La vicenda delle linee guida della Commissione per i propri funzionari ha suscitato enormi polemiche. Reazioni immotivate, come ytali ha avuto già occasione di sottolineare, frutto di incomprensioni, manipolazione e, in alcuni casi, di sciatteria giornalistica. È pertanto necessario soffermarsi ancora sulla vicenda. Perché mette in evidenza alcuni aspetti culturali dei principali quotidiani italiani, da destra a sinistra.
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Lasciano basiti i toni degli attacchi alle linee guida e a Helena Dalli, commissaria europea per l’uguaglianza. Un misto di insulti e banalità, mescolate a stereotipi, a cui si sono prestati politici e giornalisti di destra e di sinistra. Mi soffermo però su Francesco Merlo di Repubblica e Francesco Battistini del Corriere della Sera, i principali quotidiani italiani. I due giornalisti infatti rappresentano i contenuti del documento in maniera scorretta, esagerando o riportandone le parole in modo caricaturale. Un tentativo di confutare la sostanza delle linee guida, basato tuttavia su elementi spesso non corrispondenti al vero o esagerati. Merlo ad esempio attacca le linee guida come “il nuovo linguaggio inclusivo che esclude” e attacca la Commissaria, “la signora” che “non ha chiesto ai wahabiti la sostituzione della mezzaluna con orsacchiotto”. Anzi, ricorda Merlo, “che nessun ayatollah ha avuto mai il coraggio di proibire il capodanno zoroastriano” e che il “presepio multirazziale” è “una farsa bislacca”. Ora le ipotesi sono che Merlo non abbia letto le linee guida oppure non ne abbia compreso l’obiettivo. Gli argomenti che fornisce non c’entrano nulla. Nessuno ha chiesto di non festeggiare o abolire il Natale. Le linee guida sono documenti ad uso dell’amministrazione e a questa si rivolgono. E non c’è una segretezza ricercata da parte della Commissione, come sembra dire Battistini sul Corriere, quando dice che le “comiche tabelle” dovevano restare riservate. Il ritiro poi è interpretato come una vittoria dell’Italia e non piuttosto il risultato della politica delle istituzioni europee di eliminare qualsiasi fonte di polemica politica.

Si trattava però di linee guida, diffuse in tutte le istituzioni internazionali, e non solo, per aiutare a riflettere – e non imporre – su alcune modalità di espressione scritta o di organizzazione di eventi. Soltanto una lettura sciatta del documento può vederlo come un’imposizione al pubblico in generale o agli stessi funzionari. Piuttosto le linee guida incoraggiano i servizi amministrativi a prestare la dovuta attenzione alla dimensione della lingua nelle varie attività che svolgono.
La scarsità delle argomentazioni dei giornalisti citati è condita poi da frasi di circostanza, espressione delle retorica davvero mainstream e priva di qualsiasi fondamento, che sono la pura e semplice opinione di Merlo e Battistini, dai quali, visto il ruolo di opinion-makers nella carta stampata, ci si attenderebbero delle riflessioni più ragionate e non editoriali che assomigliano più ai post che molti di noi possono scrivere e leggere sui social media.

Fatti manipolati, nessun dato ed esperienze personali a sostegno di argomentazioni che forse ritengono deboli, se devono aggiungervi tutta questa serie di elementi. Merlo ad esempio ritiene che questo documento “di raro umorismo, opera ripudiata per troppa vergogna”, “grottesco”, “comico” e “allarmante”, sia “una difesa non richiesta perché nessun musulmano, nessun indù, nessun scintoista… si sente offeso quando incontra una Maria o un Giovanni”. Anche qui si mescolano gli argomenti, ma il filo sottile che li unisce è essenzialmente un travisamento completo delle linee guida interne, che Merlo come buona parte della classe dirigente, politica e non, di questo paese, ha inteso come estese alla generalità della popolazione europea. Il tutto condito da aneddotica – “nessun musulmano, nessun indù, nessun scintoista… si sente offeso” – che si basa probabilmente sull’esperienza personale di Merlo. O forse no. Forse si tratta semplicemente di argomenti retorici per imporre la propria tesi, mancando però di sostanza. Il tutto sostenuto da attacchi personali contro la Commissaria – “una grande maleducata” dice Merlo – che non aggiungono nulla alle già assenti argomentazioni. Battistini si spinge più in là dicendo che praticamente la commissaria è una cretina, concludendo il pezzo contro le linee guida sul linguaggio unbiased – non marcato cioè da pregiudizi e stereotipi – ovviamente con stereotipi e pregiudizi: la commissaria Dalli infatti è stata Miss Malta, ha vinto un concorso di bellezza e ha fatto l’attrice e la modella. Cosa si può pretendere?
Di solito argomenti di questo tipo si chiamano fallacie logiche e sono forzature, volute o meno, per inquinare il dibattito. E in effetti i due articoli, così come quelli di altri, sono fini a se stessi, o meglio, fini al dibattito politico-giornalistico tutto italiano. Il tempo della polemica e poi tutto torna nel dimenticatoio. Però dicono anche qualcosa di più della stampa e della classe politica, che va al di là della evidente strumentalizzazione fatta dalla destra identitaria italiana.

Il punto delle loro riflessioni infatti non è mai espresso chiaramente. La difesa del Natale e delle radici cristiane minacciate dall’Unione europea sembra soltanto l’espressione più marcatamente visibile di un rifiuto a riconoscere non solo che viviamo in una società più complessa ma che esistono dei pregiudizi e degli stereotipi innati, che si esprimono nel linguaggio. La riflessione di cui avremmo bisogno è proprio sul ruolo di quei pregiudizi e stereotipi nelle nostre società e non la reazione scomposta che c’è stata. Una discussione che può essere tranquilla, che merita di essere avviata e rispetto alla quale vi possono essere posizioni differenti.
Prendiamo il caso del colonialismo, questione sensibile nel dibattito pubblico europeo. Battistini si prende gioco del termine “colonisation of Mars”. Si può essere d’accordo o meno sul suggerimento delle linee guida e si può pensare che sia ridicolo. Tuttavia c’è una riflessione sul fatto che “colonisation” abbia un aspetto semantico ben preciso. Entra a far parte della lingua inglese nel XVII secolo ed è strettamente legato all’epoca dell’espansione territoriale delle potenze europee a scapito delle popolazioni indigene delle “colonie” e all’applicazione di metodi di governo di sfruttamento sulle colonie stesse da parte dei paesi europei. Ora uno dei problemi che l’Europa si trova ad affrontare è proprio quello del giudizio complessivo sulle cosiddette “imprese coloniali”. Ancora più oggi, dato che in Europa vivono molti discendenti di quelle popolazioni. Un giudizio che in molti paesi è parzialmente assolutorio oppure fondato su un’idea mitologica del “colonialismo” oppure completamente dimenticato nel discorso pubblico e, soprattutto, nella scuola.
Ed è purtroppo il caso quest’ultimo dell’Italia. Il dibattito che in questo paese alcuni hanno fatto sulla risignificazione dei monumenti o sul cambiamento di nome delle strade italiane è stato immediatamente respinto al mittente. Perché? Perché una discussione limpida e serena, comporta una revisione della narrazione mitologica che il paese si è dato in decenni, in particolare quello degli “Italiani brava gente” che si è solitamente accompagnato al mito dell’“imposizione di scelte” da parte di attori esterni. Il colonialismo italiano o le leggi razziali, ad esempio, altro non sarebbero che il frutto di imposizioni esterne, dal Regno Unito alla Germania nazista. Che il fascismo italiano avesse già costruito delle immagini di superiorità biologica della “razza italiana” nel contesto dei propri territori in Africa, poco importa.

Le parole però hanno una storia e riflettere su quella storia è anche un modo per cercare di migliorare noi stessi. Che l’uso del linguaggio unbiased susciti ilarità o peggio scandalo, la dice lunga sulla nostra società in primis. D’altra parte questo è il paese in cui si difendono le molestie contro le donne o si insulta la comunità LGBTQ in diretta sulla televisione pubblica. In realtà, appunto, la storia delle parole è spesso il motivo per cui alcune non le utilizziamo più o dovremmo non utilizzarle più. Tullio De Mauro in un articolo su Internazionale per descrivere il lavoro della commissione Jo Cox del Parlamento italiano sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio, ne aveva censite e classificate parecchie.
Assistiamo invece nel tempo a tentativi di ripristinare l’uso di alcuni termini come un gesto di libertà di espressione. E la critica a questa presunta libertà di espressione è considerata come una sorta di polizia morale. L’intento infatti, dicono, non è quello di offendere ma di utilizzare delle parole nel loro significato originario – quale? – come se queste non avessero alcuna storia e il loro utilizzo non fosse accompagnato da stereotipi e pregiudizi. Ed è un fenomeno, vista la reazione, che nella stampa non è limitato ai quotidiani come Il Giornale o Libero. Questa difficoltà a riconoscere che stereotipi e pregiudizi possano essere veicolati dal linguaggio scompare improvvisamente quando però riguardano la “maggioranza”, come l’ha chiamata Merlo. Improvvisamente quelli che guardano al linguaggio che veicola pregiudizi e stereotipi con indifferenza, bonomia e anche divertimento quando riguardano altri, si lanciano in battaglie epocali quando riguardano l’Italia e gli italiani. La regola d’oro, che qualche radice cristiana ha, del “non fare agli altri quello che vuoi non sia fatto a te” scompare così velocemente come appare quando è in gioco, invece, l’onore della “maggioranza”.
La confusione di base è che l’utilizzo di un linguaggio irrispettoso – i cui confini, dicono, è la maggioranza stessa che dovrebbe definirli e non le persone oggetto di quel linguaggio – e che non sia veicolo di pregiudizi e stereotipi non comporta necessariamente un’accusa di sessismo o razzismo nei confronti delle persone. Il fatto che alcuni pregiudizi e stereotipi siano innati non significa che le persone che le utilizzano siano moralmente condannabili. Purché se ne rendano conto. E la difficoltà sembra essere quella. Perché per rendersene conto si dovrebbe avviare una riflessione profonda sul ruolo storico di pregiudizi e stereotipi nelle nostre società.
È davvero un problema che un’istituzione di una realtà politica complessa come è quella europea cerchi di evitare le etichette che possono risultare offensive da parte del gruppo di cui si parla? È difficile capire che certi termini e certe idee che sembrano innocui in realtà sono insensibili o offensivi per i gruppi minoritari o storicamente emarginati? È difficile capire che queste parole che utilizziamo senza pensarci sono state in grado di radicarsi nella nostra lingua in gran parte perché i gruppi in questione hanno avuto o hanno tradizionalmente poco potere?
La risposta che di solito si sente è che c’è troppa sensibilità e che si creano problemi là dove non ve ne dovrebbero essere, scaricando il problema sulle persone oggetto del linguaggio biased. Minoranze lamentose, come bambini viziati, che farebbero bene ad occuparsi di problemi più seri. Ecco appunto è questo il messaggio che viene trasmesso anche dalla stampa: le minoranze non rompano le scatole e si adeguino.

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