Una barca da pesca va tra le barene, solitaria, mentre sullo sfondo passa una gigantesca nave commerciale, diretta chissà dove, dopo aver caricato o scaricato merci a Porto Marghera. L’attività piccola piccola, manuale, faticosa, svolta in un luogo remoto, dal fascino incontestabile, è accostata e quella grande grande, industriale, disumanizzata, in cui i luoghi sono un contorno infinitesimo e insignificante rispetto all’ampiezza degli spazi percorsi.
L’immagine con cui si apre Welcome Venice – e che ricorre anche in altri momenti del film, a rimarcarne il contesto – condensa il significato stesso della pellicola, che parla di attività umane, degli spazi in cui si svolgono, e della relazione che l’uomo ha con quel che fa e con i luoghi che abita.

La vita di una famiglia di pescatori della Giudecca, che tira avanti a fatica, mentre manda i giovani a studiare altrove, viene sconvolta da un evento inaspettato: Toni, il più vecchio dei fratelli, muore colpito da un fulmine, nel corso di un fortunale che colpisce le barene dove stanno sistemando le reti. L’attività resta a Piero, personaggio straniato e straniante, ex galeotto, già nonno a 55 anni, appassionato di musica rock e di “moeche”, i granchi in fase di muta. Il terzo fratello, Alvise, è quello a cui, fin da bambino, manca un buon rapporto con l’acqua, quello che non è mai riuscito ad impare a nuotare, l’unico che non fa il pescatore e che ha iniziato a vivere di turismo, affittando appartamenti non suoi, con l’aiuto della figlia poliglotta. La morte di Toni presenta un’occasione unica: poter fare business con la casa di famiglia, puntando sul turismo esperienziale, sulla tipicità fasulla per cui una certa categoria di turisti, oggi, è alla ricerca sfrenata, quasi a voler trovare una giustificazione per una mobilità esagerata e invasiva. Inizia così il percorso interiore di Piero, che tenta di resistere, ma alla fine non può che cedere alla pressione di Alvise per concludere l’affare.

Attraverso la vicenda di Piero e Alvise, lo spettatore ha modo di cogliere il significato profondo che sottende all’economia della rendita, che allontana le persone dalla concretezza e dalla sicurezza del lavoro manuale (“I turisti possono andarsene, ma le moeche ci sono sempre”), per proiettarle nell’orbita del guadagno facile e della spersonalizzazione dell’occupazione. Non c’è un giudizio esplicitamente espresso da parte del regista, tanto è vero che lo stesso Alvise è un personaggio a tutto tondo, mai solo avido, capace sì di fiutare l’affare, ma anche consapevole che con quei guadagni può provvedere a tutta la famiglia, cognata e nipoti compresi. Però c’è una domanda non posta che rimane in sospeso: cosa fa, poi, chi si ritrova a fare il mantenuto e perde il contatto con l’ambiente a cui appartiene?
“Ma a Venezia è davvero così?” chiede il pubblico non veneziano ad Andrea Segre, da quando è in giro per l’Italia a presentare Welcome Venice. Sì, Venezia è davvero così. E questo è il grande merito della pellicola: svela quel che non si vuole comunemente vedere e costringe lo spettatore a sentirsi un po’ complice, dato che anche lui, con ogni probabilità, è stato uno dei visitatori che ha soggiornato in una nelle case fittizie messe sui portali di prenotazione. Welcome Venice risveglia le coscienze. Racconta gli effetti che provoca la monocultura turistica, lasciando ad ognuno di trarre le proprie conclusioni.
La pellicola è capace di parlare sia a chi vive – o ha vissuto – a Venezia, sia a chi non ci è mai venuto, oppure ci è venuto solo per una fugace vacanza. Il veneziano non può che riflettere su dinamiche che ha subito o imposto o perlomeno visto accadere coi propri occhi. Non può che sorridere nel riconoscere accenni abili a “tipicità locali”, come il mito di personaggi dalla dubbia onorabilità tipo “Il Coyote” o la musica rock sparata al massimo in una stanzetta ingiallita, per non parlare di quell’occhio un po’ pallato che fa di Piero un personaggio a tratti psicadelico. E non può non sentire che, nel suo quotidiano, non vive a sufficienza quella Laguna mozzafiato su cui la pellicola indugia ripetutamente. Il “foresto”, invece, ha l’opportunità di comprendere cosa vuol dire lasciare la propria casa per costrizione e non per scelta, e come un turismo eccessivo e onnivoro può contribuire a dare il colpo di grazia a una città già fortemente spopolata.
La scena finale è volutamente una provocazione, con le moeche che si impossessano fisicamente della casa svuotata dei suoi abitanti, quasi a voler render loro giustizia. Sono esageratamente tante, brulicano ovunque e le ha portate lì Piero il ladro, per il quale le chiavi di casa non sono un problema, e che ancora va a pescare, anche se ormai solo per diletto. Ne emerge un paradosso, che lascia lo spettatore inqueito. Il film che racconta con verosimiglianza le dinamiche della città, all’ultimo presenta una scena marcatamente fittizia, proprio quando è maggiore la consapevolezza che, nella realtà, non vince la moeca, ma l’affittanza turistica.

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