Un giovane regista in crisi esistenziale fa letteralmente a pezzi l’opera omnia di Shakespeare, ma è anche convinto che in qualche modo, Covid o non Covid, si debba andare avanti. Così, con l’aiuto dell’assistente e confidente, avvia un processo di (ri-)composizione, mettendo insieme scene di conflitto tratte da tre diverse opere del bardo, per costruire uno spettacolo su Zoom che parli proprio del senso della conflittualità tanto presente nella vita di oggi. Attraverso il confronto con gli attori, che interpretano sia loro stessi che personaggi di Macbeth, Romeo e Giulietta e Sogno di una notte di mezza estate, la pièce diventa un modo di rappresentare Shakespeare, ma anche di riflettere su cosa vuol dire fare teatro online, e rispecchia, con l’intreccio di dialoghi che si sviluppano tra i riquadri sullo schermo, la crisi provocata dalla pandemia.
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Tutto questo è Shakespeare’s Conflict Zones, spettacolo scritto a quattro mani da Maggie Rose e Salvatore Cabras e messo in scena a febbraio dall’English Theatre Milan. Si tratta di un esempio decisamente riuscito di “Zoom theatre”, un inaspettato modo di utilizzare una piattaforma per videoconferenze che rivela una creatività che nulla ha a che vedere con le noiose, lunghissime e spesso tecnicamente terribili riunioni online, che ormai la maggior parte di noi fa quotidianamente.

Nell’ambiente del teatro, Zoom e le altre piattaforme online non hanno rappresentato un ostacolo da superare, ma un’opportunità da cogliere, una sfida per rimanere in vita. Nell’esplorare le potenzialità dello strumento, registi, attori e drammaturghi sono riusciti a nobilitare questo mezzo e a farne un’espressione emblematica del mondo di oggi: veloce, contemporaneo e globale.
Ne ho parlato proprio con la drammaturga e docente di letteratura Inglese dell’Università degli studi di Milano Margaret Lynn Rose, a cui ho chiesto dove e quando abbia avuto inizio il fenomeno dello “Zoom theatre”.
Il mio incontro con il teatro online in lingua inglese è avvenuto quasi subito, nel marzo 2020, con ”The show must go online“, un progetto di Robert Myles partito dopo solo una settimana dall’inizio del primo lockdown, grazie a un finanziamento dell’Art Council britannico. L’idea di Myles è stata quella di mettere online tutto il canone shakespeariano: ha ingaggiato attori di lingua inglese da tutto il mondo e ha agito rapidamente, senza tante prove, raggiungendo momenti davvero bellissimi.
Grazie a Zoom, le performance hanno superato i confini fisici: solo gli spettacoli di The Show must go online sono stati seguiti, a oggi, da 200mila spettatori provenienti da 60 diversi paesi, con un cast davvero globale che ha raggiunto i 350 attori di vario livello.

Il limite che Rose ha trovato in queste opere risiede nella loro eccessiva durata, ma è anche partendo da questa considerazione che è nato Shakespeare’s Conflict Zones.
Volevamo tenere insieme il gruppo con cui avevamo lavorato per un anno per realizzare la nostra prima opera come English Theatre Milan, mai andata in scena per via del Covid. Per questo abbiamo pensato a una performance su Zoom, allargando il nucleo di attori a 15 persone, sparsi in tutto il mondo, in un interessante misto tra professionisti e non. Abbiamo effettuato 4-5 repliche, in cui ogni volta ho riscritto la cornice, anche confrontandomi con gli attori stessi, per togliere quello che non funzionava. Ma soprattutto abbiamo cercato di sfruttare al meglio le potenzialità di Zoom, che permette cose che il teatro dal vivo non consente di realizzare, come i primi piani, in cui cogli ogni minima espressione del viso, o la modulazione della voce.

Una delle sfide dello Zoom theatre è però catturare l’attenzione del pubblico, per il quale è molto più facile distrarsi, fare altro o addirittura lasciare l’evento con un clic. Come avete affrontato questo aspetto?
Abbiamo cercato di dare una particolare attenzione al pubblico, soprattutto attraverso il foyer, voluto fortemente da Cabras. Man mano che gli spettatori vengono ammessi, trovano gli attori che si preparano, che telefonano, che chiacchierano, e non sanno bene se stanno già interpretando un personaggio oppure no, ma possono interagire con loro. Inoltre, alla fine della performance, abbiamo lasciato del tempo per le domande e i commenti degli spettatori e questo ha dato ottimi risultati. Certo sono stata anche criticata perché ho fatto interpretare Shakespeare da attori di lingua inglese che non avevano una dizione perfetta, ma a me interessava che emergesse la pluralità dell’Englishness. La soddisfazione maggiore, poi, me l’ha data un giovane attore di venticinque anni che mi ha confessato di non essere mai riuscito a vedere uno Shakespeare dall’inizio alla fine, mentre con noi sì, proprio grazie ai pezzi che abbiamo scelto.
Che futuro vedi per lo Zoom Theatre?
Penso che questa forma di teatro continuerà, non solo nell’eventualità di altri possibili lockdown, ma perché è riuscito ad allargare la platea del pubblico, attraendo persone che per diversi motivi a teatro non ci vanno, ma anche permettendo a spettatori di varie parti del mondo di assistere a spettacoli che altrimenti non avrebbero potuto seguire. Questo, a pensarci bene, è un risultato enorme.

Oltre a voi dell’English Theatre Milan, ci sono stati altri spettacoli su Zoom anche in Italia. Penso ai monologhi di Lydia Giordano de La mia esistenza d’acquario, oppure a Il filo invisibile di e con Andrea Rizzolini, come pure alle Universerìe dello Stabile del Veneto, giusto per fare qualche esempio, ma le esperienze sembrano essere state più sporadiche rispetto al contesto anglosassone e il grande pubblico, in genere, sa poco di questo tipo di performance. Come mai?
Il problema è sempre quello delle politiche culturali. Io, oltre a Milano, ho lavorato con Glasgow durante la pandemia e lì il governo scozzese ha stanziato fondi per lo “Zoom theatre” e altri progetti online fin da subito: questo ha fatto la differenza. Ma non è certo l’unico esempio. Purtroppo, però, da questo punto di vista quello che viene fatto in Italia è troppo poco ed è un vero peccato.


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