Per tutta la mattinata di giovedì si era sparsa all’Avana la notizia – diffusa dalla spagnola ABC poi smentita dalle autorità dell’Avana – delle dimissioni del viceministro degli Interni cubano, il general de brigada Jesús Manuel Burón Tabit [nell’immagine d’apertura] in aperto dissenso con “el uso de la fuerza excesiva contra los manifestantes“. Un gesto isolato, ma significativo: sarebbe stato un segno di disgelo, di buona volontà, di ammissione dell’errore di aver usato manganelli e maniere forti contro i manifestanti che hanno protestato domenica scorsa in molte città dell’isola (proprio il ministero degli Interni aveva informato di una vittima negli scontri nella capitale). Una voce, tuttavia, che suggerisce tensioni ai vertici cubani sulla gestione della crisi senza precedenti che vive l’isola. Intanto, il presidente Miguel Mario Díaz-Canel, in una tavola rotonda televisiva, annunciava che gli arrestati, oltre un centinaio, “saranno giudicati secondo la legge, senza particolare accanimento”.
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L’ammissione di Canel che la protesta ha motivazioni nella situazione d’emergenza alimentare e sanitaria dell’isola, non solo per la benzina che gettano sul fuoco gli Stati Uniti, non appare sufficiente a riaprire il confronto con gli scontenti. Gli intellettuali, componente essenziale della società cubana, sono in agitazione. Tutti i musicisti più noti – da Chucho Valdés a Los Van Van, da Carlos Varela al compositore Leo Brouwer solo per citarne alcuni – hanno manifestato il loro sconcerto per ciò che è accaduto. In agitazione è anche il mondo del cinema che ha espresso il proprio dissenso, come l’attore Jorge Pegugorria. Altri artisti hanno messo addirittura in discussione la propria adesione all’Uneac (l’Unione degli artisti di Cuba). Tutti non vogliono il muro contro muro dalle conseguenze imprevedibili.
Lo scontento alberga in modo evidente soprattutto tra i giovani e tra quelli che hanno un pallido ricordo dei primordi della rivoluzione, ormai la maggioranza degli undici milioni di abitanti. Il 25 per cento è compreso nella fascia di età tra 15 e 29 anni, il venti per cento tra 30 e 44 anni, quasi il trenta per cento tra 49 e 59 anni (dati pubblicati dall’editrice De Agostini). Diventa quindi vitale recuperare una interlocuzione con queste fasce di popolazione colpite da crisi economica, Covid e conseguente assenza di turismo.

Un segnale positivo è nel frattempo venuto dall’annuncio di Canel che ha dato semaforo verde fino al 31 dicembre all’importazione individuale per chi visita Cuba (senza limiti e senza franchigia) di generi alimentari e materiale igienico/sanitario. Forse è il primo passo per accettare la presenza di Croce rossa, Medici senza frontiere, Caritas o altri organismi che prestano aiuto in situazioni del genere. Il governo dell’Avana resiste però ad accettare di definire “emergenza umanitaria” l’attuale situazione dell’isola: teme ingerenze esterne, conta sull’aiuto di Russia e Cina. Decisiva sul da farsi può essere l’opinione del novantenne Raúl Castro, andato recentemente in pensione ma ritornato a farsi vedere in pubblico in queste giornate di emergenza. Raúl ha dato prova di pragmatismo nel corso della crisi degli anni novanta seguita al crollo del Muro di Berlino (furono sue le prime proposte di riforma in direzione dell’economia mista e dell’apertura al turismo). Una buona dose di realismo e pragmatismo sarebbe utile anche in questo 2021.

Si muove intanto la diplomazia internazionale. Josep Borell, responsabile Esteri dell’Unione europea, condannando gli atti repressivi ha ricordato che le scelte dell’Amministrazione Trump – ora in eredità a quella Biden – hanno acutizzato la situazione di difficoltà di Cuba. “La decisione di bloccare perfino i canali d’importazione delle rimesse degli emigrati è stata ingiustificata”, ha dichiarato. L’invito è al governo cubano di non chiudersi in trincea e a quello di Washington di tornare ai tempi di Barack Obama, quando quel presidente andò in visita all’Avana nel 2016 (come l’ex presidente Jimmy Carter nel 2011). Lo stesso chiede la maggioranza dei paesi latinoamericani, attraversati anche loro da pandemia ed emergenze economiche, a iniziare dal presidente messicano Andrés Manuel López Obrador. Russia e Cina hanno messo l’altolà a spericolate iniziative degli Stati Uniti (si era sparsa l’indiscrezione che volessero promuovere il blocco navale dell’isola, provvedimento preso solo nel 1961 durante la famosa “crisi dei missili” (i sovietici avevano dotato in quella fase Cuba di armi nucleari). I vescovi cubani chiedono da parte loro “accordi in un ascolto reciproco”, preoccupati dall’eventualità che la reazione del governo sia di “semplice immobilismo”.
Il centro del rebus diplomatico riguarda l’atteggiamento del presidente Joe Biden, stretto dalla pressione dei cubano-americani per il pugno di ferro della Florida e poche spinte più realisticamente aperturiste. La contraddizione è che la Casa Bianca può essersi convinta che la caduta del governo cubano è vicina e che quindi valga la pena di stringere il cappio in modo finale con ogni forma di pressione. Questo spiegherebbe il perché Biden finora non abbia mosso un dito per cambiare politica rispetto a Trump (Cuba resta tuttora nella lista dei paesi definiti “terroristici”, nessuna apertura ai canali del flusso delle rimesse degli emigrati dagli Stati Uniti). Il che rischia il formarsi di una vera bomba migratoria a novanta miglia da Miami nel caso di implosione dell’isola Non sempre si riesce a comporre un puzzle.

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