Alle cinque e trenta del 16 ottobre 1943 i nazifascisti effettuarono il rastrellamento del quartiere ebraico di Roma. “Oggi è stata iniziata e conclusa l’azione antigiudaica seguendo un piano preparato in ufficio che consentisse di sfruttare le maggiori eventualità. Nel corso dell’azione, che durò dalle ore 5.30 fino alle 14.00, vennero arrestati in abitazioni giudee 1259 individui e accompagnati nel centro di raccolta della Scuola militare. Il trasporto è fissato per lunedì 18 ottobre alle ore 9 dalla stazione Tiburtina”, scrisse Herbert Kappler nel suo rapporto al generale delle Ss Karl Wolf, – colui che poi, all’insaputa di Hitler, nell’aprile del ’45 trattò la resa delle truppe naziste nella penisola con gli americani. Altri rastrellamenti e sequestri sarebbero seguiti nei mesi successivi, quando la caccia agli ebrei e agli antifascisti si muoveva sulle gambe della delazione e della tortura. Questa è la storia di Antonio Calò che, scampato al 16 ottobre, venne denunciato da un collaborazionista e, tra i pochissimi sopravvissuti ai campi di sterminio, tornato a Roma si reca in questura per denunciare il complice dei nazifascisti.

Essendo di origine e di religione ebraica, fui anch’io perseguitato, insieme alla mia famiglia, dai tedeschi, nella nota razzia dell’ottobre 1943. Riuscii miracolosamente a scampare con i miei, cercando di nascondermi e di sottrarmi alle ricerche, ma la necessità di continuare a dare da mangiare a mia moglie e ai miei dieci figli non mi permise di scomparire completamente dalla circolazione, come avrei potuto fare se fossi stato ricco.
Inizia così la lettera di denuncia verso chi lo aveva fatto arrestare, indirizzata alla Regia Questura di Roma, presentata il 18 settembre 1945 e firmata da Alberto Calò di Angelo e fu Fatina Piperno, “contro il Signor Lerz Guido di Guglielmo”, due pagine scritte a macchina che racchiudono tutto il dramma ed il dolore lasciato dalle persecuzioni nazifasciste contro gli ebrei.
Quel maledetto 16 ottobre 1943, giorno della razzia nazista nel Ghetto di Roma, 1015 persone furono arrestate e deportate nei campi di sterminio in Germania, e di questi solo 16 tornarono, 15 uomini ed una donna, Settimia Spizzichino, morta pochi mesi fa. Alberto Calò, da via della Reginella 10 dove viveva con moglie e dieci figli, riuscì a nascondersi pensando di salvarsi “confidando nel senso di solidarietà degli italiani“ senza immaginare che “uno di essi mi avrebbe consegnato agli aguzzini tedeschi”, per danaro, circa 5000 lire dell’epoca.


Dalle fitte righe della denuncia esce vivacissima nella sua drammaticità la scena relativa al suo arresto. La sera del 7 dicembre 1943 in via Basento (dove era da anni aperto il negozio di famiglia), angolo Viale Regina Margherita, verso le 20,30
…mi sentii afferrare per le spalle …ero stato preso da un italiano a me conosciuto di fisionomia ma non, fino a quel momento, di nome, il quale assieme ad un militare delle S.S. tedesche, mentre entrambi puntavano contro di me le loro pistole, mi intimò di seguire lui e il suo compagno in via Tasso.
Nel tragitto tra via Basento e via Tasso il prigioniero tentò di convincere il suo aguzzino a liberarlo, offrendo del danaro e facendo appello al fatto che i suoi dieci figli sarebbero rimasti soli. “Andrai in Germania a lavorare ed io prenderò anche i tuoi figli”, rispose l’italiano che lo aveva venduto. Si sta compiendo per Alberto un destino più che tragico: dopo una sosta nel famigerato carcere nazista di via Tasso e la prigionia a Regina Coeli – che durò fino al 22 febbraio – sarebbe stato caricato su un treno diretto a Carpi con meta finale un campo di concentramento in Alta Slesia.


Una volta arrivato a Regina Coeli, Calò si ritrova a parlare con un altro ebreo romano, Giuseppe Sermoneta, arrestato mentre si trovava in tram, costretto a scendere e portato anch’egli a Regina Coeli dallo stesso individuo che aveva arrestato poco prima Alberto Calò.
Un giovane con abiti borghesi, un soprabito chiaro, pantaloni alla zuava e stivaloni, …la stessa persona, traditore dei suoi fratelli italiani
così recita l’accorata denuncia del settembre 1945.
I giorni di attesa nel carcere romano li immaginiamo pieni di angoscia, con la famiglia sfollata in Sabina alla ricerca di notizie: proprio per cercare notizie del padre, il maggiore dei ragazzi Calò scese in città e fu a sua volta arrestato e deportato.

Per ytali.com abbiamo ripercorso la storia di questi arresti incrociati raccogliendo la testimonianza di uno dei figli di Alberto, Roberto da tutti conosciuto come Zi’Pallino, oggi novantenne vivace memoria del Portico d’Ottavia.

Sempre nel carcere romano, davanti ai signori Calvani Antonio e Bruni Ettore, il prigioniero ebreo raccoglie le testimonianze degli arresti di correligionari:
il mio aguzzino, Lerz Guido di Guglielmo, deve essere quindi identificato per il figlio dell’elettricista con negozio in Viale Regina Margherita 71 e domiciliato in via Ofanto n.10.
Quindi i negozi di Calò e di Lenz erano esercizi commerciali tra loro vicini ed il figlio del titolare del negozio di elettricista ebbe gioco facile a denunciare una persona conosciuta di vista ed identificata come appartenente alla perseguitata comunità ebraica romana.
Alberto Calò continua a scrivere nelle due fitte pagine presentate in Questura:
Prego pertanto codesto ufficio di fare tutto il possibile per la giustizia e perché il Lerz sia ritrovato e sia punito.

Tornato avventurosamente a Roma superstite dal campo di sterminio, fiaccato nel corpo e sconvolto nello spirito, Calò ritrova la famiglia ma in quella città lacerata e ferita in quell’incerto 1945 incontra per caso anche il suo aguzzino: e lo affronta in un bar, lo aggredisce con una sedia, ma è bloccato e portato in Questura. Liberato, la famiglia lo aspetta e lo protegge, ma la sua mente è provata dalle esperienze vissute e le sue notti sono agitate e piene di incubi. Si dichiara rovinato economicamente, e possiamo immaginare che lo sia stato veramente, con il pensiero dei dieci figli piccoli da crescere.
Il Lerz nel frattempo viveva nascosto, aiutato dalla sua famiglia ma avvistato dal portiere di via Tirso 111 che lo conosceva, e dopo poco tempo morì investito da un camion fuori Roma.


La denuncia di Calò, assieme alle numerose altre che segnalavano i collaborazionisti con i nazisti e i fascisti, furono stemperate in una generale amnistia che pose una dolorosa conclusione alle tremende vicende vissute dai pochi sopravvissuti e dai milioni di morti.
L’Italia di quel 1945 cercava di risalire la china di morte e distruzione, di lacerazione e di ricostruzione dopo la guerra civile e la Liberazione. La famiglia Calò in via della Reginella, nonostante le mille difficoltà, riprese faticosamente a vivere, ma Alberto visse anni estremamente perturbati e pieni di incubi.
Soprattutto in questi tempi incerti, impegniamoci perché tali testimonianze entrino a far parte della memoria di tutti gli italiani, non solo nella tragica data del 16 ottobre anniversario della retata del Ghetto.

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