-¿Qué tiene este gazpacho? -Tomate, pepino, pimiento, cebolla, una puntita de ajo… aceite, sal, vinagre, pan duro y agua. El secreto está en mezclarlo bien. A Iván le encanta cómo lo mezclo yo. [Pepa (Carmen Maura) in Donne sull’orlo di una crisi di nervi, Pedro Almodovar, 1988]
Il gazpacho è una cosa sopraffina, non una semplice bevanda rinfrescante, essendo, ben di più, un vero alimento e risultando, più di un semplice alimento, uno degli strumenti indispensabili per affrontare la calura estiva. In tempi in cui si parla di Medical food, di smartfood e di alimenti funzionali, ne abbiamo qua uno dei più antichi, una delle più strepitose “armi” per vivere, e lavorare, mentre tutto è bollente che le tradizioni culinarie del pianeta ci mettono a disposizione.
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Ormai è un cibo conosciuto nel mondo, incontrato col turismo si è pian piano diffuso, fino al consacramento mondiale del 2012, quando Michelle Obama che lo offrì alle first ladies ospiti alla Casa bianca in occasione del G8 di quell’anno. In Spagna arrivò nell’VIII secolo a al-Andalus, quel territorio nel quale gli arabi si insediarono giungendo, a partire dal sud della Spagna, sino al sud della Francia. Il seme della “zuppa fredda” venne seminato allora e per mille anni sarebbe sbocciato nella cucina spagnola e in quella francese (anch’essa prodiga di questi piatti) conoscendo, come ogni piatto, successive modificazioni.
Sull’origine del nome non ci dilunghiamo, limitandoci a guardare al Dizionario della Real Academia Española che, come prima definizione, mette “Zuppa fredda i cui ingredienti di base sono pomodoro, peperone, olio, aceto, aglio e sale, che è propria soprattutto dell’Andalusia”; vedendo l’origine del termine “forse nello spagnolo arcaico e, in esso, dal greco γαζοφυλάκιον, gazophylákion, ‘cassetta delle elemosine’, per allusione alla diversità del loro contenuto”.
È stato a lungo un piatto di contadini e mietitori, utile per il lavoro lontano da casa, che per le sue proprietà oltre che per la bontà, venne accolto sin dalle classi superiori. Eugenia de Montijo, imperatrice e ultima sovrana di Francia come moglie di Napoleone III, lo serviva agli ospiti sia alla Quinta de Carabanchel, la residenza estiva madrilena, sia alla corte di Francia. Ma non c’è da dubitare che, in Spagna come in Francia, la diffusione sia avvenuta col tempo partendo “dal basso”, dai campi alle cucine contadine, da queste alle locande e alle stazioni di posta delle vie commerciali, percorrendo le quali si è diffuso fino ad arrivare alle città e, infine, alle corti. Questo passaggio è certamente compiuto almeno nel 1786, quando il pasticcere reale di Felipe V e Fernando VI, Juan de la Mata, lo cita nel suo Repostero Real, ancora senza pomodoro, usando solo le croste del pane secco sbriciolate e poi saltate e la presenza di lische di acciuga tritate a insaporire il tutto: “un prodotto per palati raffinati elaborato dallo chef ispirandosi al piatto tradizionale”, come si direbbe oggi.
E quindi, dicevamo, gli arabi a al Andalus nell’VIII secolo. Ma ogni origine ha altre origini, che si occupano di vanificare ogni nostro tentativo di fissare per sempre la nascita delle cose, e già Virgilio, nell’Egloga II delle Bucoliche, attorno al 40 avanti Cristo, descrive qualcosa che oltre a ricordarne una sorta di prototipo, tanto da esserne ormai considerato l’antenato letterario conosciuto, è certamente simile nella funzionalità: “e Testili pesta l’aglio e il serpillo e le erbe odorose per i mietitori sfiniti dalla rovente calura”.

In Spagna la prima citazione del gazpacho è del 1611, nel Tesoro de la lengua castellana o española del canonico Sebastián de Covarrubias che lo definisce
certo genere di migas [molliche, piatti a base di pane – NdA] che si fanno con pane ammollato, olio, e aceto e alcune altre cose che vi si mescolano.
Nel XVIII secolo arrivano le prime testimonianze di viaggiatori nella penisola. L’inglese Richard Twiss, nel 1773, descrivendo il suo viaggio a cavallo tra Gibilterra e Cadice, ne parla fornendo utili impressioni. Fu viaggio difficile, in terre selvagge senza grandi e frequentate direttrici visto che i trasporti si facevano via mare, in cui l’incontro coll’alimento arrivò quasi come una salvezza, dopo giorni senza trovare un rifugio e la fortunata accoglienza in una casa contadina per Twiss e la sua stremata cavalcatura. Lo descrive come “una specie di soup maigre” e un “eccellente ricostituente e rinfrescante”. E ce ne dà anche gli ingredienti: “olio, aceto, sale e peperone, in un quarto d’acqua fredda, aggiungendo, inoltre, briciole di pane, aglio e cipolla tritati finemente”. C’è già un ingrediente di quelli importati dalle Americhe – quella rivoluzione del XVI secolo costituita dall’arrivo di verdure, granaglie e tuberi dalle Americhe – il peperone. Ma manca quello che oggi è l’ingrediente principe: il pomodoro.
Théophile Gautier cita il gazpacho nel Viaggio in Spagna del 1840. Lo prova a Malaga in una versione in cui compare la cipolla, ritorna il peperone ma non appare ancora sua maestà il pomodoro. Un’esperienza forte e contrastata. Lo definisce “orribile bevanda” che verrebbe rifiutata “anche dai cani ben allevati che non vorrebbero rischiare il naso con simile miscuglio”, notando come sia incredibilmente apprezzata da “le più belle signore” e concludendo, però, che “per quanto strano possa sembrare al primo assaggio, si finisce per abituarcisi e, addirittura, per gustarlo”.
Il primo testimone dell’arrivo del pomodoro è un russo, Vassily Botquin, che viaggiò nella penisola subito dopo Gautier e scrisse un testo molto fortunato e tradotto, Lettere dalla Spagna. In una lettera descrive il piatto servito nelle locande come “un brodo magro di peperone, cipolla, pomodori, aceto, acqua, sale e pane, che chiamano gazpacho”, un cibo terribile per gli stomaci russi tanto che Botquin preferiva mangiare “uova passate in acqua accompagnate da un’insalata condita con solo aceto”.
Malgrado i problemi digestivi dei russi, in pochi anni il piatto è diventato un riferimento internazionalmente riconosciuto alla cucina spagnola e, per estensione, alla Spagna tutta, tanto che William George Clark – letterato e viaggiatore che scrisse importanti testi di viaggio e divulgazione, sulla Grecia, sull’Italia all’epoca dell’insurrezione garibaldina e sulla Polonia durante l’insurrezione del 1863 – intitolò Gazpacho il suo testo sulle impressioni del viaggio compiuto nell’estate del 1848.

IL GAZPACHO, UNO E CENTOMILA
MA SOPRATTUTTO UNO, L’ANDALUSO
Il gazpacho, con tale diffusione, non può non conoscere variabili di ogni tipo. Nei secoli e nel cammino si è modificato. Da zuppa facile e grossolana per il lavoro nei campi – da “assemblare” in prossimità di una fonte d’acqua fredda con pochi e semplici ingredienti trasportabili (pane secco, aglio, cipolla, olio, frutta secca, sale) – è diventato una specie di vellutata a crudo da fare in casa, accogliendo i nuovi ingredienti arrivati dal Nuovo mondo. Il gazpacho dell’VIII secolo di Al-Ándalus non aveva neanche le verdure, sappiamo dai ricettari arabi che era fatto di pane spugnato, olio, aceto, con l’aggiunta di aglio e mandorle. Ma da lì sono nate tutte le “zuppe fredde” iberiche, che sono infinite. Il salmorejo di Cordova, la porra antequerana, l’ajoblanco di Malaga, nel quale aglio e mandorle sono gli ingredienti fondamentali, accompagnati dall’uva e dai soliti pane, acqua, olio, aceto e sale; poi la Pipirrana, il Pimporrete il Gazpachuelo, per restare soltanto all’Andalusia; e ancora quelli con carne, come il valenziano col coniglio, e poi il moracho di Toledo; i bianchi, i rossi, i verdi, fino alle versioni calde: il gazpacho esiste in mille forme disseminate lungo tutta la penisola iberica. Noi qui ci occuperemo solo del gazpacho andaluso.

UNA RICETTA PREFERITA, E MOTIVATA
Come abbiamo visto, il gazpacho per gli spagnoli è un po’ quello che per noi italiani sono gli spaghetti, qualcosa il cui prodotto può essere sempre diverso, frutto di combinazioni infinite. C’è chi ci mette il pepe, chi frulla nel composto la cipolla. Se in cucina tutto vale al fine di ottenere soddisfazione, e non esistono totem o tabù che non si possano abbattere, noi preferiamo la ricetta “classica” andalusa perché, oltre a essere squisita, è straordinariamente funzionale. Come fu per contadini e mietitori dal medioevo all’età moderna, esso, lungi dall’essere relegato al solo momento del pasto, può accompagnare tutta la giornata di lavoro, o di ozio. Nella vita di oggi si traduce nell’averne in frigo a disposizione semplicemente per accompagnare le pause durante il lavoro in giardino o alla scrivania, mentre si fa bricolage o lavori domestici, come rinfrescante e energizzante alimento (anche bevanda, limitandosi a berne qualche sorso senza altro accompagnamento) per ricostituire liquidi e sali minerali copiosamente spesi nella calura estiva e dare quello spunto energetico che allontana per un poco la fatica. Per questo preferiamo la ricetta classica andalusa, perché il pepe lo rende meno rinfrescante, e la cipolla la mettiamo come guarnizione perché così se ne gode appieno il sapore a crudo con gli altri sapori, mentre invece tende presto a fermentare e a coprirli se inserita nel composto da frullare.

Ognuno faccia come vuole ma qui parliamo di gazpacho andaluso, che è IL gazpacho.
Insomma, io lo faccio così:
non sbuccio nulla, non serve come si vedrà più avanti, e men che mai sobbollire i pomodori per spelarli: va tutto a crudo, avendo lavato tutto con cura; occorreranno due distinti passaggi nel frullatore.
Prima frullata:
pomodori crudi a pezzi (i casalino sono i migliori);
peperone verde levati solo i semi, l’ideale è il cornetto grande verde tipo siciliano – che in Spagna chiamano italiano – ma vanno bene quelli che si trovano, sempre che siano solo ed esclusivamente verdi, mai rossi, troppo dolci);
cetrioli (diciamo per due chili di pomodori un peperone e un cetriolo, ma dipende dalla grandezza).
Frullare bene, poi passare il tutto in un colino ampio a rete d’acciaio, rimestando col cucchiaio di legno per separare resti di fibra, i semi e le bucce.
Seconda frullata:
aggiungere un paio di denti d’aglio sminuzzati, sale a piacere, olio abbondante (per due kg di pomodori almeno un decilitro, extra vergine d’oliva naturalmente), pane (possibilmente bianco e secco) precedentemente spugnato nell’aceto bianco o in acqua e aceto e ben sgrondato;
frullare e nel mentre si assaggia e si aggiusta di sale e olio.
Infine mettere in frigo, in bottiglie di vetro per almeno cinque ore.
Servire in scodelle e accompagnare in tavola con cipolla rossa dolce tritata grossolanamente, rosso d’uovo sodo sminuzzato a mano, pane o simili, carasau o guttiau sminuzzati vanno benissimo, o anche spezzature di pane fritto (fatto a partire dal secco, spugnato nel latte e sale, sgrondato e poi fritto); aggiungere un filo d’olio.
Questo è il vero andaluso classico tra i tanti gazpacho andalusi. Si conserva due o tre giorni (quando il pomodoro diventa acido si capisce subito) quindi si può anche abbondare. Servirlo a ospiti spagnoli offrirà un altro, intimo e un po’ meschino, piacere, nel vedere lo sconcerto farsi largo nello sguardo. “Mejor que lo de mi abuela, coño, como puede ser?”, si chiederanno. E voi gli verrete incontro dicendo “Non dipende da me, sono i pomodori”.
LA TERRA DEI GAZPACHO E DEL “MARE DI PLASTICA” CHE ESAURISCE L’ACQUA E AVVELENA L’AMBIENTE E LE PERSONE
Eh, sì, non dipende da noi, ma dalla materia prima, dai pomodori, e dai peperoni, dai cetrioli, dall’olio e dal pane anche. Perché la terra spagnola è, ahimé, matrigna. Se si escludono il Paese basco e la Galizia e poche altre zone – come alcune catalane, per carità mettiamole, sennò scoppia una crisi diplomatica – ma, insomma, a parte baschi e galiziani che hanno terre e pascoli come si deve, la terra spagnola è in genere arida, difficile, ingenerosa se non sterile. Come farebbero del resto a fare quei buoni prosciutti permettendosi di tenere dieci bestie per ettaro. Se quell’ettaro fosse fecondo lo terrebbero a orto, non a maiali. Eppure la frutta e la verdura spagnole sono note ovunque, esportate anche da noi. Ma non quelle galiziane o basche, esaurite dalla richiesta del mercato interno. Quelle prodotte a sud, per esempio in Almeria, altra terra di gazpacho nella terra dei gazpacho dell’Andalusia. Terra di produzione agricola massiva per il mercato interno e per l’esportazione.
Un territorio con una capitale che ne porta il nome, Almeria, distante solo trenta chilometri dall’unico deserto d’Europa, il Deserto di Tabernas – dove Sergio Leone girò Per qualche dollaro in più, nel 1965, e Il buono, il brutto, il cattivo, nel ’66, e dove ancora resistono i set e c’è un parco a tema a suo nome, il Western Leone, monumento agli spaghetti-western.

E allora, come coltivare in un deserto, situato a oltre quattrocento metri sul livello del mare su un altopiano (che, visto dal basso, sembra una catena montuosa che discende repentinamente verso la costa fino allo spettacolare Cabo de Gata, uno dei tratti costieri più belli del continente)? Con gli invernaderos, serre gigantesche, grandi come campi di calcio, che coprono migliaia di ettari di terreno. Produzioni intensive che hanno esaurito le falde acquifere – che ormai dànno acqua salata costringendo a ricorrere ai desalinizzatori, tra i più grandi d’Europa, come quello di Campo de Dalías. Coltivazioni che richiedono anche grande uso di fitofarmaci, in ambienti chiusi. Le conseguenze di questi metodi produttivi sono grandi incidenze di gravi malattie – impotenza, squilibri della psiche e i numeri fra i più alti in Europa di patologie neoplastiche derivanti dalla chimica agraria (citiamo qui solo uno dei numerosi studi, a cura della Junta de Andalucía, il governo dell’Autonomia regionale). Il risultato è che i prodotti spagnoli sono la gran parte di quelli respinti nei controlli finali sul prodotto delle autorità sanitarie dei mercati generali a Roma o Milano – ma questo vuol dire che i controlli funzionano e quindi non dovete evitare di comprare un peperone spagnolo al supermercato, se lo trovate vuol dire che rispetta gli standard.
Ma senza tediare l’ospite spagnolo coi suoi mali, o con i suoi successi, anche per evitare che risponda coi nostri che non mancano, basterà restare ai pomodori e dire che, se sono ancora così buoni, tanto più buoni e variati di quelli spagnoli, malgrado le nuove sementi più produttive ma meno saporite, ricordare, dicevo, che il merito non è nostro se siamo benedetti dagli dèi: in una terra lunga e stretta, circondata da due mari, con catene montuose che l’attraversano e microclimi e terroire che mutano ogni trenta chilometri, come le lingue – come mi spiegò, sognante, un agronomo francese, e sottolineo francese, proprio a Barcellona, parlando di frutta e di verdura. Ma non saprei dire se questo vi farebbe sembrare più simpatici e non i soliti italiani che Come si mangia qui, da nessuna parte mai.
Articolo pubblicato per la prima volta da ytali il 20 agosto 2020

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