Dal cosmo al caso Moro. L’elettronica di Blak Saagan

“Se ci fosse la luce sarebbe bellissimo” è il secondo lavoro solista di Samuele Gottardello e segna la maturità di un progetto musicale evocativo, legato all’analogico e ispirato dagli anni Settanta.
MARCO MILINI
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Il caso Moro è forse uno degli avvenimenti più tragici e simbolici della storia recente del nostro paese, ne ha determinato l’evoluzione politica, fa parte del nostro immaginario collettivo. Ho trovato molto interessante che qualcuno, oggi, a più di quarant’anni di distanza, abbia deciso di fare un disco di musica elettronica ispirandosi a quella vicenda, cominciata il 16 marzo 1978 e conclusasi il 9 maggio con l’uccisione, dopo 55 giorni di detenzione, dell’allora presidente della Democrazia Cristiana.

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Ho contattato Samuele Gottardello e lui, con voce calda, riflessiva e appassionata, mi ha raccontato come è nato e cos’è Se ci fosse la luce sarebbe bellissimo, che lui stesso definisce un concept album sul rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Uscito nella primavera di quest’anno, coprodotto dall’italiana Maple Death Records e dalla svizzera Kakakids, il disco – che ha ricevuto un’ottima accoglienza – è il suo secondo lavoro di musica elettronica, sotto lo pseudonimo Blak Saagan.

Samuele Gottardello – Blak Saagan

Samuele, cos’è esattamente “Se ci fosse la luce sarebbe bellissimo”?
È la colonna sonora di un film che mi sono immaginato: non una cronistoria fedele dei tragici avvenimenti del rapimento Moro, ma una visione molto soggettiva, che a volte esce dalle vicende storiche e giudiziarie e si fa suggestionare, artisticamente, anche dalle tante teorie che sono nate nel corso degli anni. Sì, diciamo che mi ha molto stimolato cercare una via artistica per descrivere quegli avvenimenti. Questo è legato al tipo di musica elettronica strumentale che faccio con questo mio progetto, Blak Saagan, in cui la musica che compongo e le ricerche e gli studi che faccio su tematiche che mi interessano si influenzano a vicenda.

Spiegati meglio…
Sono una persona molto curiosa e ci sono cose che mi interessano molto. Il primo disco A personal voyage è un concept album sull’esplorazione del cosmo, legato alle ricerche di un cosmologo e divulgatore scientifico, Carl Sagan, da cui ho preso anche il titolo: è un omaggio a lui. Circa cinque anni fa guardavo tantissimi documentari scientifici sul cosmo e ho scoperto questa bellissima serie degli anni settanta, Cosmos, condotta da Sagan. A livello personale, di evoluzione musicale mi ha influenzato molto. Perché nello stesso periodo ho ripreso in mano i vecchi strumenti che avevo in casa, il mio vecchio Farfisa e la mia vecchia drum machine, e ho cominciato di notte a mettere giù delle cose, senza nessuno scopo: l’idea era fare delle cose per me, anche lunghe evoluzioni molto lente, perché mi rilassava. Una cosa che non pensavo sarebbe mai interessata a nessuno, tantomeno che l’avrei suonata dal vivo o ne sarebbe nato un disco. Poi, ero in buoni rapporti con Jonathan Clancy della Maple Death, gli ho mandato dei brani e da lì è nato tutto.

E “Se ci fosse la luce sarebbe bellissimo” è nato in maniera simile?
Con lo stesso spirito di curiosità. Finito l’approfondimento del filone cosmo, ho cominciato a leggere, guardare film e documentari sugli anni di piombo. Dal grande calderone degli anni di piombo ho cominciato a interessarmi al caso Moro, perché è uno dei più eclatanti, quasi il culmine delle Br in Italia. Mi ha colpito molto la storia personale di Moro: mi sono spesso ritrovato a chiedermi cosa pensasse, quali fossero le atmosfere che aveva vissuto questa persona, che sì era il presidente della Dc ma prima di tutto un essere umano, rapito, catturato con un’azione cruenta, poi incarcerato…

Il titolo è preso da una delle sue lettere, vero?
Sì. Nei 55 giorni di prigionia viene permesso a Moro di scrivere delle lettere e nell’ultima, di commiato ai familiari, in cui è conscio di essere stato condannato a morte, c’è un passaggio che mi ha colpito moltissimo: “Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo”. Un “se” condizionale che ritengo significativo, perché lui era una persona molto devota, ma mise quel “se”: come se non ci fosse certezza di luce al di là, di paradiso…

Da questo tuo interessamento al caso Moro è nato un album molto bello, che ha ricevuto ottime recensioni. Hai detto che è il disco più importante che hai fatto finora: perché?
Credo che siano coincise tante cose durante la lavorazione del disco, mi sento molto maturato da un punto di vista musicale, ho preso coscienza delle mie potenzialità. Io non ho sempre fatto musica elettronica, ho cominciato dopo i quaranta ed era musica che suonavo solo per ascoltarla mentre la facevo, usando esclusivamente strumenti analogici per suonare, il computer solo per registrare. Anche dopo il primo disco, non pensavo che le cose che facevo potessero interessare a molti.
Ma qualcosa, per strada, è cambiato, quando ho cominciato ad accumulare materiale per il secondo disco, a dargli questo tipo di spessore contenutistico, a legarlo alle vicende di Aldo Moro. C’è stato un approccio più consapevole, sono cresciuto a livello musicale, ho preso coscienza di quello che stavo facendo.
Il primo disco era più “neutro”: lavoravo su sensazioni ed emozioni positive legate anche al raggiungimento di uno stato di benessere con ripetizioni di loop. Nel secondo, invece, ho voluto esplorare un altro tipo di dimensione emotiva, forse a volte spiacevole, non sempre rilassante, a tratti cupa. Ma ne sentivo l’esigenza, per la tematica, e perché io sono fatto così, ho anche questo tipo di “faccia”, di registro espressivo. Aggiungiamo poi che sono un enorme appassionato di film noir, thriller, gialli. Credo sia chiaro a chi ascolta il disco il collegamento con i gialli e i noir italiani anni settanta, atmosfere che da molto, anche prima di suonare elettronica, apprezzo. Insomma, ho messo assieme molte cose: un accrescimento tecnico e di identità musicale, la tematica, i miei gusti cinematografici, e credo che questo qualifichi il lavoro come uno dei più riusciti, se non il più riuscito, di quelli che ho fatto in tutti questi anni.

Parlami del tuo legame con l’analogico e del tuo processo creativo.
Il bello di avere un progetto solista di musica elettronica è che non serve una sala prove, basta adibire un angolo della casa a studio: per me è un angolo del salotto in cui ho sistemato i miei strumenti che sono un Farfisa, un proto-synth Siel Orchestra 2, alcune drum machine, e col nuovo disco ho aggiunto un sintetizzatore moog… Anche questo è stato parte di un processo di accrescimento: a un certo punto ho sentito il bisogno di alcune frequenze che gli strumenti che avevo non mi davano. Nella musica elettronica credo sia importante, al di là di fare musica piacevole, trovare e sviluppare un proprio suono. Nei miei live mi dicono “che suoni particolari che hai”. È perché non utilizzo molti sintetizzatori ma organi analogici anni settanta. Il che rende più elaborato fare le cose per bene dal vivo ma è anche, uso un termine scomodo ma che mi viene facile usare perché vengo da quella realtà, una maniera di fare molto “punk”.

Punk?!
Prima del progetto Blak Saagan ho suonato e cantato per almeno vent’anni in progetti decisamente punk e c’è un atteggiamento, un’attitudine punk che tuttora utilizzo per fare la mia musica. Mi spiego. È un procedimento che forse non arriva subito al punto, ci gira attorno, ed è legato all’arrangiarsi, al fai da te, al creare le proprie cose in maniera anche un po’ eretica rispetto a come dovrebbero essere fatte. Si tratta di una specie di artigianalità: il termine punk forse fa un po’ sorridere ma per me significa ottenere le cose con quello che ho in casa, senza per forza acquistare un equipaggiamento supercostoso. E la cosa, artisticamente, per me funziona. Ad esempio, in alcuni brani del disco avevo in mente delle sonorità di band e ho tentato di replicarle, con i miei mezzi diciamo “limitati”: sono nati dei brani e delle sonorità particolari, totalmente diverse dalle originali, ma che mantengono con esse dei legami, le rievocano in un certo senso.

È vero che all’inizio suonavi solo di notte?
Era legato all’insonnia di cui soffrivo, il primo disco è nato così: mi mettevo a suonare, la musica mi rilassava e andavo a letto e dormivo. È bello suonare di notte: si attenuano i rumori, i disturbi della vita quotidiana, c’è un’altra dimensione, anche emotiva. Una parte del mio nome, Blak Saagan, come detto è un omaggio a Carl Sagan, ho solo aggiunto una “a”; la prima parte, in cui ho tolto una “c” a black, è un omaggio all’oscurità. Ecco spiegato il nome, che è legato al mio processo creativo.

Tecnicamente, come crei la tua musica?
È difficile che mi venga una cosa in testa e corra a suonarla. Piuttosto, se mi metto a suonare vengono fuori delle cose, ed eccole là: cose più o meno buone, ovviamente, e su quelle più buone ci lavoro. Utilizzo la tecnica del layering: collego al computer uno strumento e faccio una linea, poi la riascolto, ci suono sopra, e layer su layer, livello su livello, traccia su traccia, costruisco un brano.

Ma tu non ti limiti alla musica: ad esempio i video di “Ore 9: Attacco Al Cuore Dello Stato” e “Scuola Hyperion” li hai girati tu. Com’è stato, come ti è venuta l’idea?
Io sono regista presso una casa di produzione e ho pensato molto a come rendere da un punto di vista visuale le canzoni, mi sarebbe piaciuto tantissimo girare dei corti, alcuni brani si prestano moltissimo e ho in testa quasi tutte le inquadrature. Anzi, ogni canzone è già di per sé un po’ un’inquadratura, ad esempio in “Dentro La Prigione Del Popolo” ho cercato di visualizzare la prigione di Aldo Moro, quel bugigattolo ricavato dietro la libreria in un appartamento, di cui esistono foto e ricostruzioni.
Lavoro molto per immagini quando faccio musica e quando ho pensato a come fare dei video avevo già tutto in testa: il punto è che una produzione con attori e location come avevo in mente avrebbe richiesto troppe risorse. Quindi… torna l’approccio fai da te/punk! Sono nato nel 1972 e da bambino c’erano in casa dei miei genitori delle riviste fotografiche che attiravano la mia attenzione, si chiamavano Almanacco di storia illustrata ed erano ricche di foto in bianco e nero degli accadimenti, tendenzialmente tragici, dell’anno; tra parentesi, la cronaca nera era più macabra al tempo, oggi la sensibilità è completamente cambiata, non si potrebbero pubblicare foto come quelle. Io comunque da bambino sfogliavo queste riviste e alcune immagini mi sono rimaste in testa per tanto tempo, anche mentre suonavo questo disco. Che è stato per me sempre qualcosa che aveva a che fare col bianco e nero, l’immagine sgranata, il retino che si utilizzava al tempo per riprodurre le fotografie.

Tecnicamente, ho creato il video partendo da queste riviste, semplicemente usando il mio telefono e una lente macro che mi avevano regalato, da pochi euro, ma che funzionava bene: il macro è un obiettivo che ti permette di andare molto vicino alle cose, come una lente di ingrandimento. Ho preso dalla libreria dei miei gli almanacchi, erano ancora lì, ho cominciato a passarci sopra il telefono con la lente e ho visto che l’effetto era bello. Ho recuperato in rete altre riviste, i numeri che mancavano, e alla fine ho messo insieme immagini e girato che mi permettessero di creare una storia. Sempre cercando, per una questione di sensibilità, di evitare le immagini che ritraevano persone decedute: non è fiction, sono persone morte davvero, sofferenze vere, e non mi andava di utilizzarle per uno scopo del genere.

Il video che ne è uscito è una narrazione quasi fumettistica, o da fotoromanzo, per restare in tema anni settanta.
Esatto. Aggiungiamoci che il titolo “Ore 9. Attacco Al Cuore Dello Stato” è lessico Br puro, nonché un titolo da film italiano poliziottesco. Nel brano e nel video ho voluto drammatizzare il momento del rapimento: c’è l’attesa della squadra di assalitori, con intrighi e telefonate, e poi quando il brano raggiunge il climax c’è la sparatoria, con una persona che viene caricata in una macchina che parte. E tutto questo, appunto, fatto in maniera molto casalinga: niente studio di posa ma girato in casa, alla finestra, con un po’ di sole e il mio telefono.

Con la stessa tecnica hai girato il video di “Scuola Hyperion”, tra l’altro un brano legato a una “tesi complottista”, diciamo così. Come mai questa scelta?
C’è una narrazione delle vicende del caso Moro che sfocia nel complottismo e vede le Br come un organismo eterodiretto, a seconda della teoria, dalla Cia, il servizio segreto britannico, la massoneria di Licio Gelli. La Scuola Hyperion, questo è vero, era una scuola di lingue parigina fondata da alcuni membri fuoriusciti dalle Br, e alcune teorie, non confermate da sentenze, dicono che questa scuola servisse da centro di collegamento tra servizi segreti esteri e Br operanti in Italia. Sul sito di Radio Radicale è accessibile un’audizione del giudice Pietro Calogero alla commissione parlamentare sul sequestro Moro: in questa audizione Calogero – lo stesso che si occupò del famoso processo 7 aprile, in cui seguiva una teoria che riteneva che l’autonomia operaia fosse il braccio esterno, visibile e non armato delle Br – racconta che, seguendo la teoria per cui la Scuola Hyperion era legata alle Br, mandò un ispettore della polizia, fuori da ogni inchiesta, quasi a titolo informale, a investigare a Parigi. Questo ispettore contattò il giudice e disse che molte delle utenze di questa Scuola Hyperion portavano in Normandia, quindi vicino all’Inghilterra, a una villa protetta da “un triplice anello di protezione”. Poco dopo, l’ispettore richiamò il giudice e gli comunicò che tornato in hotel aveva trovato la camera a soqquadro. Allora il giudice gli disse di tornare in Italia immediatamente, perché evidentemente era stato “scoperto”. Ecco: questa, artisticamente, è una storia fantastica. Quando ho pensato alla villa con “un triplice anello di protezione”, da appassionato di gialli, noir e thriller anni settanta come sono, me la sono immaginata circondata da filo spinato, sensori di movimento, telecamere: ai nostri occhi moderni un equipaggiamento poco sofisticato ma decisamente all’avanguardia per i servizi segreti di quel tempo. Una narrazione che mi ha stimolato la produzione del brano e del relativo video.

Quest’anno si è ripreso a suonare dal vivo e hai fatto un tour in Svizzera: com’è andata?
Bene. Un’esperienza bellissima. Naturalmente come tutti i musicisti sono stato anche io colpito dallo stop dell’attività musicale. È stata una grande emozione ritornare a suonare. I concerti in Svizzera sono andati in crescendo, uno dopo l’altro mi sono sempre più sentito a mio agio. È normale sentirsi un po’ fuori luogo dopo tanto tempo che non si suona dal vivo: ti chiedi che ci faccio qua, che significato ha quello che faccio, ma poi quando cominci a sentire questo bel suono che ti accompagna, che hai prodotto tu, e senti il calore della gente… Sembra una cosa retorica dire “il calore della gente”, e lo è probabilmente, però conta.

So che hai in programma diverse date in Olanda: il 14 e 15 ottobre al Left Of The Dial di Rotterdam, il 13 novembre al Le Guess Who di Utrecht e il prossimo aprile in un altro prestigioso festival, il cui nome non è ancora stato “svelato” dagli organizzatori…
Già. E sono un po’ spaventato, lo ammetto: sono forse gli eventi musicali più importanti in cui mi abbiano mai chiesto di partecipare. Però è un enorme piacere che gli organizzatori abbiano ritenuto il mio disco così bello da invitarmi… Forse hanno ragione, forse è davvero bello. Poco alla volta, comincio a crederci anche io.

Dal cosmo al caso Moro. L’elettronica di Blak Saagan ultima modifica: 2021-10-08T23:04:58+02:00 da MARCO MILINI
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