Wolfgang Amadeus Mozart “fu l’ammirazione della mia giovinezza, la disperazione della mia maturità e la consolazione della mia vecchiaia”. Queste parole di Gioacchino Rossini, il più mozartiano dei nostri compositori, sono state riportate da Massimo Mila in un suo libro su Giuseppe Verdi. E nella sua raccolta di brevi saggi L’infinito tra le note, pubblicato appena prima della pandemia, queste parole vengono citate anche da Riccardo Muti che, il prossimo 28 luglio, compirà ottant’anni.
Tra i più grandi direttori d’orchestra italiani degli ultimi decenni (assieme a Carlo Maria Giulini, Claudio Abbado, Giuseppe Sinopoli e Riccardo Chailly, ma anche Daniele Gatti), Muti ha espresso il meglio della sua direzione eseguendo i due autori a lui più congeniali, Mozart e Verdi. Mettendo anche d’accordo la critica più avveduta nel ritenere che “il miglior Muti” sia quello seminascosto nel “golfo mistico” a una distanza minima dai suoi orchestrali e a pochi metri dal palco dove l’opera, il melodramma, si dipana articolandosi tra le voci dei cantanti e il silenzio del pubblico in una dinamica spirituale che illumina la magia dell’opera. Un rituale in cui le scenografie non sono meno importanti della musica che a sua volta emerge dall’oscurità della fossa degli orchestrali.
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Questo ruolo invisibile alla platea, che consente forse più libertà nel gesto della direzione, si trasforma sul podio di un concerto sinfonico laddove Riccardo Muti rivela una sua gestualità scattante e appassionata molto diversa da quella di un Abbado il cui movimento delle braccia (“una estensione della mente” diceva Wilhelm Furtwängler) seguiva un’armonia interiore che precedeva quella della sonorità orchestrale. Il gesto per Muti, come fu anche per Toscanini, ha un che di perentorio laddove quello di Abbado o di Giulini era spesso più simile a un premuroso invito. Ogni grande direttore ha un suo stile interpretativo, una modalità di segreta intesa con gli orchestrali. Carlos Kleiber limitava il movimento della bacchetta a pochi cenni vibranti di una sognante intimità mentre Furtwängler, come sottolineava Massimo Mila, dirigeva secondo “ragioni direttamente derivanti dalla poesia”.
Muti ha sempre amato, valorizzandoli come forse nessun altro prima di lui, gli autori del barocco italiano che tra il Seicento e la fine del Settecento “imponevano” la loro musica dettando legge anche nella scenografia con la proposta di “bozzetti scenici” che avrebbero fatto scuola. Da Monteverdi a Boccherini, da Scarlatti a Paisiello a Cimarosa, da Antonio Salieri fino al primo Cherubini, la musica italiana era la più eseguita, la più ascoltata, la più amata in tutta Europa. Una passione che travolse anche il giovanissimo Mozart che parlava un ottimo italiano e che scese nella Penisola per tre volte intrecciando rapporti e amicizie con i colleghi italiani.

Di particolare intensità fu l’amicizia che legò il salisburghese al poeta e librettista veneto Lorenzo da Ponte, autore tra l’altro dei testi del Don Giovanni, de Le nozze di Figaro e di Così fan tutte, musicate da un Mozart mai così “italiano”. Nel rituale dell’esecuzione di un’opera o di un concerto, l’atmosfera che si crea è un magico assieme di musica, silenzi, gestualità, silenziose intese con il settore degli archi o degli ottoni sottolineate da un particolare gesto del direttore che il pubblico può percepire solo sgombrando la mente da ogni ingenua pretesa di “capire” secondo i canoni della logica.
Mozart diceva che la musica più profonda è quella che si nasconde tra le note. Il mistero è lì, in quello spazio che racchiude l’universo,
così scrive Muti.
E noi dobbiamo cercare di tener sempre presente questa sua riflessione. Della luce della musica di Mozart, di cui ha spesso parlato il Maestro Muti, della gioia che la sinfonia Jupiter sprigiona, della dolcezza musicale quasi infantile della celeberrima Eine Kleine Nachtmusik, parla anche il compositore e musicologo Giovanni Bietti che nel suo libro La musica della luce offre un’originale interpretazione storico-musicale non solo di alcune opere di Mozart ma anche di Haydn e di Beethoven. Bietti sottolinea infatti il legame profondo che esisterebbe tra la musica di questi autori e l’Illuminismo:
Molte composizioni dei nostri tre musicisti sono articolate come una grande realizzazione musicale della metafora illuminista più nota: il passaggio dal buio alla luce, dall’oscurità dell’ignoranza e dell’oppressione alla luce del sapere e della libertà.
Mozart, che dopo un serio alterco con l’arcivescovo di Salisburgo riprese a viaggiare in tutta Europa (soprattutto in Francia e in Italia), a Bologna, a Roma e a Napoli “toccò i vertici dell’ammirazione”, come ci ricorda lo storico della musica e direttore d’orchestra Kurt Pahlen.
Alla fine di un concerto “italiano” del salisburghese, un compositore dell’epoca, citato sempre dal Pahlen, disse una sera: “Questo fanciullo farà sì che il mondo ci dimentichi tutti quanti…”

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