Corre la proposta, autorevolmente sostenuta (Paolo Portoghesi), di intitolare a Paolo Ramundo il cortiletto centrale della Facoltà di Architettura “Valle Giulia” di Roma. La giustifica non solo l’attività accademica pertinente, svolta tra il 2003 e I 2007: la partecipazione ai corsi di Progettazione degli Spazi Aperti e la consulenza di spicco (cooperativa Cobragor) in materia di Aree Verdi Urbane. Il fatto è che Ramundo ha contribuito in maniera decisiva a riscattare quello spazio dall’oblio nel quale versava fin dalla costruzione. Era il 1968 quando il gruppo degli Uccelli, avanguardia del Movimento Studentesco romano di cui Paolo Ramundo era parte fondante, diede vita al cortile, altrimenti morto, con un’azione ispirata insieme dall’arte dei giardini e da quella dei simboli: il trapianto di un albero di fico.

Il racconto che segue cerca di replicare a parole quel fatto. Nell’immaginare il trapianto del fico Paolo Ramundo aveva evocato i Fori Romani:
Nel Foro c’è un albero di fico accanto alla Curia.
Durante le passeggiate lungo la Via Sacra si era incuriosito di quella vicinanza. Ragionava che il fico è un’essenza pioniera e nei climi caldi colonizza l’archeologia. Tuttavia nel Foro rilevava il contrasto tra l’indole primordiale della pianta e la sofisticata complessità dell’istituzione romana. In più lo aveva colpito l’allotrìa dei simboli: da una parte il Senato, antonomasia dell’esercizio politico nella storia di Roma, dall’altra il fico, viceversa oggetto di religione dal Mediterraneo all’India. Sentiva che l’albero immalinconito, quasi nascosto dal capannone di Tecnica delle Costruzioni, chiedeva una nuova dignità: un ruolo di conquistatore – fondatore, la rivincita di un’allocazione centrale, nel mezzo della Facoltà che l’emarginava.

Stimolati della costante attenzione di Gianfranco Moltedo all’architettura delle cose, i pensieri di Martino Branca si erano dispiegati lungo la stessa rotta ma con verso opposto. Lui era partito dall’erba del chiostro. Benché fosse a ridosso dell’Aula Magna, quel luogo pareva una proiezione misteriosa della biblioteca, un momento monastico, un sito verde per la serenità e la pausa. L’area era vetrata e tangibile, ma non vissuta. Percorrendo i corridoi perimetrali gli studenti le giravano intorno come a uno spartitraffico. Quella sera, dopo il trasloco della pianta, Martino e Gianfranco sognarono la meditazione esemplare del Gruppo sotto l’albero, nella magìa dello spazio claustrale.
Carlo Buldrini aveva condiviso con Paolo le ricognizioni nel Foro. Il trapianto del fico non lo sorprese. Ma la suggestione mistica dell’albero nel chiostro non mancò di emozionarlo. Quarant’anni dopo avrebbe raccomandato la visitazione dei luoghi di Siddhartha Gautama con un libro dal titolo denso di nostalgia culturale: Pellegrinaggio Buddhista.
La transumanza del fico fu il primo successo degli Uccelli “in seno al Movimento”, il punto di una perfetta collimazione tra i loro sogni e quelli di una massa studentesca. Le pulsioni diverse che da tempo animavano il Gruppo collimarono in un lampo: l’urgenza di intesa con gli studenti del Movimento, la memoria della natura e dell’archeologia, il rimpianto di storie e geografie orientali, il sogno di cambiare insieme agli altri l’architettura della Facoltà.
Gli studenti erano tutt’intorno quando gli Uccelli proposero un’azione collettiva: il trapianto del fico nel chiostro-giardino ritagliato in mezzo al costruito, tra l’Aula Magna e la Biblioteca. Detto altrimenti: la traslazione a distanza di un albero, a forza di braccia, travalicando edifici. Gli studenti acconsentirono di slancio. Con entusiasmo si dislocarono lungo il percorso a formare una catena umana, avendo cura di disporre i più alti in corrispondenza degli sbalzi di quota. Intanto gli attrezzi – la zappa, la vanga e la pala – lavoravano da un lato a svellere il fusto, dall’altro a praticare lo scasso nel luogo di destinazione.
Nessuno aveva messo in dubbio il progetto. Finiti i lavori, tutti convennero sul carattere magico delle circostanze che li avevano agevolati. Nel ricordo condiviso la pianta si era mostrata ben disposta al trasferimento: non appena liberato dalla morsa del terreno, il fico aveva spiccato il volo.
In effetti nel corso dell’azione l’albero sembrò dotato di una forza sua. Incalzato dalle leve, dapprincipio faticava a sollevarsi dal substrato. Con le radici tratteneva, come l’artiglio di un rapace, il grumo di terra che era la sua vita. Poi, finalmente libero dall’incastro, inclinò la chioma verso la meta. E lentamente si mosse. Via via, mentre andava affinando l’assetto orizzontale aumentava la portanza e la velocità. Nel traversare il piazzale scivolò di mano in mano lungo la catena studentesca come su una rotaia soprelevata. Replicava in parallelo il profilo del suolo. Al momento di scavalcare i fabbricati aveva l’energia per compiere di slancio le svolte, gli scarti e le impennate imposti dalla varia geometria dei volumi. Nonostante la zavorra terrosa, un balzo dopo l’altro superò i dislivelli in leggerezza, quasi senza impegnare il supporto umano che li disciplinava. I traslatori parevano protesi nello sforzo di toccarlo al passaggio, piuttosto che contratti a sopportare un peso. Infine si librò nella notte a veleggiare sulle terrazze dei tetti, di molti metri in quota sul campo di partenza. Nel volo sobbalzava sulle dita tese a condurlo verso la meta: il ciglio dell’asola del chiostro. Lì, dopo un rallentamento governato, riprese con prudenza la posizione eretta. Poi dalle mani che trattenevano i rami si lasciò calare dolcemente nella cerchia delle braccia che lo aspettavano dabbasso, sull’erba del giardino. Le radici e la zolla si posarono nel fondo dello scavo con precisione lunare.
Nel chiostro la chioma prese a crescere subito vasta e rigogliosa, come liberata, riempiendo la larghezza del sito per catturare la totalità della luce. E a partire dal tempo del trapianto, ogni estate per mezzo secolo il fico ha ristorato con la sorpresa dei frutti le stanchezze studentesche dopo gli esami.
Da tre anni il cortile soffre un nuovo abbandono. La morte recente di Paolo Ramundo ha richiamato attenzione alla storia e al destino del luogo. Suggerisce di riportarlo alla vita con il risarcimento del fico, del giardino che lo arricchiva e del graffito (opera di Paolo con gli studenti) che lo decora. S’intende intitolando lo spazio a chi aveva pensato e operato, con esito determinante, per dargli un significato ed un ruolo, per riscattarlo dalla sciatteria del progetto e dalle trascuratezze dell’uso.

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