a scriminante dell’oggettiva portata diffamatoria dell’intervista poiché – quanto al requisito della verità – il cronista non aveva considerato che il processo per l’omicidio Tobagi era pervenuto a conclusioni diverse, specie con riguardo all’organizzazione responsabile dell’omicidio, e non aveva verificato l’attendibilità dell’intervista. E d’altra parte, interrogato a dibattimento, il brigadiere C. aveva riconosciuto il carattere vago e generico del suo rapporto. Vero è che ne aveva redatti più tardi altri più circostanziati, ma di questi non aveva conservato copia o traccia.

Ma, quel che più conta (“a parere del tribunale”) il cronista aveva mostrato di aderire alla versione dell’intervistato.
Replica la Corte europea:
I temi in discussione erano di preminente interesse nella storia d’Italia, rispetto ai quali il pubblico vanta un diritto ad essere informato. E dunque i querelanti potevano legittimamente dolersi con il brigadiere per contestare l’eventuale falsità o parzialità delle sue dichiarazioni. Viceversa quanto al cronista e al direttore, l’oggetto della contesa non poteva riguardare la verità dei fatti narrati ma solo se il cronista si fosse limitato a riportare le frasi dell’intervistato, svolgendo ragionevoli verifiche sulla sua attendibilità e non avesse operato proprie inserzioni.
Lo statuto giuridico dell’intervista giornalistica – ha notato ancora la Corte europea – è infatti diverso dalla cronaca diretta del giornalista. Da questo punto di vista le emergenze (cioè i risultati processuali, ndr) sull’omicidio Tobagi non sono di per sé decisive.
Ma c’è di più:
I giudici nazionali non hanno tenuto conto che la pubblicazione sul settimanale poggiava anche sui fatti narrati dal generale B., i quali apparivano concordare con la versione del C. Quanto al titolo e ai sottotitoli dell’intervista (pure ascrivibili al Magosso), la Corte concede che vi si potesse leggere una inclinazione in favore dell’intervistato, ma non oltre l’ordinaria enfasi dei titoli giornalistici e comunque con sostanziale fedeltà all’originale pensiero del C.
In definiva,
L’ingerenza dello Stato italiano sul diritto di cronaca dei ricorrenti – sebbene prevista dalla legge e per scopi legittimi – si è rivelata sproporzionata, ai sensi dall’art. 10 del testo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sia per le carenze motivazionali appena illustrate e sia per la severità eccessiva delle sanzioni irrogate.
Attenzione, ora: il giudizio della Corte è rilevante sul piano giuridico ma non ha effetti pratici, se non nel caso che i ricorrenti chiedano che, alla luce della sentenza della Cedu, il procedimento giudiziario italiano sia rinnovato alle radici, e ammesso che la Cassazione si rimangi le sue decisioni e disponga il rinnovamento ab ovo del giudizio.
Campa cavallo. Ma resta il precedente, non l’unico in questa specifica materia.

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