Come facevano da ragazzi, quando insieme innervavano la difesa della Grande Inter di Herrera, anche oggi Tarcisio Burgnich e Armando Picchi si sono presi per mano e fatti forza l’un l’altro. Il secondo della preghiera laica che scandì gli anni Sessanta ha raggiunto, lassù, Sarti e Facchetti, Mariolino Corso e Carletto Tagnin e ancora Peiró, Milani e, ovviamente, il povero Mauro Bellugi, cui abbiamo detto addio pochi mesi fa. Ma, soprattutto, ha abbracciato, mezzo secolo dopo, il suo antico capitano, colui che lo aveva soprannominato “roccia” per metterne in evidenza l’asprezza e le indubbie qualità di lottarore, la grinta e il fatto che fosse sempre l’ultimo ad arrendersi.

Tarcisio Burgnich era figlio della miglior tradizione friulana, nato a Ruda, in provincia di Udine, una terra di battaglie e di dolore, al confine fra due epoche e due mondi, in un contesto reso funereo dalla miseria e dalle guerre eppure capace di rialzarsi con la sola forza delle braccia e, nel suo caso, delle gambe, del cuore e dei polmoni. Non a caso, si è portato dietro per tutta la vita l’eredità di quell’Italia arcaica, ferita e disperata che, tuttavia, trovò il coraggio di rimettersi in piedi, proprio come sapeva fare lui dopo le poche sconfitte che ha subito e persino al cospetto del più grande fuoriclasse di ogni tempo, quel Pelé che lo sovrastò a Città del Messico ma senza togliergli la dignità del guerriero indomito che persino in un contesto di sfacelo sportivo riuscì a non perdersi d’animo.
Ha segnato poco, pochissimo, ma per strani motivi si trovò al posto giusto nella notte delle notti, sempre a Città del Messico, allo stadio Azteca, quando in semifinale siglò il momentaneo pareggio contro la Germania Ovest nei pirotecnici supplementari di quella che è stata ribattezzata la “partita del secolo”.

Burgnich, classe 1939, era cresciuto nell’Italia del dopoguerra, in un paese cui nessuno aveva regalato nulla e che era stato costretto a riconquistarsi l’onore dopo la barbarie del fascismo e di una guerra perduta. In ogni campo portava, dunque, la sua voglia di vincere ma, più che mai, il suo volto fiero, modellato dai venti di una regione che forma caratteri e forgiato da una gioventù trascorsa a inseguire un pallone che era, al contempo, sogno e desiderio di riscatto. Non contemplava il divismo, le parole fuori posto, le esagerazioni, le creste e gli eccessi di ogni sorta. Non aveva altra cifra che il lavoro, il sudore e la fame, proprio come i suoi compagni, divenuti campioni ma rimasti sempre uomini. Ora le note di quella poesia che ha conquistato e reso interista una generazione si stanno lentamente, e tristemente, ricomponendo altrove e a noi non resta che immaginarli in sogno, in un Prater di Vienna che vive solo nei ricordi, con il più gregario dei gregari che ferma Di Stéfano e un friulano tutto d’un pezzo che argina sua maestà Puskás. Poi l’Armando alza la Coppa dei Campioni e fanno festa anche Angelo Moratti e l’avvocato Prisco, in quell’indimenticabile notte di maggio del ’64. Adesso tutti dormono sulla collina.

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!