Bisogna cambiare. Sembra ormai chiaro a tutti, o almeno alla maggior parte delle persone. La crisi climatica è l’evidenza che il nostro modo di vivere e produrre non è sostenibile da un punto di vista ambientale. Quindi, bisogna cambiare. E per farlo servono sì obiettivi, dichiarazioni di intenti come quelle di appuntamenti internazionali come la COP26 da poco conclusa, che però vanno messi in pratica, nei territori: nelle nostre regioni, nei nostri comuni. Che è dove soffriamo o soffriremo gli effetti del cambiamento climatico, e dove già soffriamo troppo spesso per la situazione delicata in cui versa un ambiente naturale sotto pressione. È il caso del Veneto.
Con Luigi Lazzaro, presidente di Legambiente Veneto, parliamo di come le problematiche globali siano strettamente legate a quelle locali. Parliamo nello specifico della regione Veneto, delle questioni chiave da seguire, dei problemi da risolvere e i nodi da sciogliere per mettere, a ogni livello, davvero in moto la transizione ecologica verso un mondo sostenibile.
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Cominciamo con un tuo commento sulla COP26 terminata da poco.
La notizia positiva è il mantenimento dell’obiettivo di un grado e mezzo [di aumento globale della temperatura, ndr] che ci auguriamo si traduca rapidamente in impegni. Riguardo l’uscita dal carbone, purtroppo sarà un passaggio più graduale, come chiesto da diversi paesi che l’hanno spuntata. Però è vero che le economie emergenti meritano un’attenzione particolare, e che la parte più sviluppata del mondo, quegli stati che negli anni hanno prodotto più emissioni, in qualche modo ne devono rispondere. Dai prossimi summit ci auguriamo una spinta verso impegni concreti globali, senza più rimandare, altrimenti si rischia nei territori di rimanere sempre a testa in su, in attesa di qualcuno che dovrà decidere cosa realizzare. Questo non ci fa stare sereni.

A livello di organizzazione territoriale, qual è il vostro pensiero al riguardo?
È importante che si guardi alle COP e agli accordi internazionali con un’aspettativa come non c’era mai stata negli anni, significa che l’attenzione alla soluzione della crisi climatica non è più prerogativa delle associazioni, degli interessi legati ai temi ambientali, degli addetti ai lavori, ma un fenomeno compreso da tutte le categorie. E dovrebbe essere finalmente compreso anche dalla politica coi fatti. Quello che ci preoccupa è l’idea di uno sguardo sempre rivolto verso l’alto: i territori guardano le regioni, che guardano i governi, che guardano l’Europa, che a sua volta guarda i grandi accordi internazionali con gli altri paesi e quindi le varie COP. Sempre in attesa di una decisione. Quello che non vediamo mai è la ricaduta nei territori. Una volta presi accordi, soddisfacenti o meno, manca la loro applicazione nelle azioni da mettere in campo fino al livello più prossimo alla cittadinanza, che poi è quella che subirà per prima la crisi climatica e dovrà adattarsi, soprattutto nelle aree più esposte ai cambiamenti. Il problema è come si possono coinvolgere, fare partecipare i territori, che devono avere un ruolo centrale nella transizione ecologica, se vogliamo chiamarla così, per risolvere la crisi climatica in corso.
I cui effetti si vedono anche in Veneto: penso a un fenomeno estremo come Vaia.
Sì, o l’acqua alta a Venezia del 2019, per livelli e soprattutto durata. Ma sono aumentati altri fenomeni climatici estremi a livello territoriale e locale, come le trombe d’aria, penso a quella nella riviera del Brenta nel 2015, e poi alluvioni e temporali… Fenomeni che si combinano con la cattiva gestione del territorio, il consumo di suolo, con il problema tipico dei territori di non programmare sempre con la dovuta ampiezza di vedute. Il tema del consumo di suolo, che continua ad avanzare, è invece una delle questioni che deve essere messa al centro quando parliamo di adattamento climatico.

C’è poi la questione energetica.
Esatto, la questione della produzione di energie rinnovabili su cui il Veneto è in grave ritardo. Mentre siamo grandi consumatori di energia, essendo una delle regioni dell’area padana che ha più imprese. E quindi consumiamo molte energie fossili, o energie verdi che vengono comunque da altri territori. Ma mi chiedo, allora, qual è il ruolo di questa regione, se non quello di partecipare al raggiungimento degli obiettivi, la riduzione ad esempio del 55 per cento delle emissione climalteranti? La riduzione va raggiunta anche nei territori. Ma se non mettiamo in moto azioni concrete significa che continuiamo ad aspettare che queste riduzioni avvengano indipendentemente dai governi locali, magari per scelte che qualcuno ci imporrà, a livello nazionale. Magari, aggiungo, creando iniquità sociali, perché quando manca la partecipazione, il coinvolgimento del cittadino, dei soggetti e delle categorie, nascono i conflitti: lo stiamo vedendo in altri ambiti, penso a quello sanitario. È abbastanza evidente.
Tra i provvedimenti del governo in linea con gli obiettivi europei c’è il piano di uscita dal carbone. Una delle centrali attive è quella di Fusina. Qual è il suo futuro?
Nel 2023 dovrebbe esserci la dismissione, Enel parlava addirittura di anticipare, perché la scelta è convertire. Però così apriamo un’altra questione: se queste centrali debbano trasformarsi o essere dismesse. Purtroppo, molte saranno riconvertite, forse anche quella di Fusina, a gas metano, che è sempre un combustibile fossile. È vero che il metano è una fonte energetica con un impatto minore del carbone, e venti anni fa si poteva considerare di transizione, ma rimane una fonte fossile che oggi deve essere sostituita. Qui si apre un ragionamento in cui di nuovo i territori giocano un ruolo fondamentale, perché anche l’insediamento di impiantistica nel territorio sia commisurato agli impegni globali. Se continuiamo senza un piano concreto di uscita dalle fossili faremo poca strada, mentre bisogna mettere in campo nuovi modelli di produzione da rinnovabili. Per un’area come quella di Venezia, ad esempio, penso al fotovoltaico, che si può fare in area industriale, come si può fare il galleggiante in laguna. L’innovazione oggi spinge verso modelli di generazione distribuita che vanno presi in considerazione e non emarginati per favorire la produzione energetica tradizionale concentrata in grandi impianti, com’è il caso di Fusina.
Con la COP26 si è preso globalmente un impegno a piantare molti alberi. Da questo punto di vista, qual è la situazione in Veneto? Ci sono progetti?
Sì, ce ne sono molti. Questo è il fronte sul quale possiamo avere più speranze dal punto di vista dell’impegno dei territori, perché l’idea di piantare alberi e mantenere ed espandere l’ambiente naturale è presente anche a livello locale. Tra i vari progetti ce n’è uno interessante delle regioni del Nord, “Ridiamo il Sorriso alla Pianura Padana”, che stimola il ritiro gratuito e la piantumazione di alberature da parte dei cittadini, invitandoli a essere protagonisti. Certo, non è molto lo spazio che ci rimane dove piantare, e va migliorata l’organizzazione delle aree verdi e la loro valorizzazione come luoghi di crescita e “cultura di biodiversità”. Il problema è che a causa del consumo di suolo la nostra rete naturale è molto sconnessa e sfilacciata, di conseguenza le aree protette sono poche e ciò mette a rischio la biodiversità. Quindi l’impegno a piantare alberi è una cosa molto bella e importante che dovremo però guidare, per creare corridoi ecologici, infrastrutture verdi e aree protette. Anche per assecondare in maniera intelligente la voglia di natura che abbiamo visto crescere con la pandemia, e trasformarla da “assalto” alle aree verdi a una migliore capacità di proteggerle e metterle in rete, soprattutto in pianura dove ne abbiamo più bisogno, anche da un punto di vista della salute: perché il loro impatto non è solo sulla CO2 ma sull’assorbimento di tutti gli inquinanti.
Passiamo a un altro elemento fondamentale della transizione ecologica: fra poco inizia l’Ecoforum sull’economia circolare organizzato da Legambiente Veneto…
Sì, questa è la sesta edizione a livello regionale, ma da molti anni realizziamo il rapporto annuale Comuni Ricicloni, che parla dei comuni più virtuosi capaci non solo di riciclare ma anche di produrre meno rifiuti indifferenziati a smaltimento, quelli che vanno a incenerimento o in discarica, che sono i due problemi alla fine della catena dei rifiuti. Oggi possono essere superati grazie a una spinta maggiore verso l’economia circolare, il modello che dovrà prendere il sopravvento: riduzione del rifiuto e aumento della produzione di materia prima seconda. Il Veneto in questo è virtuoso. Ad esempio, per il riciclo di pannolini e prodotti assorbenti, con il primo impianto realizzato a Treviso, il Veneto è leader mondiale. Ma è leader anche nelle bioplastiche, per esempio con l’impianto di Adria, il primoal mondo a produrre biobutandiolo, una molecola chimica finora ottenuta industrialmente solo da fonti fossili, base per produrre plastica da fonti vegetali. Sono due aspetti che devono andare assieme: in Veneto c’è una grande capacità dei territori di differenziare e riciclare, siamo la prima regione in Italia in questo, ma anche nella capacità di ridurre il rifiuto che va a discarica e incenerimento. E da un punto di vista della politica regionale c’è un’ambizione a migliorare ancora, che è un dato positivo. È anche vero che se come regione andiamo molto bene ci sono territori come la provincia di Treviso che sono un’eccellenza ma altri, come la provincia di Verona, che sono invece restii a migliorare o addirittura negli anni sono peggiorati.

C’è ancora molto da fare, quindi.
Assolutamente. Dai modelli di raccolta all’impiantistica, la gestione dei rifiuti è da analizzare con attenzione, ma è anche l’area in cui si stanno aprendo nuove frontiere per l’economia: gli investimenti in economia circolare possono garantire alle imprese di rinnovarsi.
Ci sono poi questioni importanti da affrontare per interi settori, come quello del tessile. Il riciclo del tessile diventerà obbligatorio dal 2024, cosa che ancora non è: oggi i vestiti, se non li destiniamo a una filiera autorganizzata di recupero (i famosi bidoni gialli ad esempio) li buttiamo nel secco. E qui bisogna fare attenzione, perché c’è stato un grande cambiamento nel tessile: si è passati dalle fibre naturali alle sintetiche, per la maggior parte dell’abbigliamento, e c’è il problema della gestione di questi prodotti. Qui l’economia circolare può aiutarci molto e l’impiantistica giocherà un ruolo cruciale. In Veneto in questo siamo oggi all’avanguardia, per capacità di amministratori ed enti di gestione dei rifiuti (in maggioranza pubblici), di impiantistica e innovazione tecnologica: risorse da mettere in campo per creare strumenti e modelli che ci auguriamo verranno copiati anche fuori dalla regione. E ci auguriamo anche che arrivino in materia norme più snelle ed efficaci per agevolare lo sviluppo di tutta l’impiantistica del riciclo.
La gestione dei rifiuti è dunque una delle questioni più importanti per voi, nel presente e nel prossimo futuro.
Sicuramente la seguiamo con grande fermento associativo, perché è un tema cruciale. Anche perché è in corso una revisione del piano rifiuti regionale del Veneto che prevede cambiamenti importanti. Con l’introduzione della tariffa regionale unica di smaltimento, si equipara il costo della discarica a quello dell’incenerimento per uscire dal paradossale lievitare dei prezzi che ancora oggi vede le discariche più convenienti. E con obiettivi alti come l’84 per cento di raccolta differenziata e 80 kg-anno-abitante di secco a smaltimento si sostanzia un principio che Legambiente sostiene da anni: chi inquina paga. L’obiettivo è non arrivare né a incenerimento né a discarica coi rifiuti, ma una quota comunque ci arriva ed è meglio che vada a un impianto di incenerimento, che nella gerarchia del rifiuto viene – per quanto poco – prima della discarica, garantendo nonostante tutto degli standard di qualità nella gestione del rifiuto, delle emissioni inquinanti e nel trattamento del residuo. Dobbiamo chiudere le discariche e finirla di sotterrare rifiuti che provocano enormi danni ambientali. E poi mettere a dieta ferrea gli inceneritori. Ecco, quando sarà approvato questo piano, non si penserà più di smaltire i rifiuti “dove costa meno” ma secondo una gerarchia premiante per il riciclo definita dall’Europa e riconosciuta a livello globale.

Oltre ai rifiuti la Regione Veneto sta pensando anche alla questione della produzione di energia rinnovabile, che prima hai definito deficitaria?
Sappiamo che si sta pensando a un nuovo piano energia regionale, vediamo cosa sarà. Noi ora ci stiamo concentrando sul fotovoltaico, che sappiamo sarà la prima fonte rinnovabile, e la gestione dell’impatto che i nuovi impianti avranno nel territorio. Perché stanno cominciando ad arrivare proposte di nuovi grandi impianti, sempre pensati con il principio della concentrazione e non della distribuzione, che invece noi preferiremmo. I grandi impianti a terra possono essere un problema per i territori perché vanno comunque a occupare un suolo e a renderlo in qualche modo infertile o non più utilizzabile da un punto di vista agricolo o per altri usi, quindi c’è una riflessione profonda da fare. Esistono tecnologie innovative, come quello che oggi viene chiamato agrivoltaico, che combinano produzione energetica e agricola sullo stesso terreno. Il Veneto su questo sembra restio, noi invece ci stiamo lavorando con impegno, per trovare alleanze strategiche, anche con i produttori e gli installatori di energie rinnovabili, e con gli agricoltori stessi.
E vorremmo inoltre che si iniziasse a ragionare anche qui di comunità energetiche, un modo di produrre e consumare energia più virtuoso che la Regione dovrebbe cercare di favorire.
E per quanto riguarda l’inquinamento dell’aria?
Altro tema importante. Anche qui è in previsione una revisione del piano dell’aria regionale. Ormai siamo in piena condanna europea: come Italia pagheremo fino a 3 miliardi all’anno se non interveniamo per invertire la rotta, come Veneto tra i 300 e 500 milioni. È un tema importante, che seguiamo con attenzione, legato chiaramente alla decarbonizzazione ma che investe la salute: 50-60mila morti premature in Italia all’anno, prevalentemente nel Nord, legate a danni da inquinamento atmosferico, sono una questione sanitaria da affrontare al più presto.
Dall’aria, passiamo all’acqua. Nello specifico al caso Pfas, alla Miteni. C’è un processo in corso, ora.
Sì, è iniziato da poco e vediamo dove ci porterà. Siamo parte civile come Legambiente, sia col circolo territoriale di Cologna Veneta sia con l’associazione a livello regionale e nazionale. In generale, è importante che siano stati confermati tra gli imputati a processo sia Mitsubishi Corporation sia ICIG, le due multinazionali che hanno rilevato Miteni prima del fallimento, perché se saranno accertate delle responsabilità civili ci sarà anche speranza di attuare interventi per risanare il territorio. La situazione è grave e bisogna pensare a una bonifica non solo del sito dell’azienda ma anche della falda, cosa molto complicata da fare ma che va fatta, in un’area di emungimento acquifero molto importante per l’agricoltura e l’utilizzo industriale. Non va dimenticato che è l’area della concia, le produzioni conciarie sono importantissime e utilizzano acqua, come utilizzano anche i perfluorati alchilici.
Il problema Pfas è ampio e non tocca solo il Veneto, altre regioni hanno rilevato presenze a livello di allerta. Parliamo di un inquinante di riconosciuta pericolosità per l’essere umano, di prodotti di largo utilizzo e consumo, impermeabilizzanti che persistono e ritroviamo anche come scarto nel ciclo dei rifiuti, nelle acque di depurazione; finiscono anche nei fanghi di percolato delle discariche da dove poi deriva un materiale che deve essere trattato e conferito, per cui questo inquinante rischiamo di portarlo in giro, visto che la gestione dei rifiuti non urbani non ha dimensione di prossimità e si possono trasportare da un territorio all’altro. Si possono creare problematicità di contaminazione di elementi come acque superficiali, falde acquifere o altre situazioni di rischio per la popolazione, ad esempio anche tramite l’incenerimento dei fanghi, perché con le tecnologie di oggi questo inquinante non viene distrutto e si può disperdere anche per via aerea.

C’è una soluzione a tutto questo?
Cominciare con l’introduzione di limiti, che oggi a livello nazionale non ci sono, e poi spingere anche l’Europa a ragionare con più urgenza sull’uscita dall’utilizzo di questi componenti, che usiamo per impermeabilizzare quasi tutto e possono oggi essere sostituiti. L’innovazione e la ricerca hanno trovato alternative su base naturale, il cui utilizzo va incentivato. Si può fare e ci auguriamo si decida presto di farlo.
I Pfas, poi, sono parte del gruppo più ampio degli inquinanti emergenti, di cui fanno parte anche le microplastiche – altro tema che l’associazione segue con monitoraggi e dossier dedicati da diverso tempo – o i pesticidi o altri fitofarmaci la cui presenza oggi purtroppo comincia a riscontrarsi nelle acque superficiali e anche in quelle di falda.
Insomma, c’è molto da fare.
Sì, ci sono molte questioni aperte, il tutto nella cornice del cambiamento climatico e di quella ricaduta a cui accennavo prima, dalle grandi COP ai territori. C’è da capire come gli obiettivi ambiziosi che ci dobbiamo prefiggere si trasformeranno nella pratica, con le risorse messe già a disposizione dal Pnrr, dedicate alla transizione ecologica. Arriveranno progetti e potranno essere, ci auguriamo, positivi. Ma conoscendo la storia del nostro paese, potranno arrivare anche tanti progetti meno positivi. Penso alle infrastrutture stradali – in cui il Veneto è stato e continua a essere, purtroppo, leader – che spesso non sono progetti compatibili con gli obiettivi globali. Anche su questo cercheremo di intervenire, provando ad arginare un’idea sbagliata di sviluppo che ormai tutti hanno capito che non va bene ma che continua a persistere, soprattutto nei luoghi delle decisioni. Questa è una riflessione che dobbiamo fare tutti, insieme, al più presto.
Immagine di copertina di Alberto Caliman su Unsplash

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