Storie dell’altro mondo: anime sospese

Libertà e confinamento di uomini e cavalli, concorso ippico e mostra fotografica.
GIOVANNI LEONE
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[MILITELLO IN VAL DI CATANIA]

Nei giorni 8-10 ottobre si è tenuto nel Centro Equestre del Mediterraneo della Tenuta Ambelia del demanio regionale affidato all’Istituto Incremento Ippico per la Sicilia a Militello in Val di Catania, un importante appuntamento ippico, una tre giorni agonistica che ha tra l’altro riportato in Sicilia un importante evento di equitazione riconosciuto a livello internazionale, la Coppa degli Assi, la 36esima edizione del concorso ripreso dopo dieci anni, organizzato dall’Istituto Incremento Ippico per la Sicilia e promosso dalla Regione Siciliana con il supporto tecnico di Fieracavalli. 

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Tenere tali eventi nella casa dei cavalli dell’I. I. I. (acronimo onomatopeico che richiama il nitrito) sembra chiudere il cerchio, molti dei cavalli che si possono ammirare sono infatti il risultato della missione della secolare istituzione, dedicata alla conservazione, al miglioramento e alla diffusione delle razze equine siciliane: si fanno nascere quei cavalli che oggi qui mostrano le loro abilità e la loro bellezza. L’Istituto Incremento Ippico per la Sicilia raccoglie l’eredità funzionale e strutturale del Regio Deposito Stalloni, creato nel 1884 dall’allora Ministero della Guerra, con l’obiettivo di preservare l’importante patrimonio genetico del Puro Sangue Orientale. La selezione regionale per le razze o popolazioni asinine e cavalline siciliane è compito che l’istituzione assolve con regolarità, gli stalloni allevati presso l’Istituto vengono annualmente impiegati nelle stazioni di monta pubbliche dislocate sul territorio.

Non essendo un esperto, di cavalli e concorsi ippici non intendo parlarne, se non per dire che colpisce anche un ignorante come me questo rapporto di coppia tra esseri sensibili che cercano quella sintonia evidente nella corsa a ostacoli del corpo unico cavaliere/cavallo. Non è una corsa continua com’è il galoppo ma una sequenza di gesti modulati e moderati con estrema precisione, azioni improntate al senso della misura nel controllo dello spazio e nell’esercizio di forza senza sforzi e forzature, una teoria di rapidi stop and go: ritenzione e liberazione di energia in un elegante moto fluido ritmato in cui è tangibile l’alternanza di forza e grazia di due essere viventi che aspirano a un movimento unisono.

Qualcosa invece vorrei dire di una mostra allestita nel lungo fabbricato delle stalle, che ho visitato accompagnato da una guida di eccezione, la principessa Caterina Grimaldi di Nixima, presidentessa dell’I. I. I. Alla mostra si arriva dopo avere attraversato le stalle, uno spazio che a una persona senza consuetudine con cavalli e stalle può apparire luogo di reclusione a causa dei cancelli che richiamano una gabbia. Poi però guardando meglio si vede che il cancello è largo abbastanza da poterci infilare un braccio e accarezzare il cavallo o l’asino, inoltre il cancello è diviso in due parti, una in alto e una in basso, soluzione analoga a quella della case terrane catanesi e dei centri rurali siciliani, dove si teneva la chiusa la parte bassa e aperta quella in alto per affacciarsi e vedere quel che succede sulla strada e strada è il corridoio centrale, dove lo stalliere si muove avanti e indietro.

La stalla ad Ambelia è tutt’altro che prigione, piuttosto casa per cavalli e asini che hanno ampi spazi intorno in cui trascorrere la giornata. Nelle stanze di questa casa c’erano: una fattrice puro sangue orientale con il suo puledro, un bardotto con la mamma (asina ragusana che si è accoppiata con un cavallo puro sangue orientale dando alla luce un piccolo cavallo con grandi orecchie), un asino pantesco (più piccolo, la cui popolazione si è ridotta ma non rischia l’estinzione grazie anche all’opera dell’I. I. I.). 

La “strada” delle stalle termina in un grande ambiente ed è in questa “piazza” che, intorno a una scultura con un cavallo in bronzo, è stata allestita una bella mostra fotografica dal titolo Blocco 200 Anime sospese realizzata con la regia di Arianna Di Romano, fotografa isolana (sarda di nascita e siciliana di elezione) che dopo avere fatto numerose campagne fotografiche intorno (in giro per il mondo a fissare volti di persone e luoghi) ribalta il processo e va all’interno, della casa circondariale di Caltagirone e della testa dei detenuti, mettendo loro in mano la macchina fotografica e dando voce ad immagini che regalano nuovi occhi all’osservatore. La mostra collettiva è il risultato di un corso di fotografia per detenuti tenuto dalla maestra di fotografia. Gli autori degli scatti esposti sono la stessa fotografa e i detenuti che hanno seguito il corso ma non sono indicati nelle fotografie, informazione superflua perché qui il Noi assorbe e vanifica l’Io. Il soggetto degli istanti fissati su carta sono impressioni espressive eloquenti: come e cosa vedo del/nel carcere, cosa e come vedo dal/del carcere. 

La privazione della libertà è reclusione, termine che deriva dal latino recludere, composto da re- (che indica ripetizione) e -cludere (che è chiudere), quindi è rinchiudere, ri-chiudere e sembra presupporre un destino di ricorrenza del reato e iterazione nell’errore, è come se una volta che lo sei (recluso) il tuo destino resta segnato: sei già re-, ancora e ancora, una sorta condanna all’eterno ritorno e all’impossibilità della emancipazione dalla condizione di cittadino respinto, esiliato dalla comunità, reietto, indipendentemente dalla pena che sta espiando o che ha espiato. Pena è termine che deriva dal latino poena, dal greco poine, dal sanscrito pûnya che sta per puro, netto, da cui viene anche punire che è dunque render puro.

Tuttavia chiamiamo un detenuto pregiudicato, cioè irrimediabilmente compromesso e soggetto a giudizio anticipato (pre-giudicato). Il carcere è un’esperienza dell’altro mondo, la chiusura e il confinamento comportano l’esperienza di un interno privato d’intorno, lo sguardo si contrae, viene sottratta la facoltà di osservare e sei, di contro, sotto osservazione. Interessante quindi il ribaltamento del punto di vista che Arianna Di Romano ci offre. Molte le foto interessanti, sguardi inediti che vanno osservate senza fretta per acquisire nuovi occhi e vedere cosa racchiudono immagini che fissano un istante di libertà. Una foto mi pare ben raccontare la reclusione: l’osservato è la guardia carceraria che sta al centro dell’inquadratura, figura sfocata perché rappresenta il ruolo non la persona e al tempo stesso la distanza che c’è con il fotografico, a fuoco sono invece le sbarre inutilmente permeabili a uno sguardo murato. 

In un’altra foto si vedono esposte alle finestre sbarrate scarpe di detenuti che sembrano un’affermazione di presenza statica, in attesa di riprendere il cammino.

C’è poi la foto di un mazzo di chiavi in mano pronte ad aprire o chiudere tante porte, una foto che guarda a un presente di chiusura o avvicina anticipandolo il momento dell’apertura e dell’uscita. 

Ma la foto che più di ogni altra racconta la condizione di anime sospese è quella con le due figure attraverso la finestra di una porta blindata che serve a sorvegliare ma che in questo caso consente di tra-guardare. Queste persone stanno fuori e sono dentro, in una condizione di sospensione tra apparenza e realtà, sono senza volto, sagome di una trama di rete e sbarre che raccontano la negazione dell’individuo a vantaggio dell’indistinto, rappresentano un’identità smarrita, sospesa. 

Anima deriva dal latino maschile animus, che è spirito, e a sua volta viene dal greco ànemos che è vento, quindi è quel principio di vita e di noi stessi, componente intangibile ma essenziale, origine e fulcro dell’essere, dimora dei sentimenti e della sensibilità, di quel senso autentico che si percepisce senza ricorrere ai sensi. Tutti l’abbiamo. Sopita, nascosta, smarrita, ma c’è, sempre e comunque. 

Lo mostra bene questa fotografia che va osservata con inter-ligenza, cioè con quella capacità di leggere tra le righe, nei vuoti tra le lettere, per rintracciare il detto non scritto. Nel dettaglio e nell’ombra sta la chiave di lettura: i lineamenti del volto di una delle figure vivono nell’ombra, s’intuisce il naso la bocca l’occhio e le mani, una a tenere il viso l’altra poggiata sul vetro a mostrare e svelare il doppio sguardo di lui che guarda e noi che vediamo. 

Sono cose di un altro mondo, nostro: quell’uomo sono io, quegli uomini sono noi non altro da noi, non resta che amarli, non resta che amarci, sospendendo il giudizio e dedicandoci al non attaccamento (cosa diversa dal distacco che è rifiuto, rimozione, rinuncia, mutilazione) a un “loro” che è al tempo stesso parte e altro da noi.

Storie dell’altro mondo: anime sospese ultima modifica: 2021-10-14T20:40:06+02:00 da GIOVANNI LEONE
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