Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, per tutti Sócrates, dottore lo era davvero. Era un uomo di cultura, profondamente di sinistra, ideologo e promotore di quella che venne ribattezzata “democrazia corinthiana” nel Brasile della dittatura e della ferocia, quando essere comunisti si pagava spesso con la vita. E lui, invece, lo era, con quella barba folta e nera da profeta moderno, quasi da predicatore, quelle movenze inimitabili sul campo, quello spirito indomito che lo induceva a battersi sempre e comunque dalla parte degli ultimi, dei deboli e dei disperati.
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Sócrates è stato il lampo del Corinthians, l’idolo e la bandiera di una società che aveva trasformato la ribellione nella propria cifra esistenziale prim’ancora che sportiva. Ed è stato anche il mito di una generazione che vedeva nel suo magno Brasile la riproposizione di quella meraviglia inarrivabile che era stato il Brasile di Pelé e dei cinque numeri 10 schierati in campo contemporaneamente a Città del Messico, quando l’Italia di Valcareggi si permise, invece, il lusso di tenere in campo fino all’84’ il pallone d’oro in carica Rivera, soccombendo per 4 a 1 al cospetto di una maestà forse irripetibile.

Al Brasile di Sócrates e di Zico, di Falcão, di Cerezo e di altri fenomeni che non hanno bisogno di presentazioni mancò solo il titolo mondiale, che andò all’Italia grazie alla tripletta del risorto Pablito nel pomeriggio del Sarriá, in una Barcellona carica di sogni, di attese e di speranze. Eppure, il dottor Sócrates non si perse d’animo, e come molti altri campioni di quel tempo scelse di venire a giocare in Italia, precisamente alla Fiorentina. Fu la sua motivazione ad essere alquanto singolare: non per Mazzola o per Rivera, che affermò, forse mentendo con una punta di aristocratico distacco, di non conoscere nemmeno, ma per leggere Gramsci in italiano. Perché Sócrates era inscindibile dalle sue idee politiche, dalla sua aspirazione a una democrazia compiuta, dai suoi ideali socialisti e volti alla liberazione dell’essere umano da ogni forma di sfruttamento, dalla sua bellezza interiore e dal suo essere una sorta di teologo della liberazione con due piedi benedetti da Nostro Signore.



Sócrates seppe colmare di meraviglia le platee mondiali, seppe riempire di gioia le nostre domeniche, seppe lottare su tutti i campi e seppe portare ovunque nel pianeta il suo Vangelo resistenziale, che aveva come bussola il riscatto dell’uomo dall’oppressione. Era un personaggio singolare, impossibile nel calcio contemporaneo, in questo calcio privo di ideologie e completamente votato al business e all’adorazione del Dio denaro. Fra i suoi sogni c’era quello di andarsene una domenica con il Corinthians campione del Brasile, e questo è prontamente accaduto il 4 dicembre 2011, a soli cinquantasette anni, sconfitto dall’alcol e dagli eccessi di un’esistenza nella quale non si è mai arreso, mai risparmiato, mai lasciato andare ma neanche mai curato abbastanza. Il dottor Sócrates, con le sue lotte, la sua infinita voglia di vivere e il suo dolore esistenziale, profondo come sempre accade ai lottatori indomiti, ci ha detto addio da dieci anni e il vuoto è incolmabile. Ci rimangono, tuttavia, negli occhi il suo talento, la potenza catartica della sua predicazione d’amore e il suo pensiero alternativo, che sapeva concretizzarsi in gesti visibili a tutti e colmi d’umanità e di meraviglia. Ci rimangono la poesia e la classe: ciò che davvero conta in un essere speciale e, temiamo, irripetibile.


In copertina: Socrates partecipando al movimento per la democrazia in Brasile nel 1984. Foto di Jorge Henrique Singh, fonte Wikipedia.

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