Anche un solo giorno è troppo senza Muhanmad Ali, figurarsi cinque anni. Eppure dobbiamo rassegnarci all’idea che cinque anni fa, il 3 giugno 2016, ci abbia detto addio, a settantaquattro anni, il più grande pugile di tutti i tempi. Non il piu vincente, se vogliamo, ma quella è una mera questione di statistiche. Quando si pensa alla boxe, il primo nome che viene in mente è infatti il suo, per il semplice motivo che Cassius Marcellus Clay, divenuto Muhammad Ali in seguito alla conversione all’islam, è stato l’icona di un decennio e il simbolo di una generazione, protagonista e punto di riferimento di una stagione irripetibile della storia del mondo. Muhammad Ali significa rifiuto della Guerra del Vietnam, lotta costante e disperata contro l’ordine costituito, battaglia per la dignità e i diritti delle minoranze, sostegno alle lotte del reverendo King per il riconoscimento dell’uguaglianza fra bianchi e neri, contrasto a ogni forma di ingiustizia e di barbarie; insomma, è un emblema globale della ribellione contro ogni violenza e sopruso e un mito che non morirà mai. Eppure, l’amara sensazione è che oggi, in un mondo sempre più asfissiato dal business e dalla corsa all’oro, in cui gli atleti sono diventati aziende e i campioni “brand”, un personaggio come Ali non potrebbe esistere.
Certo, abbiamo assistito ai fuoriclasse dell’NBA in ginocchio per protestare contro la crudeltà della polizia ai danni dei cittadini di colore, abbiamo visto numerose manifestazioni di dissenso per rendere omaggio alla figura di George Floyd e riflettere collettivamente sul suo martirio, abbiamo potuto apprezzare un risveglio delle coscienze e una nuova passione civile, dilagante soprattutto nel contesto sportivo americano, ma per avere un nuovo Ali servirebbe la forza collettiva della generazione nata sulle macerie della guerra. Perché nascano personaggi come il gigante buono di Louisville è necessario, difatti, il ritorno della politica.

L’afflato individuale va bene ma non può bastare, così come non possono bastare le dichiarazioni estemporanee e l’impegno una tantum di personalità cui pure va riconosciuto il merito di metterci l’anima per denunciare una situazione oggettivamente insostenibile. Affinché possa cambiare lo stato delle cose, è indispensabile che vi sia una presa d’atto collettiva di quanto sia iniquo e disumano l’attuale modello sociale e di sviluppo, e allora non c’è dubbio che un Hamilton o un LeBron James potrebbero assumere, almeno in parte, il ruolo che ebbe Ali negli anni Sessanta e Settanta.
Lo ricordiamo, infatti, per le sue vittorie sul ring, per la sua arroganza bonaria nei confronti degli avversari, per il suo modo innovativo di combattere ma, più che mai, perché ha dato voce e coraggio ai tanti che non avevano la possibilità di farsi sentire e, grazie a lui, trovarono una bandiera da seguire e un portavoce in grado di esprimere le loro richieste e i loro sogni. Muhammad Ali: campione, capopopolo, attivista politico e leggenda fino alla fine, straziato dal Parkinson ma ancora capace, anche negli ultimi giorni di vita, di ricordarci perché abbiamo creduto nel “sogno americano”. Si è battuto come un leone perché forse qualcosa sarebbe potuto accadere. E in quel forse è racchiusa l’immensità della sua anima indomabile.
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