[ROMA]
Domenica 20 giugno si tengono a Roma le primarie del centrosinistra per la scelta del candidato sindaco, che si voterà a ottobre. Sette le candidature, anche se i giochi sembrano già fatti: Roberto Gualtieri, ex ministro dell’economia del Conte II; Stefano Fassina, viceministro dell’economia con Letta, deputato e consigliere comunale; Giovanni Caudo, già assessore alla rigenerazione urbana con Ignazio Marino e presidente uscente del III Municipio; Cristina Grancio, consigliera espulsa dai 5 stelle e candidata dal Psi; Imma Battaglia, protagonista del movimento Lgbtq+, già consigliera nella scorsa legislatura, per Liberare Roma; Tobia Zevi, outsider del Pd che si candidò alla segreteria del partito nel 2013; Paolo Ciani, storico esponente della comunità di Sant’Egidio.
Sono primarie critiche, nelle quali la partecipazione darà segnali sul recupero dell’immagine del Pd dopo la triste vicenda Marino, e a cui non parteciperà Carlo Calenda, l’europarlamentare autocandidatosi la cui propaganda elettorale, con grande impegno di risorse e ausilio della stampa, è per ora l’unica che si vede in città.
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Sarà però importante guardare al risultato di Giovanni Caudo. Tra tutti i candidati è l’unico con esperienza di governo della città, oltre a rappresentare, se non una continuità, almeno un chiaro riferimento alla sindacatura di Ignazio Marino. Cosa rappresenta dunque di diverso, rispetto a Roberto Gualtieri, Giovanni Caudo?
Il III municipio della capitale è sito a nordest del centro storico. Quasi cento chilometri quadrati in cui vivono, secondo i dati ufficiali del 2018, oltre 200 mila persone. Per farsi un’idea delle dimensioni della capitale si pensi che è solo il terzultimo municipio come estensione. Ha una composizione sociale mista che unisce quartieri popolari come il Tufello alle zone residenziali di Monte Sacro. Lì nel 2018 crollò l’amministrazione 5S e alle urne trionfò Caudo. Era riuscito a mettere insieme un centrosinistra ampio, dal centro alla sinistra radicale passando per il Pd. Nei suoi tre anni di mandato ha lavorato molto, avviando progetti partecipati e coinvolgendo nell’azione di governo realtà associative e intellettuali, come lo scrittore e traduttore Christian Raimo, assessore alla cultura, politiche giovanili e valorizzazione del territorio.
Caudo ha lavorato bene, spendendo tutti i soldi a bilancio per le opere pubbliche ma soprattutto ha difeso e ampliato i servizi sociali, avviato progetti per valorizzare il territorio, la scuola, le attività dei residenti, in particolare dei giovani. Ha affrontato la crisi del TMB Salario, centro di raccolta dei rifiuti distrutto da un incendio, e ha provato la pedonalizzazione di piazza Sempione, dove ha sede il municipio, trovando il contrasto del parroco della chiesa, che si opponeva allo spostamento e valorizzazione della statua della Madonna ora ridotta a uno spartitraffico, organizzando manifestazioni con gruppi di estrema destra. Un milieu clerico-fascista al quale, incredibilmente ma non troppo come vedremo, si è unita anche parte del Pd, che pure faceva parte della giunta.

Il modello di Caudo è alternativo a Gualtieri perché è nato a partire dalle forze vive residue del centrosinistra romano. Perché pensa al governo del territorio e non alla sua amministrazione.
La città si governa, non si amministra. È mancata in questi anni proprio la capacità di governare, il che vuol dire anche assorbire contraccolpi, capire la complessità
ha detto in un’intervista a Il Foglio dello scorso ottobre. E ancora, questa volta intervistato dal sito Romareport:
Il governo non corrisponde a quanti poteri hai, ma a come interpreti la delega e la rappresentanza che i cittadini ti hanno dato. Il consenso è importante, altrimenti non ci si candida alle elezioni, ma confido ancora di più nell’interpretare l’interesse generale che chi governa ha il compito e il dovere di perseguire.
Caudo rappresenta insomma un barlume dell’idea di politica di governo urbana come questione di democrazia, tradizione importante del nostro paese e della sinistra, da anni ridotta ad “amministrativismo” frutto di mancanza di analisi e progetto e attento soprattutto alla spartizione delle quote di potere. Un’idea che richiede competenze diverse, culturali, politiche, urbanistiche, di governo della macchina comunale. In questo, Caudo si avvicina un poco, pur nelle differenze di percorso e esperienze, a quello che molti di noi romani hanno visto come una figura “necessaria” per provare a ripensare e a governare, e non solo amministrare, la città: Walter Tocci. Intellettuale e politico di grande valore, capacità, conoscenza della città e della sua macchina amministrativa, Tocci ha aleggiato nelle speranze di molti e in qualche tentativo di movimento che ne promuovesse la candidatura, mai concretizzatasi. Forse le condizioni poste – si parla, senza nessuna conferma in quanto tutto è avvenuto nel riserbo più assoluto, di una candidatura lanciata dai presidenti di municipio del Pd e da realtà associative, e non dal partito, di assenza di liste dei partiti in appoggio alla sua candidatura, di assoluta autonomia nella composizione della giunta – non erano accettabili dal Pd romano e nazionale che, anziché correre da lui in ginocchio pregandolo di candidarsi, hanno fatto di tutto per evitare che accadesse.
L’opzione Caudo è quindi eminentemente politica, e in questo si differenza dalle altre candidature, compresa quella di Gualtieri che, suo malgrado, rappresenta l’incapacità del Pd di rigenerarsi, limitandosi a esprimere il cambiamento della guida del partito nazionale. Il Pd di Renzi scelse Giachetti, quello di Zingaretti e Letta ha scelto Gualtieri. Esemplare di questa incapacità della dirigenza di valorizzare le proprie risorse – quelle che sono rimaste a fare politica fra le macerie – è la vicenda di Emiliano Monteverde nel I Municipio, quello del centro storico, governato dal Pd. Dopo due mandati di Sabina Alfonsi si avviano le primarie. Tra i partecipanti c’è Emiliano Monteverde, assessore uscente al sociale. È molto apprezzato, è giovane, ha lavorato bene e soprattutto ha dialogato con realtà diverse, guadagnandosi stima e ascolto. Il 29 maggio, giorno di conclusione della raccolta firme, organizza la festa per la loro consegna, è quello che ne presenta di più. Poco dopo le 18, alla vigilia della scadenza dei termini di presentazione delle firme, Lorenza Bonaccorsi, ex sottosegretaria alla cultura del Conte bis, a sorpresa su Facebook si dichiara “disponibile” a presentare la candidatura. Subito tutti i big del partito, compresa la presidente uscente Alfonsi che pure aveva appoggiato Monteverde, si schierano al suo fianco. Bonaccorsi in una notte raccoglie le firme necessarie e Monteverde cede, si ritira dalle primarie e accetta un ticket con la futura candidata.
Il Pd al meccanismo partecipativo che la candidatura Monteverde aveva determinato ha preferito la cooptazione, alle energie endogene che hanno preso le redini della macchina abbandonata ha preferito imporre una candidata che non ha nessuna esperienza di governo territoriale e che evoca nell’elettorato romano i tempi bui del renzismo, pur non essendo mai stata organica alla sua corrente, nella logica spartitoria di quote tra le varie correnti per i seggi “sicuri”, in questo caso Paolo Gentiloni.

Ritorna, quindi, pur nei diversi equilibri di potere nel partito, quello che sembra ormai un “Pd eterno”, incapace di affrontare quei cambiamenti cui anche le stesse sorti del partito sono legate. E si ripresenta agli occhi degli elettori quel Pd endogamico e estraneo alla città che è stato più volte bocciato dal suo stesso corpo elettorale. E qui tocca tornare un po’ indietro per capire il processo di estraniamento progressivo dalla città del Pd, che inizia già con la seconda giunta Veltroni e arriva al “caso Marino”.
A Roma nel 2008 diventa sindaco Alemanno. Ha conquistato la poltrona come conseguenza di una infelice scelta di Veltroni, mollare la città per lo scontro con Berlusconi passando il testimone a Rutelli. Una indicazione a dito che fece molto male a Rutelli – il primo e migliore sindaco di Roma dell’era dell’elezione diretta – vissuto da molti elettori, che pure lo avevano votato in passato, come una insopportabile imposizione alla città, frutto neanche di un caminetto ma di un’investitura di stampo imperiale. Molti non votarono e a sorpresa vinse Alemanno.
I cinque anni di Alemanno – malgoverno, nepotismo e scandali – anziché diventare l’occasione di risalire, hanno logorato il Pd romano oltre ogni ipotesi immaginabile.
Non fu per caso ma dipese da scelte fatte da una classe dirigente che in quel momento dominava il Pd romano e, soprattutto, il gruppo consiliare, un vero partito nel partito. Una classe autoreferenziale, asservita agli interessi economici e speculativi, intenzionata a non farsi togliere le rendite ottenute in termini di potere (non di governo, non di politica: di potere). Obiettivo che persegue con un consociativismo bieco e nemico dell’interesse generale, con goliardate in aula in favore di telecamere accompagnate al totale abbandono della funzione di controllo democratico dell’opposizione sul governo della città, o denunciando l’abbandono dei servizi essenziali con evidente espletamento di dovere d’ufficio, mentre tra gli abbandonati non li si vede più.

Dopo il disastroso quinquennio di Alemanno il Pd stenta a trovare un candidato. Roma è una patata bollente che nessuno vuole afferrare. È sull’orlo del fallimento, al notevole indebitamento accumulato da Veltroni, caduto anche nella trappola dei subprime, si è aggiunta la gestione di rapina della giunta Alemanno. Processi e condanne si succedono, si consolida il sistema di Mafia capitale e, per dire delle controllate, all’Atac stampano biglietti falsi per un valore provato in giudizio di 500 mila euro ma che stime ritengono poter essere di decine di milioni. E il Pd è debole nei favori della cittadinanza, malgrado in quegli anni, prima della “cura Orfini”, il partito esistesse ancora, con insediamenti antichi nei territori, si pensi al Tiburtino, grazie ai quali non era ancora il “partito della ZTL”.
Nessuno vuole candidarsi e Bettini (che non ha preso da solo la decisione della candidatura Marino, checché si scriva e dica) arriva a Marino dopo che hanno detto di no figure come il fondatore della comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi, lo studioso Fabrizio Barca, l’ex presidente dell’Aula capitolina e vicesindaco Enrico Gasbarra. Nessuno vuole affrontare il rischio di affondare con Roma, indebitata oltre ogni limite, con le rimesse da parte dello stato centrale in continua diminuzione, col consociativismo che ha intaccato la credibilità del Pd.

Nel 2013 Marino stravince le primarie, stravince le elezioni (63,9 per cento) e diventa sindaco. E si rende conto che Roma è davvero sull’orlo del fallimento e che si deve affrontare un risanamento di stampo “commissariale”. Si scontra subito con “l’apparato” del Pd, col partito nel partito che ha fatto man bassa nei posizionamenti strategici in lista, e col sistema degli eterni incaricati, nella giunta, nelle partecipate, in tutte le nomine in cui c’entri in qualche modo il Comune. Un sistema che vuole portare in giunta metodi, legami e reti di relazioni. Marino viene spesso beatificato ma ha molti limiti, che però un partito con ancora un minimo di senso di responsabilità avrebbe dovuto dannarsi a compensare. Il Pd vuole invece eterodirigerlo, proprio quando Marino ha capito che per riprendere per i capelli Roma occorre dare un taglio a tutti i sistemi di governo finora battuti. Per non cadere nel baratro occorre rompere. Lo fa. Non gliela perdonano.
Lo fa governando bene. Risolve l’eterna questione della più grande discarica d’Europa, Malagrotta; compie un risanamento del bilancio periodico e del disavanzo strutturale che ha stupito gli osservatori (malgrado quel che si legge, Roma in quegli anni, con la sua esposizione finanziaria sui mercati internazionali per i bond emessi per le grandi opere, è sotto le lenti occhiute della finanza internazionale e passa ogni esame); con una difficilissima opera di pulizia e riorganizzazione di uffici determinanti in cui regnano corruzione e mafie (annone, commercio, polizia municipale, edilizia). Ma commette anche errori. Si isola, non solo nel partito ma da quella parte della città più vitale e attiva. Non fidandosi di nessuno accentra tutto. Le rendite di posizione della città cominciano presto a fargli la guerra. Tutti i giornali, Corriere, Repubblica, Foglio, Messaggero, lo attaccano senza nessun rispetto, del sindaco e del loro ruolo. Esemplare la storia della Panda rossa, auto del sindaco, in quanto tale con diritto al permesso per l’accesso alla ZTL, che a un certo punto risulta illegalmente parcheggiata nell’area a traffico limitato. Mentre mafia capitale monta, i grandi giornali locali e nazionali arrivano addirittura a chiedere le dimissioni per qualcosa che per tutti i romani era un evidente errore degli uffici (poi si rivelò qualcosa di peggio, un attacco partito dalle file della Polizia municipale di Roma).
Dopo aver rifiutato gli “impresentabili” che il Pd voleva imporre (qualcuno poi a processo, alcuni assolti e altri no) si trova con una cerchia sempre più stretta e sempre meno competente. Si sovraespone, ha un paio di gravi mancanze, alla fine ci si mette anche il Papa. Ma era oggettivamente in una situazione da crisi isterica: fare il sindaco contro il suo partito che lo vuole far fuori; contro il suo segretario nazionale, Renzi, che lo sbeffeggia in tv; contro il principale gruppo della maggioranza, il suo; con l’indefinitezza di Sel che un po’ l’appoggia e un po’ è anch’essa tutta dentro al sistema consociativo romano e esprime un ceto politico che, fuori dalle stanze degli assessorati, boccheggia in cerca di ossigeno. Viene mollato anche da Bersani: nessuno si vuole mettere contro Renzi per un sindaco che la stampa nazionale (alla quale il Pd ha delegato il ruolo della costruzione della pubblica opinione) sbeffeggia un giorno sì e l’altro pure, con buona pace dei destini della capitale e dell’autorevolezza del sistema informativo.
Nel 2014 arrestano Buzzi e Carminati. Il coinvolgimento del sistema di potere consociativo in Mafia capitale comincia a emergere con chiarezza. In quel sistema c’è anche il Pd che, invece di rinnovarsi, affonda i colpi contro Marino. Il commissario Orfini, mandato da Renzi, smantella il partito, cancellando anche quello che restava di vitale e che scontava il peccato di non essere renziano. Il partito nel partito del consiglio comunale si cementa col commissario e, siamo nell’ottobre 2015, nasce lo sproposito democratico e politico della gita dal notaio per giubilare il proprio sindaco. Sì, Marino si era dimesso, aveva fatto anche altri errori, ma nulla scarica persone, dirigenti politici e giornalisti dalle proprie responsabilità in quella che è stata una vera e propria crisi democratica, fra le maggiori avvenute in Italia negli ultimi vent’anni. I protagonisti nel Pd di quella deriva hanno nomi: Renzi, Franceschini, Orfini; e poi Cosentino, D’Ausilio, Di Biase, Ciarla, Nobili, Prestipino, Marroni… Quel disastro spianò la strada a Virginia Raggi, incapace di tutto, subalterna a poteri e rendite di ogni tipo. E il Pd di oggi, a parte alcuni nomi, non sembra tanto da diverso da quello, nei metodi e nell’incapacità di cambiare.
Per questo l’ipotesi Caudo è interessante. Perché unisce qualcosa dell’esperienza di Ignazio Marino a un’idea di governo per la città che ricorda il pensiero di Walter Tocci, perché fa pensare che, anche attorno al Pd, possano nascere progetti di governo degni di questo nome. Una sua buona performance alle primarie sarebbe importante per la città. Caudo non vincerà, ma le primarie non servono solo a scegliere il vincitore. Confrontano programmi, modelli, esperienze politiche. Se otterrà un buon piazzamento, Gualtieri dovrà fare i conti col “Modello Caudo”, magari inserirlo nella squadra di governo. Influire sul progetto di governo che il candidato vincente proporrà è quasi più importante che scegliere il vincitore, come vediamo con quanto accade con la presidenza Biden negli Usa, dove le primarie le hanno inventate.
In una Roma stanca e piegata da decenni di governi lontani e dalla mancanza di progetti per il futuro, queste cose conteranno e la partecipazione alle primarie non sarà quel fallimento che molti prevedono. Sempre che gli elettori credano ancora nella possibilità di rinnovamento del Pd romano.

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