Pedro Sánchez ha rotto gli indugi e ha deciso di affrontare la crisi catalana. Toccato dal voto madrileno il capo del governo ha visto scalfita la sua posizione. La destra ha evocato il cambio di ciclo, le opposizioni interne e la vecchia guardia hanno rialzato la testa. In un momento difficile ha scelto di alzare la posta e mettersi in gioco in una battaglia che può segnare il suo futuro politico. Una decisione che può finalmente invertire quella spirale che ha portato il paese sull’abisso della peggiore crisi politico-istituzionale della sua giovane democrazia (la Costituzione è del 1978). Lo scontro di nazionalismi ha bloccato il paese per anni, schiacciato in una divisione tra presunti custodi dell’unità nazionale e sedicenti secessionisti, in un conflitto che ha monopolizzato il dibattito pubblico, costruito e esacerbato divisioni, privato di cittadinanza ogni altro sguardo sulla questione territoriale e espulso ogni altro tema, urgenza e dato di realtà.
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Ai primi proclami il governo ha subito fatto seguire un fatto politico concreto: l’indulto ai leader indipendentisti condannati. I tempi sono rapidi, si parla di due settimane per completare il percorso che porta alla scrittura e alla presentazione del provvedimento. Sánchez ha iniziato a metà maggio a sollevare la vicenda. Il 31, durante la conferenza stampa in occasione di un incontro col suo omologo polacco, Mateusz Morawiecki, ha detto:
Prenderemo la decisione in tutta coscienza, non pensando alle persone coinvolte ma ai milioni di catalani e spagnoli che vogliono vivere in pace. Aiutare a risolvere problemi non rappresenta un costo. Il costo per il paese sarebbe lasciare le cose come stanno, incistate nell’anno 2017, e questo non se lo meritano né la Catalogna né il resto del paese.

Giovedì è tornato sul tema con l’autorevole appoggio di Ursula Van Der Leyden, in una conferenza stampa congiunta a Madrid. Si tratta di costruire
concordia e convivenza per curare un dolore che colpisce le società spagnola e catalana.
Consapevole del rifiuto che la misura suscita in una parte della società spagnola si è rivolto a essa chiedendo
un atto di fiducia, un gesto di generosità e magnanimità.
Si fa sul serio, dunque, e che sia così lo dimostrano le reazioni nei diversi campi.
A partire dalle destre che sono tornate, meno numerose, in quella Piazza Colón che avevano riempito due anni fa per protestare contro l’avvio del Tavolo di dialogo tra governo e Catalogna. Allora si cementò l’alleanza tra le destre che avrebbe beneficiato Vox, la parte più aznarista (ci torniamo tra poco) del Partido popular (Pp) e portato al crollo di Ciudadanos (C’s). La “foto di Colón” coi tre leader uniti – Pablo Casado del Pp, Albert Rivera di C’s e Santiago Abascal di Vox – però non si è ripetuta, essendo anzi evitata in tutti i modi da Casado, sempre più in difficoltà per la dipendenza da Vox nella tessitura dei governi locali che contrasta col tentativo di recuperare un’immagine moderata.
Una piazza divisa, litigiosa, monopolizzata dalle bandiere di Vox. Inés Arrimadas, l’attuale presidente di C’s, è stata accolta con fischi e grida di “Traditrice!”. Così anche Casado, fischiato sin da sotto la sede del Pp in calle Génova e poi al suo arrivo, non in piazza ma in una strada affluente. I cori erano per “Abascal presidente!” o per “Ayuso presidente!” (del governo).

Traditori per la piazza sono innanzitutto i social-comunisti al governo, i “golpisti catalani”, tutti coloro che vogliono riportare il conflitto nell’ambito della politica e chiunque ritenga che si possa anche solo parlare di indulto. Una piazza che rappresenta il lavoro svolto da José María Aznar in questi anni. L’ex segretario che ha portato il Pp al governo, guidandolo due volte, influisce sulle destre spagnole dalla guida della sua fondazione Faes, fucina di leader di Pp e Vox, tessitrice di rapporti con la destra Usa trumpiana, think tank d’elaborazione di idee e concetti per la difesa della memoria del franchismo e della Hispanidad minacciata.
Isabel Díaz Ayuso è la stella della filiera di Aznar. “Che farà ora il Re di Spagna, firmerà gli indulti, lo faranno complice di questo?”, ha dichiarato scatenando critiche da sinistra e imbarazzi (e smentite) dal Pp. Il Re, che per la Costituzione non può rifiutarsi di firmare le leggi del Parlamento, neanche può rimandarle alle Camere in maniera motivata per una volta come il nostro Presidente della Repubblica, viene pesantemente coinvolto. La gaffe di Ayuso rappresenta bene l’istinto anticostituzionale dei sedicenti difensori della Costituzione e ci dice anche di un “no” che si scopre in affanno. Neanche tutto il partito sembra stare dietro alle consegne. I risultati della raccolta di firme del Pp contro gli indulti sono scarsi, anche perché nel partito ci sono settori non favorevoli al “modello Madrid” – di privatizzazioni di servizi e spazi pubblici – e che non vedono di buon occhio una scalata di Ayuso nel partito nazionale. Le acque nel Pp sono sempre più agitate.

Perché l’indulto? Per diversi motivi, il primo legato alle necessità del dialogo. Occorre un “gesto” da parte del governo di Madrid che parli a due settori, la società e la politica catalana.
La politica catalana, nel campo indipendentista, è ferocemente divisa. Il governo dell’Autonomia è stato finalmente varato ma l’alleanza tra Esquerra republicana de Catalunya (Erc) e Junts pel Cat (JxC), con l’appoggio esterno degli anticapitalisti della Candidatura d’unitat popular (Cup), è fragile. L’accordo, che già era tra avversari in lotta per l’egemonia del campo indipendentista, è ora gravato da una divaricazione strategica: Erc ha compiuto una svolta “realista”, prendendo atto della fine della “via unilaterale” in favore dell’apertura del dialogo con Madrid; JxC propugna ancora a parole l’unilateralità.
Eppure sono costretti a un governo nel quale si misurerà proprio su questo la resa dei conti. La Cup subordina il suo voto al mantenimento della conflittualità con lo stato. Il governo della Generalitat è anche questo: una maggioranza con una destra iperliberista che si tiene coi voti dell’estrema sinistra, aspetto su cui merita di soffermarsi un attimo.
Dolores Sabater, annunciando il voto favorevole della Cup all’investitura di Pere Aragones (Erc) come presidente della Generalitat, criticando i Comuns di Ada Colau per l’ostilità verso “il maggior movimento popolare di autorganizzazione e disobbedienza”, li ha invitati a “unirsi a questa crociata di rottura del regime”.
Il dominio del mito e della propaganda sulla politica catalana è tutto in una sinistra anticapitalista che evoca crociate per appoggiare un governo con la destra liberista e privatizzatrice di JxC.

Davanti a miti e propaganda, la realtà e i rapporti di forza passano in secondo piano. Anche qui Erc è quindi “traditrice”, di un’indipendenza unilaterale mai dichiarata, e lo è anche il leader incarcerato, Oriol Junqueras. Che in una lettera sul quotidiano Ara l’otto giugno, significativamente intitolata “Guardando al futuro”, ha dato la linea, riconoscendo l’importanza del “gesto” dell’indulto, e affermato il suo impegno per “la riconciliazione, il dialogo e il negoziato”. Un passaggio importante è quello dove stigmatizza come l’azione dello stato sia stata “sempre meno legittima” ma ammette che “nemmeno la nostra risposta non fu recepita come legittima da una parte della società”. Ha poi citato “il modello scozzese”, cioè un referendum ma solo con un accordo politico istituzionale. È la fine dell’unilateralità, la scelta definitiva del dialogo, della presa d’atto della realtà e dei rapporti di forza, il riconoscimento della democrazia dell’avversario. La fine, insomma, del Process, come lo abbiamo sin qui visto. Passaggio necessario, indicato già in un dibattito politico che segnalammo due anni fa, che guardava alla vicenda catalana a partire dall’analisi del pensiero e della prassi politica di Enrico Berlinguer.
JxC non vuole il dialogo. Quindi non indulti ma amnistia, mantenimento della via unilaterale. Così chiede Carles Puigdemont dall’autoesilio di Waterloo. Il leader del partito Jordi Sánchez, anche lui incarcerato, ha visto nel testo di Junqueras “una revisione radicale di aspetti essenziali dell’indipendentismo”. Reazioni dure sono arrivate dalla sua ex associazione, l’Asamblea Nacional Catalana (Anc): Erc “deve chiarire la sua posizione” perché “non è percorribile la strada del confronto con uno stato con cui ci scontriamo”. Ma il nervosismo è così alto che anche Jordi Sánchez è finito nel mirino per aver affermato: “Sono tra coloro che credono che il primo ottobre [data del “referendum” del 2017 – ndr] fu concepito più per forzare il governo a aprire una via di dialogo e negoziazione che per proclamare l’indipendenza”. Brandelli di realtà irricevibili nella dimensione propagandistica che gli sono costati duri attacchi e un manifesto contro.
Il secondo scenario a cui Sánchez si rivolge è la società catalana, stanca di guerra ma ancora ferita dalla violenza dello stato e dalla durezza delle condanne, come dal disprezzo dell’escalation indipendentista. L’indulto è un gesto soprattutto per loro, un fatto concreto che aiuta a liberarsi dalla gabbia delle propagande, a immaginare un futuro di riconciliazione. La macchina del dialogo è in moto, anche l’imprenditoria catalana appoggia gli indulti e la distensione, e lo fa davanti a Pablo Casado in visita alla padronale locale. Come influirà sulla tenuta del governo della Generalitat lo vedremo col tempo.

Il quadro politico spagnolo è in grande movimento. Nel Psoe la vecchia guardia, Felipe González, Alfonso Guerra e altri ex dirigenti hanno attaccato duramente Sánchez, con interventi pubblici e interviste a giornali di destra, dimenticando le migliaia di indulti emessi dai loro governi o da quelli del Pp. Ma intanto il segretario ha conquistato anche la potente federazione andalusa, con la vittoria del suo candidato, Juan Espadas, a sancire la sconfitta di Susana Díaz e del “felipismo” andaluso, avvenuta anche sul tema dell’indulto che Sánchez ha voluto concretizzare prima delle primarie locali. Nel frattempo, Unidas Podemos inizia il cammino della sua vita post-Pablo Iglesias, dopo il ritiro dalla politica del leader e fondatore. Domenica scorsa la IV Asamblea ciudadana di Podemos ha eletto Ione Belarra segretaria generale, mentre dal governo la ministra del Lavoro Yolanda Díaz, di Izquierda unida, continua la costruzione di una nuova leadership, in una bicefalia femminile su cui i viola puntano per affrontare la nuova fase.
Dopo anni sembra che i tempi per uscire dalla crisi catalana siano maturi, per andare dove è meno chiaro. Il quadro politico non sembra poter esprimere maggioranze in grado di affrontare la crisi del patto nazionale spagnolo, da cui quella catalana deriva, affrontando una complessiva riforma costituzionale. E nel governo i temi sociali continuano a dividere i soci. Sánchez prepara anche una crisi dell’esecutivo che sostituisca ministri protagonisti degli scontri con Podemos, anche approfittando del calo di tensione determinato dall’abbandono di Iglesias e dalla provata capacità di confronto della ministra del Lavoro. Il segretario accelera anche perché, fallito il suo tentativo di spostare gli equilibri al centro, con la progressiva scomparsa di Ciudadanos, è dovuto partire all’offensiva per evitare l’erosione che il voto madrileno aveva configurato. L’indisponibilità del Pp a forme di collaborazione lo schiaccia a sinistra e se queste sono le acque in cui navigare modellerà il governo a questo scopo.
Ma questi sono problemi che arriveranno dopo la crisi di governo, forse prima del congresso del partito che si terrà a ottobre. Intanto guardiamo con attenzione alla nuova fase che si è aperta perché la Spagna non poteva proseguire a lungo in questo stallo. L’indulto serve anche a evitare che il Tribunale europeo dei Diritti umani smentisca clamorosamente la giustizia spagnola, come già hanno fatto i tribunali europei disconoscendo, in occasione delle richieste di estradizione dei leader indipendentisti rifugiatisi all’estero, la sussistenza del reato di insurrezione così come definito dal Tribunale supremo. La Spagna avrà molto da guadagnare se riesce a mettere mano alla crisi catalana.
Immagine d’apertura: le bandiere spagnola e catalana sventolano sul Palau de la Generalitat de Catalunya

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