Ora e sempre resilienza

Tutt’altro che parola nuova, gode oggi di una diffusa simpatia e una altrettanto più recente antipatia. Il suo uso è diventato davvero invasivo. Al pari di uno slogan pubblicitario dal vago sapore eco-compatibile, dove tutto ormai lo è, indipendentemente dal fatto di essere vero o meno.
ALBERTO FERRIGOLO
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Ora è sempre resistenza? No, ora è solo e sempre resilienza! È la parola chiave di questa fine-inizio di seconda e terza decade del terzo millennio. Le città non muoiono più anche se chiedono aiuto, come Venezia per esempio. Almeno così come campeggia dalla foto di copertina di un libro di immagini e brevi testi, stampato a scopo benefico, che ritraggono e raccontano storia e vita della città lagunare. Quindi ora “Venezia è viva”, secondo l’interpretazione, sia pur nel suo essere semi-sprofondata, acciaccata e piena di magagne. Con l’acqua che entra ed esce, a piacere, inondandola a diverse altezze, a seconda delle maree. Mose non ostacolando. Civita di Bagnoregio, “il paese che muore”, arroccato su una roccia di tufo pericolante del viterbese, come l’aveva ribattezzato già nell’Ottocento il suo più illustre concittadino, lo scrittore Bonaventura Tecchi, non muore più, ma è resiliente. In lotta perenne con le disavventure della vita, tra frane e crolli, ma in un equilibrio continuo tra uomo e natura. Dove il primo si adatta alle difficoltà e alle continue trasformazioni del luogo in maniera, appunto, resiliente.

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La resilienza è, perciò, l’adattamento ai disagi e alle difficoltà dell’esistenza. Aderendovi, forse per meglio schivarli. È un po’ come il Cynar, che si beve “contro il logorio della vita moderna”, per citare lo slogan pubblicitario fortunato e di successo interpretato negli anni Settanta dall’attore Ernesto Calindri. Secondo il dizionario Treccani la resilienza è “la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi”. È l’antifragilità. In psicologia, è “la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà”. Una definizione che guarda in positivo. Ben oltre gli impedimenti contingenti. Se applicato ad un’intera comunità, il termine resilienza indica allora la capacità di un gruppo sociale di affrontare, sempre in modo positivo, eventi traumatici o catastrofi naturali, adottando linee guida che consentano la sua sopravvivenza. La resilienza sembra quasi un modo per darsi coraggio. È una lotta per l’esistenza adattandosi alle due trasformazioni continue. Non è resistenza ma acclimatamento. 

Anche l’acronimo Pnrr, varato dal governo Conte, è una sigla che contiene la parola resilienza. Riguarda, appunto, il “Piano nazionale di ripresa e resilienza”, sulla cui base è possibile richiedere e ottenere adeguati finanziamenti dall’Europa nella chiave e nella prospettiva del Recovery Fund.

Obiettivi virtuosi, racchiusi in una cornice in cui il termine resilienza spicca come un evento favolistico in un mondo ordinario come quello del linguaggio tecnico-istituzionale,

annota e ci viene d’aiuto – ad esempio – ancora una volta il Dizionario Treccani. Che sul tema e il significato del termine ci offre anche un suo excursus, avvertendoci che si tratta di “una parola alla moda” di scoperta recente.

La calle più stretta di Venezia (da Twitter Gregory Dowling @GregoryDowling1)

“Resilienza” è tutt’altro che una parola nuova, ma gode oggi di una diffusa simpatia e una altrettanto più recente antipatia, in quanto il suo uso è diventato davvero invasivo. Al pari di uno slogan pubblicitario dal vago sapore eco-compatibile, dove tutto ormai lo è, indipendentemente dal fatto di essere vero o meno. In ecologia, infatti, il suo uso è massiccio. Sono resilienti gli animali, la natura, che si adattano a cambiamenti climatici o alla “frequenza di eventi catastrofici”. La resilienza è elasticità, nel senso più lato del termine. E insieme aderenza. È il non farsi sconvolgere dagli eventi, ma saperli piegare e gestire alla propria dimensione, cambiando noi stessi. È un venire incontro di una specie alle esigenze esterne che mutano. Non è lotta, combattimento per modificare. È inglobare le contraddizioni per conviverci, non per eliminarle, semmai per superarle. Metterle da parte, accantonarle, perché non intralcino il percorso. Ci sono ma si ignorano. O si fa finta che non ci siano. Quanto basta per proseguire il cammino e non esserne disturbati. Resilienza è inglobare la contraddizione per metabolizzarla.

Parola “alla moda”, come ci suggerisce il dizionario Treccani, perché è nel solco dei tempi. Nella resilienza non esiste il conflitto. Tanto meno sociale. O di classe. Per non parlare di quello di genere. Nella resilienza ci si acquatta. Si aderisce. Ci s’adatta. Ci si rende compatibili. Senza alterità. E contrapposizione. “Resilienza è diventata nell’italiano una parola pass-partout, capace di funzionare in qualsiasi campo perché rappresenta forse una promessa, quella cioè di poter sopravvivere, cadere senza farsi del male”, annota ancora il dizionario. In sé, è forse persino una parola neutra. Incolore. Inodore. Insapore. 

È un termine non fine-di-mondo, come lo può essere invece “resistenza”. Che è storicamente e socialmente caratterizzata. Segnata. Resilienza è invece termine di pacificazione. Ottenuta quasi senza sforzi. Portata a casa senza pagare pegno. In maniera quasi gratuita e garantita, tanto più nell’era della sine cura, dove anche il Reddito di cittadinanza è propalato senza criterio e controlli, abbastanza indistintamente. E senza merito alcuno. 

Immagine di copertina: Civita di Bagnoregio (Viterbo) [da Instagram: @little_ania]

Ora e sempre resilienza ultima modifica: 2021-10-30T12:58:20+02:00 da ALBERTO FERRIGOLO
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